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Squilla il telefono, so chi è ma non voglio rispondere. Indugio
per alcuni secondi, poi alzo la cornetta e rischiaro la voce come un attore che
si appresta ad entrare in scena.
“Ci hai messo tanto a rispondere. Che
stavi facendo?”
“Niente. Guardavo la mia casa di vetro.”
“Ti piace così tanto?”
“Sì.”
“Lo sai che tra poco dovrai lasciarla?”
“Devo proprio farlo?”
“Sì, il momento è arrivato.”
“Concedimi ancora qualche giorno. Fammi
godere ancora della sua bellezza, dei suoi profumi, del tepore delle sue cose,
di ogni centimetro dei suoi spazi.”
“Lo sai che non è possibile. E poi sarebbe
come prolungare inutilmente questa agonia.”
“Non è un’agonia. Io sto bene qui. E poi
non so che cosa mi aspetta fuori.”
“Non devi aver paura. Verrò io a prenderti
e ti condurrò per mano verso un altro luogo più bello e confortevole.”
“Ma io sono felice qui.”
“Non lo sei.”
“Sì che lo sono. Sono felice della mia
infelicità, della mia tristezza, del mio dolore. Li ho imprigionati in questa
casa per tenerli sotto controllo e non mi fanno più paura. Ormai sono solo
oggetti, suppellettili, cose inanimate che non agiscono più se non per mia
concessione.”
“Devi uscire.”
“Perché mi costringi ad uscire? Fuori non c’è nessuno che mi
aspetta, nessuno che si è accorto della mia assenza, del mio niente nel quale
sono precipitato in un giorno qualunque, oscuro e nebuloso, che non ricordo
più.”
“C’è un tempo per restare e un tempo per andare via.”
“Dove mi porterai?”
“Ti porterò in un posto sicuro che ti
piacerà. Fidati di me.”
“Devo proprio?”
“Devi.”
“Come farò a riconoscerti? Finora ci siamo
parlati solo al telefono.”
“Aspettami fuori che arrivo tra un
minuto.”
Ho aperto la porta e ho cominciato a
muovere i primi passi come un bambino incerto che inizia a camminare. Ho
avvertito subito un dolore lacerante in ogni parte del corpo: dallo stomaco al
torace, dalle gambe alla testa come un serpente velenoso insinuatosi nelle vene, nei
muscoli, nei capillari. Mi sono piegato in due e ho cominciato a piangere. Le
lacrime mi hanno ingorgato il viso e sono scese giù fino agli angoli della
bocca da dove si sono infilate per raggiungere il palato e poi la gola. Ho
avvertito un sapore aspro, amaro e allora mi sono detto che in fondo tutta la
mia vita è stata amara come queste lacrime che adesso sentivo spargersi
dentro e fuori di me.
La strada davanti a me si è illuminata di
colpo disegnando un percorso chiaro e lineare. Mi sono catapultato su quel
fascio luminoso come un naufrago disperato che tenta di salvarsi prima di
essere inghiottito dalle onde. Non ho sentito più niente, il dolore è
improvvisamente scomparso e così ho proseguito verso quella luce mentre la casa
di vetro crollava alle mie spalle.
LA CASA DI VETRO
Racconto breve
di
Vittoriano Borrelli
La prima parte del racconto è stata pubblicata venerdì, 15 gennaio 2021.
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