LA VITA È BELLA


La vita è bella. Possano le generazioni future liberarla da ogni male, oppressione e violenza e goderla in tutto il suo splendore”. Da questa frase del testamento di Lev Trockij, politico russo  vissuto negli anni delle due guerre mondiali, venne tratto il titolo della celebre pellicola di Roberto Benigni del 1997, pluripremiata nella Notte degli Oscar del 1999 come miglior film straniero, miglior attore protagonista e migliore colonna sonora.

Il film è la spiegazione favoleggiata della tragica esperienza in un campo di concentramento che il protagonista Guido Orefice fornisce al figlioletto Giosuè per preservarlo dagli orrori dell’Olocausto. Un atto d’amore per custodire i buoni sentimenti come si fa con un tesoro prezioso da consegnare ai posteri in un mondo di ritrovata umanità.

Sembra un paradosso che un evento così atroce e disumano possa far mantenere intatto nel cuore di chi l’ha vissuto sentimenti positivi di amore e di fiducia in un futuro migliore. Ma forse la chiave di volta sta proprio in questo: l’eccidio della Shoah è stato così efferato da renderlo irreale, nullo sul piano empirico, perché il dolore estremo non può che retrocedere in favore della rinascita e del rafforzamento dell’idea del cambiamento e del riscatto.

Così da un fatto brutto la vita è bella nel suo splendore e nitidezza perché la luce di una giornata di sole s’impone sempre alla notte, all'oscurità dell’anima e della mente di chi ha agito in modo disumano senza riuscire a scalfire la dignità e la fierezza delle vittime dell’Olocausto.

La vita è bella ed è un messaggio di speranza, il più vero e icastico da rimanere nella memoria dei posteri lasciandosi alle spalle il vuoto e la desolazione degli anni della terribile persecuzione razziale.

La vita è bella perché non dura solo un giorno, non è solo il 27 gennaio a farcelo ricordare come risposta agli orrori della Shoah, ma è in tutti gli altri giorni del calendario che si susseguiranno all'infinito per trionfare sulle macerie della tristezza.

27 GENNAIO
Giornata della memoria delle vittime dell’Olocausto
Istituita con la Legge 20 luglio 2000 n. 211

LE RICORDANZE

La nostalgia del ricordo, le speranze disattese che restano incollate nella memoria, perché lo scorrere del tempo è un cronometro implacabile che non ti fa più tornare indietro. È questa la tematica de “Le ricordanze”, idillio di Giacomo Leopardi scritto nel 1829, che descrive il suo ritorno a Recanati da adulto e disincantato. Elegia struggente e affascinante nello stesso tempo, l’opera è forse una delle più belle del suo ricco repertorio. 

Leopardi non si smentisce nella sua forsennata convinzione dell’inutilità della vita allo spirar della giovinezza , la riprova che i segni del tempo calpestano il candore della quiete dell’infanzia, quando tutto è ancora intatto e possibile. È un filone ricorrente in molti dei suoi scritti, a cominciare dalla celebre “Il sabato del villaggio” del “Garzoncello scherzoso” di “cotesta età fiorita” al quale Leopardi si rivolge per esortarlo a vivere spensieratamente finché le ansie e le preoccupazioni dell’età adulta non prendano il sopravvento: “Godi, fanciullo mio, stato soave. Stagion lieta è cotesta. Altro dirti non vo' ma la tua festa ch'anco tardi a venir non ti sia grave.” 

A ben vedere “Le ricordanze” sono una sorta di riscontro del pensiero leopardiano sul disincanto dell’età matura toccato quasi con mano dopo il ritorno nel luogo natio che è irrimediabilmente cambiato. Tutto non è più come prima, comprese le persone che non ci sono più, come l’amica Nerina, prematuramente scomparsa, la cui figura si erge a simbolo dell’ineluttabilità del tempo: “O Nerina! e di te forse non odo questi luoghi parlar? Caduta forse dal mio pensier sei tu? Dove sei gita, che qui sola di te la ricordanza …” 

L’idillio è un intercalare tra la nostalgia e il rimpianto, con frammenti di gioia antica ("Di questo albergo ove abitai fanciullo/E delle gioie mie vidi la fine/ Quante immagini un tempo, e quante fole/ Creommi nel pensier l'aspetto vostro") e di meditazione senza appello del ricordo che sfugge ("Il caro tempo giovanil più caro/ Che la fama e l'allor, più che la pura/ Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo"). 

Prosa di rara bellezza stilistica, “Le ricordanze” sono l’anello di congiunzione tra la vita che passa e gli attimi di una felicità vissuta o solo prospettata che restano attaccati alle pareti dell’anima. Un fermo immagine che nobilita il ricordo: “ D'ogni mio vago immaginar, di tutti/ I miei teneri sensi, i tristi e cari/Moti del cor, la rimembranza acerba.” 


LE RICORDANZE 
(G. Leopardi) 


Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea
Tornare ancor per uso a contemplarvi
Sul paterno giardino scintillanti,
E ragionar con voi dalle finestre

Di questo albergo ove abitai fanciullo,
E delle gioie mie vidi la fine.
Quante immagini un tempo, e quante fole
Creommi nel pensier l'aspetto vostro

E delle luci a voi compagne! allora
Che, tacito, seduto in verde zolla,
Delle sere io solea passar gran parte
Mirando il cielo, ed ascoltando il canto

Della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
E in su l'aiuole, susurrando al vento
I viali odorati, ed i cipressi

Là nella selva; e sotto al patrio tetto
Sonavan voci alterne, e le tranquille
Opre de' servi. E che pensieri immensi,
Che dolci sogni mi spirò la vista
Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
Che di qua scopro, e che varcare un giorno
Io mi pensava, arcani mondi, arcana
Felicità fingendo al viver mio!

Ignaro del mio fato, e quante volte
Questa mia vita dolorosa e nuda
Volentier con la morte avrei cangiato.

Nè mi diceva il cor che l'età verde
Sarei dannato a consumare in questo
Natio borgo selvaggio, intra una gente
Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
Argomento di riso e di trastullo,
Son dottrina e saper; che m'odia e fugge,
Per invidia non già, che non mi tiene

Maggior di se, ma perchè tale estima
Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
A persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,

Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza
Tra lo stuol de' malevoli divengo:
Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
E sprezzator degli uomini mi rendo,
Per la greggia ch'ho appresso: e intanto vola
Il caro tempo giovanil; più caro
Che la fama e l'allor, più che la pura
Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
Senza un diletto, inutilmente, in questo
Soggiorno disumano, intra gli affanni,
O dell'arida vita unico fiore.

Viene il vento recando il suon dell'ora
Dalla torre del borgo. Era conforto
Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
Quando fanciullo, nella buia stanza,
Per assidui terrori io vigilava,
Sospirando il mattin. Qui non è cosa
Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro
Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per se; ma con dolor sottentra
Il pensier del presente, un van desio
Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
Quella loggia colà, volta agli estremi
Raggi del dì; queste dipinte mura,
Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
Su romita campagna, agli ozi miei
Porser mille diletti allor che al fianco
M'era, parlando, il mio possente errore
Sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche,
Al chiaror delle nevi, intorno a queste
Ampie finestre sibilando il vento,
Rimbombaro i sollazzi e le festose
Mie voci al tempo che l'acerbo, indegno
Mistero delle cose a noi si mostra
Pien di dolcezza; indelibata, intera
Il garzoncel, come inesperto amante,
La sua vita ingannevole vagheggia,
E celeste beltà fingendo ammira.

O speranze, speranze; ameni inganni
Della mia prima età! sempre, parlando,
Ritorno a voi; che per andar di tempo,
Per variar d'affetti e di pensieri,
Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
Son la gloria e l'onor; diletti e beni
Mero desio; non ha la vita un frutto,
Inutile miseria. E sebben vóti
Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
Il mio stato mortal, poco mi toglie
La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
A voi ripenso, o mie speranze antiche,
Ed a quel caro immaginar mio primo;
Indi riguardo il viver mio sì vile
E sì dolente, e che la morte è quello
Che di cotanta speme oggi m'avanza;
Sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto
Consolarmi non so del mio destino.
E quando pur questa invocata morte
Sarammi allato, e sarà giunto il fine
Della sventura mia; quando la terra
Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
Fuggirà l'avvenir; di voi per certo
Risovverrammi; e quell'imago ancora
Sospirar mi farà, farammi acerbo
L'esser vissuto indarno, e la dolcezza
Del dì fatal tempererà d'affanno.

E già nel primo giovanil tumulto
Di contenti, d'angosce e di desio,
Morte chiamai più volte, e lungamente
Mi sedetti colà su la fontana
Pensoso di cessar dentro quell'acque
La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
Malor, condotto della vita in forse,
Piansi la bella giovanezza, e il fiore
De' miei poveri dì, che sì per tempo
Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso
Sul conscio letto, dolorosamente
Alla fioca lucerna poetando,
Lamentai co' silenzi e con la notte
Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
In sul languir cantai funereo canto.

Chi rimembrar vi può senza sospiri,
O primo entrar di giovinezza, o giorni
Vezzosi, inenarrabili, allor quando
Al rapito mortal primieramente
Sorridon le donzelle; a gara intorno
Ogni cosa sorride; invidia tace,
Non desta ancora ovver benigna; e quasi
(Inusitata maraviglia!) il mondo
La destra soccorrevole gli porge,
Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
Suo venir nella vita, ed inchinando
Mostra che per signor l'accolga e chiami?
Fugaci giorni! a somigliar d'un lampo
Son dileguati. E qual mortale ignaro
Di sventura esser può, se a lui già scorsa
Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?

O Nerina! e di te forse non odo
Questi luoghi parlar? caduta forse
Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
Che qui sola di te la ricordanza
Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
Questa Terra natal: quella finestra,
Ond'eri usata favellarmi, ed onde
Mesto riluce delle stelle il raggio,
E' deserta. Ove sei, che più non odo
La tua voce sonar, siccome un giorno,
Quando soleva ogni lontano accento
Del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto
Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
Il passar per la terra oggi è sortito,
E l'abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
Fu la tua vita. Ivi danzando; in fronte
La gioia ti splendea, splendea negli occhi
Quel confidente immaginar, quel lume
Di gioventù, quando spegneali il fato,
E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
L'antico amor. Se a feste anco talvolta,
Se a radunanze io movo, infra me stesso
Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
Tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
Van gli amanti recando alle fanciulle,
Dico: Nerina mia, per te non torna
Primavera giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,
Dico: Nerina or più non gode; i campi,
L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
Sospiro mio: passasti: e fia compagna
D'ogni mio vago immaginar, di tutti
I miei teneri sensi, i tristi e cari
Moti del cor, la rimembranza acerba.

LA NEVE DI GENNAIO


Non si ha freddo nell'anima quando fuori nevica e le case s’imbiancano nella quiete mattutina. Non è vero che il calore arriva solo dal sole quando ci si può stringere un po’ di più in giornate come queste con la neve che lambisce i vetri delle finestre. Infagottati nelle coperte dalla testa ai piedi, solo gli occhi restano scoperti per rimirare cotanta meraviglia.

La neve di gennaio è uno spettacolo che si guarda senza pagare alcun biglietto, la nostalgia del Natale appena passato si trasforma ben presto in una gioia silenziosa per qualcosa che sta per rigenerarsi nel candore del mondo intorno a te. E pensi che sia così bello pensare che tutto possa ricominciare, purificarsi nello spirito e nelle idee per una nuova scommessa sulla vita.

Spesso pensiamo di aver bisogno degli altri, di contare sugli altri, di essere noi stessi “gli altri” per spogliarci delle nostre preoccupazioni o soltanto per condividerle per sentirci meno responsabili. Trascuriamo i dettagli, le cose intorno a noi che non aspettano altro che essere toccate, sfiorate, accarezzate. E questa natura che si rigenera dopo una pioggia o un abbondante nevicata, ci offre lo spunto per capire che tutto parte e riparte da noi stessi.

La forza genera la forza, la bellezza genera la bellezza, dalle cose belle non può mai nascere un fatto brutto, anche quando pensi di trovarti sull'orlo di un precipizio c’è sempre uno squarcio di cielo sopra di te, uno spiraglio di luce, qualcosa di bello che riempie il niente che è dentro di te.

Non mi disturba la neve di gennaio, anzi mi consola e mi avvolge nel sonnacchioso silenzio di queste ore interminabili mentre tutto si attarda a ricominciare. Le strade deserte, i semafori spenti, le piazze vuote, tutto sembra in apnea in attesa di riemergere al primo tiepido sole di un nuovo mattino. Pronti a ricominciare come quelle bestiole che escono dal letargo dopo essersi riparati dalle grinfie dell’inverno.

La neve di gennaio è una primavera allo stato embrionale, sotto la coltre bianca nasceranno i fiori più belli, rinverdiranno le campagne e le periferie delle città come una cornice d’alloro puntellata dai colori più vivi e raggianti. Tutto si scioglierà e cadranno le ultime resistenze intorpidite dal gelo, il sangue scorrerà nelle vene più fluido e fluente come un fiume che riprende il suo corso per abbeverare tutto ciò che si anima e si rinnova.

La neve di gennaio è un sorriso solo nascosto che si scoprirà lentamente dopo gli ultimi sussulti dell’inverno. È un volto fra i mille volti che non ho incontrato, che si nutre del mio sguardo stupito e incantato, che mi rimboccherà le coperte come una madre affettuosa e mi farà addormentare per prepararmi ad un altro bellissimo risveglio.