Ti avrò a settembre



Ritrovarti e poi scoprire
che ho inseguito solo la mia ombra
e mi chiedo se i miei anni
sono tanti sotto la tua gonna
Io ti ho vista all'improvviso
e son caduto dentro il tuo sorriso
Ho viaggiato con la mente
ed ho trovato te nel mio presente

Quanta strada ho già percorso
ma con te vorrei fermarmi adesso
Spolverare vecchie idee
e ritrovare tutto ciò che ho perso
Cominciare dal tuo viso
per finire contro il mio destino
stare su di te per aggrapparmi
al sogno che non ho capito

Ma ti avrò a settembre
o nel tempo che verrà
e sarà come sempre
inventarsi una realtà

Io ti avrò a settembre
se un settembre ci sarà
per noi due come sempre
nel domani che verrà
se verrà...se verrà..

Io ti ho già sentita qualche volta
che parlavi della vita
come di una faccia troppo assente
ma pur sempre nostra amica
Se mi chiedi la ragione
per cui ho scelto la tua direzione
non ti so rispondere perché
non so se è grande questo amore

Ma ti avrò a settembre
o nel tempo che verrà
e sarà come sempre
inventarsi una realtà

Io ti avrò a settembre
se un settembre ci sarà
per noi due come sempre
nel domani che verrà
se verrà...se verrà..

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(Tratto da “Le parole del mio tempo”)

(Puoi ascoltare il brano anche cliccando qui: Le mie canzoni sono differenti)


Non esisto più

 


La morte è probabilmente l’evento più temuto dagli esseri viventi. Un tema sul quale molti filosofi hanno costruito le teorie più disparate, attrattive o repulsive di un mistero antico quanto il mondo. “Aut finis aut transitus”, scriveva Seneca per parlare della morte ora come estinzione totale della coscienza individuale, ora come trasmigrazione dell’anima in un altro luogo.

La morte è l’unico problema irrisolvibile: sappiamo che c’è ma non possiamo confrontarci con l’esperienza di chi l’ha vissuta, calcolarne gli effetti per correre ai ripari, magari con una pozione che ci faccia vivere in eterno, possibilmente giovani e belli.

Gli antidoti restano le teorie, più o meno affascinanti, per generare un certo convincimento che è quasi sempre empirico e razionale: la morte e la vita sono in fondo due facce della stessa medaglia. Se c’è l’una, c’è l’altra perché entrambe non si escludono ma coesistono in un ciclo naturale che termina, per gli epicurei, con la dissoluzione assoluta dell’Essere, e per la maggior parte delle dottrine religiose nell’esperienza trascendentale dello Spirito.

La Fede è forse la più razionale delle teorie. Non potendo conoscere in anticipo quello che accadrà “oltre”, ecco che il dogma ecclesiale basato sulla fiducia di passare “a miglior vita” diventa il più ragionevole dei convincimenti. Non è vero che non esisto più, perché dopo una fine c’è sempre un nuovo inizio. Non è forse questo precetto, del tutto razionale, che utilizziamo spesso per andare avanti, per combattere la propria o l’altrui sofferenza?

Parlo della morte ne “Il volo dell’aquila”, testo di apertura de “L’aquila non ritorna”. Qui ho scelto di seguire l’altra opzione di Seneca: “aut transitus”. Alla fine della mia vita terrena mi trasformo in un’aquila che vola libera nel cielo fino a toccare il sole. Rivedo i miei affetti più cari, le persone che ho lasciato, forse all’improvviso o forse con un congruo preavviso, ma so che non posso più tornare indietro. Non ho più paura perché, secondo le parole del grande filosofo romano, quel giorno “che paventi come l’ultimo è il primo dell’eternità”.

Ecco che il ricordo diventa l’anello di congiunzione tra le due opposte esperienze: l’una vissuta con le passioni, l’amore e la sofferenza, e l’altra del tutto ignota ma rigenerante e purificatrice anche del più piccolo dolore.

“Volo più che mai
e più in alto sai
non sento alcun dolore …
Niente resterà dei ricordi miei
Ma puoi farli vivere per me.”

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Buon Ferragosto











Ovunque tu sei in ogni posto

Sotto il sole cocente di ferragosto 

Libera la mente per un momento 

Scaccia i pensieri e ascolta il brusio del vento 

La brezza del mare che agita le onde

La luna le stelle e il silenzio che scende 


Buon ferragosto a tutti i lettori e le lettrici

de "Le parole del mio tempo "


Gli abbracci mancati






Sono cresciuto sotto il tuo sguardo vigile e severo che mi ha incupito anche quando fuori c’era una bella giornata di sole. Mi sono portato dietro questo sguardo negli anni a seguire ed è stato come rivedermi tutte le volte allo specchio senza avere la voglia di sorridere, di lasciarmi andare alla spensieratezza della mia gioventù o alla serenità, composta ed essenziale, della mia età più matura.

Cammino per strada con le mani nascoste nel mio fedele cappotto grigio e mi sembra di essere una figura in bianco e nero rispetto a quelle colorate e variegate che mi girano intorno e che fanno da contraltare al paesaggio asettico e malinconico di questo inizio autunno.

Dove sto andando? Per fortuna c’è Diomira che me lo ricorda con un sms squillante come le campane di una chiesa:

“Sei andato dalla fioraia? Ricordati di prendere i gladioli bianchi che tanto piacevano alla mia povera mamma.”

Rispondo con un ok e mi reco da donna Luisa che anche quest’anno ha addobbato la bancarella con tanti fiori sparsi che quasi faccio fatica a vederla mentre se ne sta rannicchiata, piccola e minuta, sul suo sgabello.

“Buon giorno Giovanni. E la signora Diomira non è con lei?”
“Ha la febbre ma niente di preoccupante. Quest’anno farò il giro da solo.”
“Poveretta! Anch’io sto poco bene ma cosa vuole? In questi giorni c’è tanto da fare che non potevo certo mancare.”

Mi racconta dei suoi acciacchi, del suo sentirsi ormai prossima a passare a miglior vita ma è un ritornello che ho già sentito tante volte che non ci faccio più caso.

Prendo il mazzo di gladioli e varco l’ingresso del viale alberato che mi conduce dopo pochi passi da mia suocera. La foto è un po’ sbiadita ma l’immagine che ne è raffigurata è bella come mia moglie, così somigliante a lei che a volte penso che non ci abbia mai lasciati, che sia sempre presente nei gesti, nelle parole, nelle espressioni austere e filiali di Diomira quando mi raccomanda, ad esempio, di non fare tardi al lavoro, di portare il cane fuori o di usare le pattine per non sporcare la casa.

C’è un legame indissolubile con chi non è più tra noi, nel bene e nel male. E il sorriso di mia suocera sembra confermarlo con quegli occhi sornioni e beffardi che vogliono intendere di essere ancora presente nella nostra vita.

Giungo a te che te ne stai sotto una lapide fredda e spoglia senza nemmeno un fiore o un lumino acceso. Ti hanno lasciato solo, anche quelli che nella tua disgraziata vita ti giravano intorno per interessi personali o per tornaconto. Per loro quel legame indissolubile si è interrotto non appena hai emesso l’ultimo respiro, ma per me non è stato così.

Ho ereditato il tuo sguardo al punto da sentirmelo dentro come l’occhio di una telecamera nascosta che ha registrato ogni cosa di me, ogni respiro, ogni ansia, ogni incertezza e preoccupazione facendomi precipitare nel baratro delle occasioni perdute, delle parole non dette, dei passi incompiuti e delle strade mai percorse.

Dovrei odiarti e ti ho odiato molto, lasciarti di nuovo solo come hanno fatto gli altri con te, ma c’è qualcosa che mi trattiene ed è un maledetto indugio. Tiro dalla tasca il cero che ho acquistato da Luisa, lo accendo e lo appoggio vicino alla tua fotografia.

Il tuo sguardo si fa luminoso luminoso, sembra quasi sorridermi per la prima volta. E per la prima volta mi lascio andare in un pianto liberatorio che mi fa dimenticare di tutti i tuoi abbracci mancati.


GLI ABBRACCI MANCATI

Racconto breve
di
Vittoriano Borrelli

(Ogni riferimento a fatti o a persone è puramente casuale)

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