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Tra i capolavori di Eduardo De Filippo, “Le voci di dentro” è uno dei più riusciti sotto il profilo dell’impegno sociale del grande drammaturgo partenopeo di portare sul palcoscenico l’analisi minuziosa dell’agire umano traendola fedelmente dalle manifestazioni della vita reale.
Una trasposizione che il grande Maestro della nostra letteratura volge a profitto con un’operazione chirurgica tesa a fotografare le caratterizzazioni tipiche dei comportamenti individuali rispetto ad eventi della vita comune, tali da suscitare nello spettatore una deduzione logica del tutto spontanea rispetto alla propria (o indiretta) esperienza.
Spesso ci serviamo delle fotografie per ricordare momenti più o meno indimenticabili del nostro passato, quasi a volerli immortalare per evitare vuoti di memoria. Nell’opera di Eduardo è la vita stessa che si eleva a ricordo e a rappresentazione visiva di ciò che siamo senza che lo scorrere del tempo possa mai cancellare.
La commedia, scritta nel 1948, e riproposta in diverse rappresentazioni teatrali e televisive (di cui si ricorda la messa in onda del 1978 con una magistrale Pupella Maggio fra gli interpreti), è un ritratto fedele della nostra coscienza nella sua massima rappresentazione simbolica rispetto ad eventi più o meno accaduti. E poco importa se il protagonista Alberto Saporito abbia creduto nel sogno che un certo delitto sia stato commesso dai vicini di casa. Qui sono i comportamenti interiori ad essere reali ed inconfutabili, a dispetto delle prove giudiziarie che l’intervento della magistratura dimostrerà essere del tutto inconsistenti.
Pregevole il j’accuse di Saporito nel finale della commedia:
È la perdita della stima il vero delitto commesso. Una componente della vita interiore che nessun ordinamento giuridico considera ma che ne “Le voci di dentro” assurge a macchia indelebile della nostra coscienza. Ed è una delle più tangibili e implacabili delle condanne.
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