IL SOLE TRA I FILI SPINATI


27 gennaio: giorno della memoria che andrebbe celebrato ogni minuto del nostro tempo per non dimenticare lo sterminio della Shoah, fardello indelebile che ha segnato la vergogna del mondo. Morti inspiegabili, infanzie rubate per sempre, ricordi che non si dimenticano (e che non si devono dimenticare). In questa macelleria etnica qualcuno si è potuto salvare grazie al coraggio di uomini qualunque che si sono rivelati veri e propri eroi.

Tra le tante testimonianze di coloro che sono riusciti a sottrarsi al massacro dell’Olocausto ho scelto quella che ha per protagonista un segretario comunale. Il buon agire di questo storico funzionario della pubblica amministrazione (purtroppo sconosciuto ai più), ha permesso ad un gruppo di ebrei di ottenere il via libera per imboccare la strada del sole, quella che per tanti altri è stata solo agognata con lo sguardo proteso tra i fili spinati.

Le carte d'identità sono state lo strumento, la base, il perno della nostra storia. Non so dove mio padre conobbe il segretario del piccolo comune, vicino a Cattolica. Forse andò a chiedere una informazione, forse per avere le carte annonarie. L'impiegato capì che quel signore aveva dei pensieri e un cognome imbarazzante, schedato in chissà quali elenchi. Gli chiese se il problema l'aveva solo lui e mio padre gli spiegò che il problema era grande anche come dimensione: sei noi Rimini, quattro i Finzi più la nonna Finzi, la zia Maria Cantoni vedova d'Angeli e poi il direttore della ditta di mio padre, Guido Vivanti.

Sono brutti cognomi, disse il segretario comunale. E' vero, disse il signor Rimini. Torni tra due giorni - disse il segretario - ci saranno quattordici carte d'identità perfette, una di scorta. Voi siete tredici, una di più perché potreste fare qualche errore nello scrivere i nomi. Mio padre andò e tornò con una busta gialla intestata "Comune di..." con le quattordici carte bianche ma con la firma del podestà e del segretario comunale e il timbro a secco del comune. La sera i miei chiusero bene le porte.

Guido Vivanti aveva una bella grafia nitida e rotonda; era abituato a scrivere le fatture a mano nel nostro magazzino. Aveva una penna stilografica madreperlacea di bachelite azzurrina. Compilò le carte di identità sotto la lampada che scendeva sul tavolo e aveva il contrappeso di porcellana bianca. Scriveva lentamente con grande attenzione.

I cognomi subivano alterazioni impercettibili ma purificatorie. Tutti i Rimini divennero Ruini, tutti i Finzi divennero Franzi. La zia Cantoni divenne Carloni e lui, Vivanti, con un moto d'orgoglio si trasformò in Vivaldi.

Le lievi metamorfosi dovevano servire per evitare eventuali lapsus o per sperare nella disattenzione di chi ci avesse chiesto i documenti avendoci riconosciuti. Una ipotesi macchinosa ma astrattamente possibile. Con quei documenti i Ruini e i Franzi andarono a Mondaino. Dove poi Vivaldi li raggiunse un mese dopo.

La nonna Franzi e la zia Carloni vennero sistemate in un convento di suore a Morciano, dove poi sotto i bombardamenti pregavano in ebraico... e le suore in latino. Mio padre chiese timidamente al segretario comunale cosa poteva fare per lui e il segretario gli rispose che doveva fare buon viaggio, con i suoi figli e i suoi parenti e usare bene le carte di identità che gli aveva dato... perfette, aggiunse, così mio padre capì che la firma del podestà era falsa.


GLI AMICI COME ME


E si ritrovano nel clan dell'abitudine
o al mare a respirare vento di salsedine
Dormono poco e hanno altro da pensare
come le chiacchiere di strada da spazzare



Non sono illusi ma soltanto un po’ delusi
dell'emozione abbandonata tra i rifiuti
Sono scrittori di un romanzo scritto in bianco
Grandi artisti e conformisti ogni tanto

Tutti gli amici come me fanno l'amore in un hotel
con una che ci sta per gioco e da mollare il giorno dopo

Fanno raccolte di cazzate 
e allungano queste giornate
con facce cupe e disperate

Tutti gli amici come me si fanno spesso compagnia
con un panino ed un caffè e con una dose di pazzia

Vanno a ballare in un locale
con tanta noia da fumare
e una speranza da inventare

Sospesi come tanti piccoli aquiloni
a volte troppo riservati e sospettosi
Grandi poeti dell'illogica poesia
bambini eterni con la stessa malattia

Sono soldati di un esercito in battaglia
e fanno a pugni con la vita che non cambia
Sono gli amanti giusti in questi tempi tristi
fanno fatica a vivere come gli adulti

Tutti gli amici come me fanno l'amore in un hotel
con una che ci sta per gioco e da mollare il giorno dopo

Fanno raccolte di cazzate
e allungano queste giornate
con facce cupe e disperate

Tutti gli amici come me non si domandano perché
non sono uguali come gli altri più o meno giovani e distratti

E vanno avanti barcollando
col desiderio di un ritorno
e non si guardano mai intorno


(TRATTO DA V. Borrelli LE PAROLE DEL MIO TEMPO”)

Paolo e Francesca

Amor, ch'a nullo amato amar perdona”, una delle frasi più celebri della letteratura italiana pronunciate da Francesca da Rimini nel quinto canto dell’Inferno di Dante. La storia di un adulterio consumatosi con un bacio innocente al bel Paolo, fratello del marito Gianciotto, brutto e cagnesco, ha appassionato secoli di generazioni divenendo l’emblema della dicotomia tra la libertà di amare e la fedeltà assoluta e suprema.

Gli amanti Paolo e Francesca che tanto commossero Dante fino a farlo svenire dopo aver ascoltato il loro tragico destino, oggi sarebbero anacronistici e fuori dal tempo. L’infedeltà non fa più scalpore, non indigna e non fa più indignare, non fa arrossire nessuno, nemmeno le bianche gote di una monaca di clausura.

Eppure quanto fosse rigida, implacabile, subdola e beffarda la moralità di qualche secolo fa lo si comprende dall’analisi di questa storia d’amore viziata da un antefatto, il matrimonio per procura commissionato dai genitori di lei ed eseguito proprio da Paolo in rappresentanza del fratello Gianciotto. 

Francesca crede di coronare il suo sogno d’amore con il bel Adone salvo svegliarsi il giorno dopo nel letto di colui che nelle sue aspettative avrebbe dovuto essere il cognato e non, come invece fu, il marito.

E l’inganno tira l’altro come il gioco delle ciliegie, sicché la lettura del passo del libro in cui Lancillotto bacia Ginevra (moglie di Re Artù), spinge Paolo a fare altrettanto con la bella Francesca che finalmente si abbandona in quel dolce sentimento da lungo tempo agognato:

mi prese del costui piacer sì forte.”

Un bacio casto che oggi farebbe il solletico alle più disinibite relazioni adulterine ma che all'epoca decretò la condanna dei due sventurati. Gianciotto, infatti, li sorprende proprio nel momento in cui si scambiano questa effusione uccidendoli entrambi. Tragico epilogo che non lascia indifferente Dante.

Il sommo poeta pur collocando i due amanti nell'Inferno della sua Divina Commedia, si commuove fino a perdere i sensi, quasi a voler giustificare il loro comportamento così gentile e cortese:

io venni men così com'io morisse; e caddi come corpo morto cade."

Paolo e Francesca, un amore dannato o reso tale da una moralità ottusa e conservatrice che imperversava nel Medioevo? Nemmeno i posteri hanno saputo emettere l’ardua sentenza.

Forse perché "amor, ch'a nullo amato amar perdona ..."



FELICE ANCHE COSI’

Non si può essere infelici per sempre. Accade che quando tutto gira storto c’è sempre una forza dentro di noi che ci rende ostinati e volitivi, come quando ci si trova in mezzo al mare e si cerca una zattera, o anche solo un pezzo di legno, per restare aggrappati alla vita.

A parte i gesti supremi in cui ci si lascia andare completamente, la metafora dell’annegamento è quanto più di appropriato ci possa essere per spiegare l’energia vitale che alberga in qualche parte di noi e che viene fuori in maniera prorompente quando tutto sembra irrimediabilmente perduto.

Qualcuno di voi ricorderà la notizia di qualche mese fa secondo la quale due perle di saggezza di Albert Einstein lasciate a mo’ di mancia a un corriere di Tokyo, sono state battute all'asta di Gerusalemme per la cifra record di oltre un milione e mezzo di euro.

Il grande scienziato tedesco, all'indomani del suo premio Nobel per la Fisica (si era nel 1921), aveva coniato sulla carta intestata dell’albergo dove alloggiava queste parole:

"Una vita calma e modesta porta più felicità della ricerca del successo abbinata a una costante irrequietezza.” (Frase venduta a 1,3 milioni di euro).

Quando c'è una volontà, esiste una via.” (Venduta a 203 mila euro).

A parte lo scalpore per l’abnorme valore monetario di questi (pur) pregevoli aforismi, c’è una verità semplice che li racchiude e che non può essere sbrigativamente declinata nel motto ovvio e scontato del sapersi accontentare di quello che si ha. Forse la seconda “chicca” più che la prima (che peraltro “vale” anche meno) è quella più vicina alla ricetta della felicità. 

C’è sempre una strada alternativa che possiamo imboccare se quella che stiamo percorrendo ci va stretta e non ci piace. Basta solo che lo vogliamo senza piangerci troppo addosso, perché a nessuno interessa le nostre disgrazie o le nostre lamentele che suscitano più fastidio che comprensione.

E’ il patto di fiducia con se stessi la cura migliore per superare qualsiasi traversia, per scrollarsi di dosso le cose e le persone inutili, quelle che abbiamo incrociato sfortunatamente nel nostro cammino e che ci hanno procurato solo dolore, sofferenza, solitudine.

Ed allora si può essere felici anche così, a condizione che quello che si ha sia il frutto di una scelta libera e incondizionata, avulsa da schemi precostituiti che ci impongono di stare con chi non vogliamo o di comportarci per il solo piacere altrui.

La metafora del naufrago che si aggrappa a qualsiasi cosa pur di non sprofondare negli abissi dell’indifferenza altro non è che la forza divina della vita: per gli animali è  istinto di sopravvivenza, per gli uomini amore supremo per se stessi.

Felice anche così, dunque, con gli occhi spalancati sul mare come il ragazzo della foto. 

Meglio in bianco e nero perché i colori, i più belli, sono nell'anima.