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Sono
cresciuto sotto il tuo sguardo vigile e severo che mi ha incupito anche quando
fuori c’era una bella giornata di sole. Mi sono portato dietro questo sguardo
negli anni a seguire ed è stato come rivedermi tutte le volte allo specchio
senza avere la voglia di sorridere, di lasciarmi andare nella spensieratezza
della mia gioventù o nella serenità, composta ed essenziale, della mia età più
matura.
Cammino
per strada con le mani nascoste nel mio fedele cappotto grigio e mi sembra di
essere una figura in bianco e nero rispetto a quelle colorate e variegate che
mi girano intorno e che fanno da contrasto al paesaggio asettico e
malinconico di questo inizio autunno.
Dove
sto andando? Per fortuna c’è Diomira che me lo ricorda con un sms squillante
come le campane di una chiesa: “ Sei andato dalla fioraia? Ricordati di
prendere i gladioli bianchi che tanto piacevano alla mia povera mamma.” Rispondo con un ok e mi reco da donna Luisa
che anche quest’anno ha addobbato la bancarella con tanti fiori sparsi che
quasi faccio fatica a vederla mentre se ne sta rannicchiata, piccola e minuta, sul
suo sgabello.
“Buon
giorno Giovanni. E la signora Diomira? Non è con lei?”
“Ha
la febbre, ma niente di preoccupante. Quest’anno farò il giro da solo.”
“Poveretta!
Anch'io sto poco bene, ma cosa vuole? In questi giorni c’è tanto da fare che non
potevo certo mancare.”
Mi
racconta dei suoi acciacchi, del suo sentirsi ormai prossima a passare a
miglior vita ma è un ritornello che ho già sentito tante volte che non ci
faccio più caso.
Prendo
il mazzo di gladioli e varco l’ingresso del viale alberato che mi conduce dopo
pochi passi da mia suocera. La foto è un po’ sbiadita ma l’immagine che ne è
raffigurata è bella come mia moglie, così somigliante a lei che a volte penso
che non ci abbia mai lasciati, che sia sempre presente nei gesti, nelle parole,
nelle espressioni austere e filiali di Diomira quando mi raccomanda, ad
esempio, di non fare tardi al lavoro, di portare il cane fuori o di usare le
pattine per non sporcare la casa.
C’è un legame indissolubile con chi non è più
tra noi, nel bene e nel male. E il sorriso di mia suocera sembra confermarlo
con quegli occhi sornioni e beffardi come a voler dire di essere ancora
presente nella nostra vita.
Giungo
a te che te ne stai sotto una lapide fredda e spoglia senza nemmeno un fiore o
un lumino acceso. Ti hanno lasciato solo, anche quelli che nella tua
disgraziata vita ti giravano intorno per interessi personali o per tornaconto.
Per loro quel legame indissolubile si è interrotto non appena hai emesso
l’ultimo respiro, ma per me non è stato così.
Ho
ereditato il tuo sguardo al punto da sentirmelo dentro come l’occhio di una
telecamera nascosta che ha registrato ogni cosa di me, ogni respiro, ogni
ansia, ogni incertezza e preoccupazione facendomi precipitare nel baratro delle
occasioni perdute, delle parole non dette, dei passi incompiuti e delle strade
mai percorse.
Dovrei
odiarti e ti ho odiato molto, lasciarti di nuovo solo come hanno fatto gli
altri con te, ma c’è qualcosa che mi trattiene ed è un maledetto indugio. Tiro
dalla tasca il cero che ho acquistato da Luisa, lo accendo e lo appoggio vicino
alla tua fotografia.
Il
tuo sguardo si fa luminoso, intenso e splendente che sembra sorridermi per la prima
volta.
E per la prima volta mi lascio andare in un pianto liberatorio senza riserve che mi fa dimenticare per un momento, eterno od effimero, di tutti i tuoi abbracci mancati.
E per la prima volta mi lascio andare in un pianto liberatorio senza riserve che mi fa dimenticare per un momento, eterno od effimero, di tutti i tuoi abbracci mancati.
GLI ABBRACCI
MANCATI
Racconto breve
di
Vittoriano Borrelli
(Ogni riferimento
a fatti o a persone reali è puramente casuale)
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