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Per
gli amanti del neorealismo, ecco un brano del mio Maestro Alberto Moravia
tratto da “Racconti romani” pubblicato per la prima volta nel
1954 dall'editore Valentino Bompiani. Settanta novelle che raccontano l'Italia del dopoguerra in una Roma desolata alle prese con la difficile ricostruzione di se stessa. Vicende forse lontane dal nostro tempo ma con molti tratti caratteristici e comportamenti sociali che si rinvengono ancora oggi sia pure sotto... mentite spoglie.
Era
più forte di me, ogni volta che conoscevo una ragazza, la presentavo a
Rigamonti e lui, regolarmente, me la soffiava. Forse lo facevo per dimostrargli
che anch’io avevo fortuna con le donne, o forse perché non riuscivo a pensar
male di lui e, ogni volta, nonostante il tradimento precedente, ci ricascavo a
considerarlo un amico. E pazienza se avesse fatto le cose con un po’ di
delicatezza, un po’ di educazione; ma si comportava proprio da prepotente, come
se io non ci fossi stato.
Arrivava
a corteggiare la ragazza in mia presenza, a darle degli appuntamenti sotto i
miei occhi. In questi casi, si sa, chi ci rimette, è la persona educata: mentre
lui non si faceva scrupolo di fare i suoi comodi, io invece tacevo per il
timore, provocando una discussione, di mancar di riguardo alla signorina.
Una
volta o due protestai, ma timidamente, perché non so esprimere i miei
sentimenti e quando dentro sono tutto fuoco, di fuori rimango freddo che
nessuno penserebbe che sono in collera. Sapete cosa rispose? “Dà la colpa a te
stesso e non a me se la ragazza ha preferito me, è segno che io ci so fare
meglio di te”. Era vero: come era vero che lui, fisicamente, era meglio di me.
Ma un amico si riconosce appunto dal fatto che lascia stare le donne
dell’amico.
Insomma,
dopo che mi ebbe rifatto quello scherzo quattro o cinque volte, presi a odiarlo
con tanta passione che al bar dove lavoravamo, pur stando dietro al banco con
lui e servendo con lui gli stessi clienti, procuravo sempre di mettermi di
profilo o di spalla per non vederlo. Ormai non pensavo quasi più ai torti che mi
aveva fatto, ma proprio a lui, a come era, e mi accorgevo di non potere più
soffrirlo.
Odiavo
quella sua faccia robusta e stupida, con la fronte bassa, gli occhi piccoli, il
naso grosso e ricurvo, le labbra fiorite e leggermente baffute. Odiavo i suoi capelli
che gli facevano come un casco, neri e lucidi, con due ciocche lunghe che
partendo dalle tempie gli arrivavano fino alla nuca.
Odiavo
le sue braccia pelose che ostentava manovrando in piedi la macchina del caffè.
Soprattutto il naso mi affascinava: largo alle narici, arcuato, grosso, pallido
nel mezzo del viso rubizzo, come se la forza dell'osso ne avesse tesa la pelle.
Pensavo spesso di sferrargli un pugno in pieno su quel naso e di udire l'osso,
crac, schiantarsi sotto il pugno. Sogni, perché sono piccolo e mingherlino e
Rigamonti, con un dito solo, avrebbe potuto atterrarmi.
Non
saprei dire come fu che pensai di ammazzarlo; forse una sera che andammo
insieme a vedere un film americano che si chiamava: "Un delitto
perfetto". Io, veramente, da principio non volevo veramente ammazzarlo ma
soltanto immaginare come mi sarei regolato per farlo. Mi piaceva pensarci la
sera prima di addormentarmi, la mattina prima di levarmi dal letto e, magari,
anche di giorno quando al bar non c'era nulla da fare e Rigamonti seduto sopra
uno sgabello, dietro il banco, leggeva il giornale, chinando sulla pagina
quella sua testa impomatata. Pensavo: "Ora prendo il pestello col quale
rompiamo il ghiaccio e glielo do in testa"; ma così, per gioco.
Era
insomma come quando si è innamorati e tutto il giorno si pensa alla donna e si
fantastica che le si farebbe questo e le si direbbe quest'altro. Soltanto che
io avevo per innamorata Rigamonti e quel piacere che altri prende a immaginare
baci e carezze, io lo trovavo nel sognare la sua morte.
Sempre
per gioco e perché ci trovavo tanto piacere, immaginai un piano in tutti i
particolari. Ma poi, una volta formulato questo piano, mi venne la tentazione
di applicarlo e questa tentazione era così forte che non resistetti più e decisi
di passare all'azione. Ma forse non decisi nulla e mi ritrovai nell'azione
quando credevo ancora di fantasticare. Questo per dire che, proprio come in
amore, feci ogni cosa naturalmente, senza sforzo, senza volontа, quasi senza
rendermene conto.
Incominciai,
dunque, a dirgli, tra una tazza di caffè e l'altra, che conoscevo una ragazza
tanto bella, che questa volta non si trattava di una delle solite ragazze che
piacevano a me e poi lui me le soffiava, ma proprio di una ragazza che aveva
messo gli occhi addosso a lui e voleva lui e nessun altro.
Questo
glielo ripetei giorno per giorno, una settimana di seguito, sempre aggiungendo
nuovi particolari su quell'amore così ardente e fingendo di mostrarmi geloso.
Lui dapprima faceva l'indifferente, e diceva: "Se mi ama, venga al bar...
le offrirò un caffè", ma poi cominciò a snervarsi. Ogni tanto, fingendo di
scherzare, mi domandava: "Di' un po'... e quella ragazza... mi ama
sempre?" Io rispondevo:
"E
come."
"E
che dice?"
"Dice
che le piaci tanto."
"Ma
come?... Che cosa gli piace in me?"
"Tutto,
il naso, i capelli, gli occhi, la bocca, il modo come manovri la macchina del
caffè... tutto, ti dico..."
Insomma
proprio le cose che odiavo in lui, e l'avrei ammazzato soltanto per quelle, io
fingevo che avessero fatto girare la testa a quella ragazza di mia invenzione.
Lui sorrideva e si gonfiava perché era vanitoso oltremodo e si credeva non so
quanto. Si vedeva che in quel suo cervellaccio non faceva che pensarci e che
voleva conoscere la ragazza e l'orgoglio soltanto gli impediva di chiedermelo.
Finché, un giorno, disse stizzito: "O senti... o tu me la fai conoscere...
oppure è meglio che non me ne parli più."
Io
aspettavo queste parole; e subito gli fissai un appuntamento per la sera dopo.
Il mio piano era semplice. Alle dieci staccavamo, ma al bar, fino alle dieci e
mezzo, restava il padrone a fare i conti. Io portavo Rigamonti sotto il
terrapieno della ferrovia di Viterbo, lì accanto, dicendogli che la ragazza ci
aspettava in quel luogo. Alle dieci e un quarto passava il treno e io,
approfittando del rumore, sparavo a Rigamonti con una "Beretta" che
avevo comprato qualche tempo prima a piazza Vittorio. Alle dieci e venti tornavo
al bar a riprendere un pacchetto che ci avevo dimenticato e così il padrone mi
vedeva. Alle dieci e mezzo, al massimo, stavo giа a letto nella portineria
dello stabile, dove il portiere mi affittava una branda per la notte.
Questo
piano l'avevo in parte copiato dal film, soprattutto per quanto riguardava la
combinazione dell'ora e il treno. Poteva anche non riuscire, nel senso che mi
scoprissero. Ma allora restava la soddisfazione di aver sfogato la mia
passione. E io per quella soddisfazione me la sentivo anche di andare in
galera.
Il
giorno dopo avemmo da lavorare parecchio perché era sabato e fu bene perché,
così, lui non mi parlò della ragazza e io non ci pensai. Alle dieci, al solito,
ci togliemmo le giubbe di tela e, salutato il padrone, ce ne uscimmo da sotto
la saracinesca mezzo abbassata.
Il
bar si trovava sul viale che porta all'Acqua Acetosa, proprio a un passo dalla
ferrovia di Viterbo. A quell'ora le ultime coppie avevano lasciato la
montagnola del parco della Rimembranza e per il viale buio, sotto gli alberi,
non ci passava più nessuno. Era aprile, con l'aria giа dolce e un cielo che si
andava pian piano schiarendo, sebbene la luna ancora non si vedesse.
Ci
avviammo per il viale, Rigamonti tutto allegro che mi dava le solite manate
protettive sulle spalle, e io rigido, la mano al petto, sulla pistola che
tenevo nella tasca interna della giacca a vento. Al bivio, lasciammo il viale e
ci inoltrammo per un sentiero erboso, a ridosso del terrapieno della ferrovia.
Lì, per via del terrapieno, faceva più buio che altrove, e anche questo l'avevo
calcolato. Rigamonti camminava avanti e io dietro. Giunti al luogo designato,
poco lontano da un lampione, dissi: "Ha detto di aspettarla qui... vedrai
che tra un momento viene." Lui si fermò, accese una sigaretta e rispose:
"Come barista sei discreto... ma come ruffiano sei insuperabile."
Insomma, continuava ad offendermi.
Era
una localitа veramente solitaria e la luna, sorgendo alle nostre spalle,
illuminava tutta la pianura sotto di noi, annebbiata da una guazza bianca,
sparsa di macchioni bruni e di mucchi di detriti, con il Tevere che vi
serpeggiava, svolta dopo svolta, e pareva d'argento. Mi parve di rabbrividire
per la guazza e dissi a Rigamonti, più per me che per lui: "Sai, minuto
più minuto meno... sta a servizio e deve aspettare che i padroni siano usciti."
Ma lui di rimando: "Ma no, eccola." Allora mi voltai e vidi venirci
incontro per il sentiero una figura nera di donna. Poi me lo dissero che quello
era un luogo frequentato da quelle donne per incontrarci i loro clienti; ma io
non lo sapevo e, lì per lì, quasi pensai che quella ragazza non me l'ero
inventata ed esisteva davvero.
Intanto
Rigamonti, sicuro di sé, le andava incontro e io lo seguii macchinalmente. A
pochi passi, lei uscì dall'ombra, nella luce del fanale, e allora la vidi. E
quasi mi fece paura. Avrà avuto sessant'anni, con certi occhi spiritati dipinti
intorno di nero, il viso infarinato, la bocca rossa, i capelli svolazzanti e un
nastro nero intorno il collo.
Era
proprio una di quelle che cercano i luoghi più bui per non farsi vedere e veramente
non si capisce, da tanto sono vecchie e malandate, come facciano a trovare
ancora dei clienti. Rigamonti, però, prim'ancora di vederla, le aveva giа
chiesto, con la solita sfacciataggine: "Signorina, aspettava noi?"; e
lei, non meno sfacciata, gli aveva risposto: "Sicuro." Poi lui la
scorse finalmente e comprese l'errore. Mosse un passo indietro, disse, incerto:
"Beh, mi dispiace, stasera proprio non posso... ma c'è qui l'amico
mio", fece un salto da parte e scomparve giù per il terrapieno.
Capii
che Rigamonti aveva pensato che io avessi voluto vendicarmi presentandogli,
dopo tante belle ragazze, un mostro di quel genere; e capii pure che il mio
delitto sfumava. Guardai la donna che mi diceva, poveretta, con un sorriso che
pareva la smorfia di una maschera di carnevale: "Bel biondino, me la dai
una sigaretta?"; e mi venne compassione di lei, di me e magari anche di
Rigamonti.
Avevo
provato tanto odio e adesso, non so come, l'odio si era scaricato; e mi vennero
le lagrime agli occhi e pensai che grazie a quella donna non ero diventato un
assassino. Le dissi: "Non ho la sigaretta, ma prendi questa... se la
rivendi ci fai sempre un migliaio di lire;" e le misi in mano la
"Beretta". Poi saltai anch'io giù per il terrapieno, correndo verso
il viale. In quel momento passò il treno di Viterbo, vagone dopo vagone, con
tutti i finestrini illuminati, spargendo faville rosse nella notte. Mi fermai a
guardarlo che si allontanava; e poi ascoltai il rumore finché non si fu spento;
e finalmente me ne tornai a casa.
Il
giorno dopo, al bar, Rigamonti mi disse: "Sai l'avevo capito che sotto
c'era qualche cosa... ma non importa... come scherzo è riuscito." Io lo
guardai e mi accorsi che non lo odiavo più, sebbene fosse sempre lo stesso, con
la stessa fronte, gli stessi occhi, lo stesso naso, gli stessi capelli; le
stesse braccia pelose che ostentava sempre nello stesso modo manovrando la macchina
del caffè.
Tutto
ad un tratto mi sentii più leggero, come se il vento di aprile, che gonfiava la
tenda davanti la porta del bar, mi avesse soffiato dentro. Rigamonti mi diede
due tazzine di caffè da portare a due clienti che si erano seduti al sole, al tavolo
di fuori, e io, pur prendendole, gli dissi, sottovoce: "Stasera ci
vediamo?... ho invitato l'Amelia." Lui sbatté sotto il banco il caffè
sfruttato, riempì i misurini di polvere di caffè fresca, fece sprigionare un
po' di vapore e quindi rispose semplicemente, senza rancore: "Mi dispiace,
ma stasera non posso." Uscii con le tazzine; e mi accorsi che ero deluso
che lui quella sera non venisse e non mi rubasse l'Amelia come tutte le altre.
(TRATTO DA “RACCONTI
ROMANI” DI ALBERTO MORAVIA)
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