QUESTO AMORE

Di questi tempi sembra anacronistico parlare dell’amore. Dove tutto fugge e rifugge nell'ovvietà delle cose, nelle relazioni di fortuna, sporadiche ed effimere che finiscono all'alba di un giorno qualunque, che sarà uguale a quello precedente, concatenazione infinita spezzata qua e là dai nostri sogni più intimi e nascosti.

Fin dalla creazione del mondo questo sentimento così popolare e per molti versi inflazionato, è stato raccontato in mille modi e forme diverse: dai riti propiziatori delle società tribali, alle numerose missive delle epoche romantiche, dalle canzonette (che sono diventate il ricordo di una musica che non c’è più), alla messaggistica multimediale tempestata dai famigerati “tvb” (“ti voglio bene”), che raramente arrivano al cuore di chi legge.

Poeti, scrittori, ma anche massaie, studenti e altre persone comuni si sono cimentati almeno una volta in questo esercizio poetico, intimo e personale, oggi fortemente in disuso tanto da suscitare ilarità e persino dileggio in coloro che sono proiettati in altri lidi e conquiste.

Se il presente o la proiezione del futuro hanno questa matrice, meglio allora ritornare al passato ricordando uno dei maestri della poetica sull'amore: Jacques Prévert.

Il poeta e sceneggiatore francese, vissuto nel novecento, si è contraddistinto nel panorama letterario per le sue opere di assoluta raffinatezza linguistica, tra le quali, “Questo amore”, poesia di forte impatto estetico e contenutistico.

Fin dai primi versi di questa meravigliosa poesia (“Questo amore così violento, così fragile, così tenero, così  disperato …”) si nota la semplicità del linguaggio adottato dall'autore, mai banale o scontato, che sembra accompagnato da una “voce” in sottofondo dalle più svariate cadenze: struggente, riflessiva, disperata, contemplativa.

E’ una poesia “parlata”, piena di aggettivi (“Questo amore così bello, così felice, così gioioso e così irrisorio…”) e di comparativi (“Tremante di paura come un bambino quando è al buio, così sicuro di sé come un uomo tranquillo nel cuore della notte”) per ergersi sul finale in un grido di preghiera e di speranza (“Nella foresta del ricordo, sorgi improvviso, tendici la mano. Portaci in salvo.”).

Ecco il testo completo:

Questo amore
Così violento
Così fragile
Così tenero
Così disperato
Questo amore
Bello come il giorno
 Cattivo come il tempo
Quando il tempo è cattivo
Questo amore cosi vero
Questo amore cosi bello

Così  felice
Così  gioioso
  
Così  irrisorio
Tremante di paura come un bambino quando è al buio
  
Così  sicuro di sé
Come un uomo tranquillo nel cuore della notte
Questo amore che faceva paura agli altri
E li faceva parlare
e impallidire
Questo amore tenuto d’occhio
Perché noi lo tenevamo d’occhio
Braccato,  ferito, calpestato, fatto fuori, negato, cancellato
Perché noi l'abbiamo braccato, ferito, calpestato, fatto fuori, negato, cancellato
Questo amore tutt'intero
 Cosi vivo ancora
E baciato dal sole
E’ il tuo amore
E’ il mio amore
E’ quel che è stato
Questa cosa sempre nuova
Che non è mai cambiata
Vera come una pianta
Tremante come un uccello
Calda viva come l'estate
Sia tu che io possiamo
Andare e tornare possiamo
Dimenticare e poi  riaddormentarci
Svegliarci soffrire invecchiare
Addormentarci ancora
Sognarci della morte
Ringiovanire
E svegli sorridere, ridere
Il nostro amore non si muove
Testardo come un mulo
Vivo come il desiderio
Crudele come la memoria
Stupido come i rimpianti
Tenero come il ricordo
Freddo come il marmo
Bello come il giorno
Fragile come un bambino
Ci guarda sorridendo
Ci parla senza dire
E io l'ascolto tremando
E grido
Grido per te
Grido per me
Ti supplico
Per te per me per tutti quelli che si amano
E che si sono amati
Oh sì gli grido
Per te per me e per tutti gli altri
Che non conosco
Resta dove sei
Non andartene via
Resta dov'eri un tempo
Resta dove sei
Non muoverti
Non te ne andare
Noi che siamo amati
Noi t’abbiamo dimenticato
Tu non dimenticarci
Non avevamo che te sulla terra
Non lasciarci morire assiderati
Lontano sempre più lontano
Dove tu vuoi
Dacci un segno di vita
Più tardi, più tardi, di notte
Nella foresta del ricordo
Sorgi improvviso
Tendici la mano
Portaci in salvo

(J. Prévert)

LA SOLITUDINE DEGLI INTERNAUTI

Internet ha spalancato le porte alla globalizzazione dell’informazione, dei pensieri e degli stati d’animo di ciascuno di noi che veicolano nell'infinito mondo della “rete” senza alcun controllo o verifica preliminare della loro autenticità.

E’ come un treno su cui si può salire liberamente in qualsiasi momento: l’unico documento di viaggio richiesto è una password che ci costruiamo fra le innumerevoli combinazioni alfanumeriche che conserviamo fra i nostri appunti o in qualche angolo recondito della nostra memoria.

Siamo un numero, un codice, delle lettere prestampate. Siamo un vortice di emozioni, di faccine che sorridono e che invece piangono per davvero …”

Così recita il testo iniziale di una delle mie canzoni de “L’aquila non ritorna” intitolata, per l’appunto, “Password”.

La comunicazione multimediale è divenuta un’esigenza sempre più impellente e, in molti casi, essenziale e strategica. L’hanno capito in milioni di persone, dai “comuni mortali” ai potenti della Terra. Persino il Santo Padre ha aperto un proprio profilo Twitter per “cinguettare” con i fedeli di tutto il mondo. Come dire che il messaggio cristiano, visto lo spopolamento delle chiese, può essere più efficacemente diffuso attraverso questa moderna modalità in luogo o in accompagnamento alle tradizionali omelie.

Ma è vera gloria?

Credo che bisogna distinguere la comunicazione come promozione di un prodotto o di un messaggio pubblicitario da quella interpersonale che si attua attraverso i vari social network. Nel primo caso sono indubbi i vantaggi della veicolarità dell’informazione rispetto ai fini economici o commerciali perseguiti. Nel secondo, la comunicazione può essere fuorviante rispetto al significato proprio del termine. Comunicare è mettere in comune qualcosa per renderci partecipi, implica cioè una relazione attiva e propositiva tra due o più persone.

Due sono gli elementi fondamentali della comunicazione sociale: il bisogno di trasmettere un pensiero, uno stato d’animo, e l’aspettativa dell’ascolto, della partecipazione e della condivisione.

Curiosando fra gli infiniti post dei vari social, al primo elemento non si accoda quasi mai il secondo.
In altri termini, mentre vi è una fortissima esigenza di trasmettere, di essere protagonista dell’informazione a qualsiasi costo pur di uscire dalla propria solitudine implosiva ed esplosiva, raramente si riscontra, per converso, l’effetto benefico e vitalizzante dell’ascolto, che poi altro non è che il bisogno di …attenzione.

Riporto come esempio due post che ho letto qualche tempo fa da un famoso social network :

Oggi ho rigirato il materasso per il cambio di stagione .
Risultato: 15 mi piace, 4 condivisioni, 1 tag della foto (quella del materasso) e qualche “emoticon” per rendere il tutto più colorito.
Appare evidente la distonia tra la puerilità del messaggio, forse foriera di una frustrazione irrisolta nella vita reale, e lo sproporzionato gradimento che genera più di un sospetto in quanto ad autenticità.

Grazie a ...omissis...  per avermi accompagnato a casa.
Si suppone che la scena, quella del passaggio, sia davvero avvenuta in realtà. Ma in questo caso il ringraziamento è traslato direttamente … nel mondo virtuale.

Insomma la virtualità della comunicazione rischia di minare, fino a soppiantarla, la realità delle relazioni sociali. Quanto più ci si addentra nel mondo della “rete”, tanto più si esce da quello reale fino a divenire …

… un numero, 
un codice,
delle lettere prestampate,
un vortice di emozioni,
di faccine che sorridono
e che invece piangono per davvero …

RAGAZZI DI VITA

Romanzo del neorealismo, capolavoro indiscusso dell’indimenticabile Pier Paolo Pasolini, “Ragazzi di vita”, è il ritratto crudele e nello stesso tempo autentico e popolare dell’Italia del dopoguerra alle prese con la ricostruzione, oggi completamente soppiantata dall'era del consumismo e della disaggregazione socio-culturale.

Le vicende di giovani borgatari della Roma degli anni ’50,  figli di un Dio minore rappresentato dalla fame e dalla sopravvivenza, segnano uno spaccato di vita nel quale l’ascesa della borghesia “accecata” dal boom economico, si contrappone all'emarginazione sempre più "perversa" e imperversante del sottoproletariato.

Prosa rude e genuina, con numerose espressioni dialettali a sottolineare un “de vulgari eloquentia” tipico del gergo spontaneo e casareccio dei protagonisti, che rivela comportamenti o stati d’animo dell’agire comune sintomatici e riproduttivi di una medesima estrazione sociale.

La dicotomia integrazione/emarginazione sociale è affrontata e risolta (in negativo) attraverso l’esperienza del protagonista, il Riccetto, che dopo aver vissuto di espedienti e di imprese delinquenziali, si “ammodella” ai canoni della nascente società dei consumi e del lavoro.

Il libro, uscito nel 1955, subì nello stesso anno una pesante censura per i riferimenti alla prostituzione maschile considerata, secondo la morale dell’epoca, oscena e scandalosa. L'autore ottenne l’assoluzione grazie alla testimonianza  di alcuni letterati di spicco, tra i quali Carlo Bo e Giuseppe Ungaretti che operarono una sorta di giustificazione postuma dei contenuti del romanzo con il comune senso del pudore. Determinante fu la “deposizione” dello stesso Bo che escluse ogni proposito osceno dell’opera dichiarando che  “i dialoghi sono dialoghi di ragazzi e l'autore ha sentito la necessità di rappresentarli così come in realtà".

LA TRAMA: Siamo alle fine della seconda guerra mondiale con Roma presidiata dai tedeschi. Il Riccetto, ragazzino di borgata, si rende artefice con i compagni Agnolo e Marcello di una serie di furti, atti di teppismo e di vagabondaggio. Marcello muore a seguito del crollo di un palazzo ma la combriccola si rinnova e si allarga nel tempo con altri personaggi come Alduccio e il Begalone (con i quali il Riccetto partecipa alla vendita di poltrone), il Caciotta e Amerigo (che insieme al Riccetto si addentrano in una bisca clandestina), il Lenzetta (con il quale il Riccetto, partecipa al furto di materiali da un'officina). Nel mezzo l’iniziazione sessuale con la prostituta Nadia, la defiance di Alduccio in un bordello, il fidanzamento del Riccetto con una delle figlie di sor Antonio e il suo impiego come garzone di un pescivendolo. Arriviamo al capitolo finale (La Comare Secca, cioè la morte) nel quale la scissione tra i ragazzi di vita superstiti, che vanno incontro al proprio destino infausto nell’Aniene, e il Riccetto, completamento integrato nel mondo del lavoro, è netta e irreversibile …


UN PASSO DEL ROMANZO: Amerigo è morto, - disse. Il Riccetto si alzò a sedere puntando i gomiti e lo guardò in faccia. Gli angoli della bocca gli tremavano come per un sorrisetto divertito; era una notizia eccitante, e si sentiva tutto pieno di curiosità. - Ch’hai fatto? - chiese. - È morto, è morto, - ripeté Alduccio, contento di dare quella notizia inaspettata. - È morto ieri ar Poricrinico, - aggiunse. Quel cavolo di sera che il Riccetto aveva tagliato dalla casa di Fileni, il Caciotta e gli altri s’erano fatti beccare, ma non avevano fatto resistenza. Amerigo invece s’era lasciato portar fuori tenuto per le braccia da due carabinieri, ma appena sul terrazzino li aveva sbattuti contro la parete e aveva fatto un zompo di due o tre metri sul cortile; s’era acciaccato un ginocchio, ma era riuscito lo stesso a trascinarsi avanti lungo il muro del lotto: i carabinieri avevano sparato e l’avevano colto a una spalla, e lui ugualmente ce l’aveva fatta a arrivare fin sulla sponda dell’Aniene lì stavano quasi per acchiapparlo, ma lui sanguinante com’era s’era buttato in acqua per attraversare Il fiume e nascondersi negli orti dell’altra riva, scappare verso Ponte Mammolo o Tor Sapienza. Ma in mezzo al correntino s’era sturbato e i carubba l’avevano acchiappato e portato al commissariato zuppo di sangue e di fanga come una spugna: così che dovettero trasferirlo all’Ospedale e piantonarlo. Dopo una settimana gli era passato il febbrone, e lui tentò d’ammazzarsi tagliandosi i polsi coi vetri d’un bicchiere, ma anche stavolta lo avevano salvato; allora una decina di giorni appresso, prima che Alduccio e il Riccetto s’incontrassero all’Acqua Santa, s’era gettato giù dalla finestra del secondo piano: per una settimana aveva agonizzato, e finalmente se n’era andato all’alberi pizzuti…

L’AUTORE: Bolognese, classe 1922, Pier Paolo Pasolini ha collezionato opere di spessore come Ragazzi di vita (1955), Una vita violenta (1958), Il sogno di una cosa (1962) Teorema (1968 ), e produzioni cinematografiche in veste di regista come Accattone (1961), Mamma Roma (1962), il Decameron (1971) e Salò e le 120 giornate di Sodoma (1975).
Morì nella notte del 2 novembre 1975 a Ostia, travolto dalla sua stessa auto guidata dall'omicida Piero Pelosi, un ragazzo di vita …

GIUDIZIO: Opera piena di intercalari dialettali che descrivono in maniera egregia l’ambientazione scenica e il contesto sociale in cui sono narrate le vicende dei protagonisti. Parole che fin dalla loro lettura si elevano ad immagini di vita reale e che spingono il lettore all'introspezione e meditazione critica. Un manifesto-denuncia del declino sociale apparentemente arginato dalla corsa verso la ricostruzione e il progresso. Il meglio di Pasolini, “maestro/ragazzo di vita” …

LA LEGGEREZZA DELL'ESSERE

E’ uno dei capitoli del mio romanzo “La prossima vita”. Riporto una parte dell'episodio in cui Cinzia, moglie di Leo, accetta di posare per il marito nel ritratto ispirato alla Venere di Botticelli.

…Intanto si era seduta ai piedi del letto, proprio di fronte a me, e aspettava che le facessi segno di incominciare come un bambino buono e paziente. A quel punto le chiesi:
-“Vorrei vederti con i capelli bagnati. Potresti accontentarmi?”-
-“I capelli bagnati? E perché?”-
Scesi dal letto e infilai la vestaglia; poi presi una delle tele appoggiate sotto la finestra e la collocai sul cavalletto.
-“Non intendo eseguire la riproduzione della Venere di Botticelli. Oltretutto non ne sarei capace. Quando ti ho portata alla Galleria volevo semplicemente che tu capissi l’idea che mi ha ispirato questo dipinto.”-
-“La malinconia…”-
-“Esatto! Botticelli l’ha voluta rappresentare recuperando i valori della mitologia classica, sotto l’influenza della sua cultura umanistica. Devi sapere che Botticelli convisse con la malinconia praticamente per tutta la vita. Si direbbe che questa particolare condizione d'animo sia stata una costante della sua esistenza e, alfine, l’abbia in un certo senso consumato. Ma nel mio caso rappresenterò la malinconia in maniera molto ‘moderna’, e tu sarai l’interprete principale.”-
-“Io?”-
-“Sì. Vorrei vedere in te la donna che sei stata un tempo.”-
-“Ma io non sono cambiata! Forse sei tu che mi vedi diversa.”-
-“Può darsi. Vorrà dire che questo quadro servirà soprattutto a me che, evidentemente, non riesco a vederti come una volta.”-
Cinzia stette un attimo in silenzio, poi mi chiese di nuovo se era proprio necessario bagnarsi i capelli. Notai che ci teneva in modo particolare alla sua acconciatura, come se temesse seriamente di vederla stravolta dalla mia richiesta. Risposi ancora di sì, aggiungendo che a lavoro finito si sarebbe capito il motivo.
Senza più protestare, Cinzia andò in bagno e ritornò qualche minuto dopo con i capelli sciolti, completamente bagnati, sempre avvolta dall'asciugamano.
-“Adesso, per favore, potresti toglierti l’asciugamano e coprirti con le mani i seni e il ventre?”-
Mi ero seduto sullo sgabello e avevo già iniziato a dipingere lo sfondo: un cielo grigio, appena interrotto da un’apertura da cui sprigionava la luce riflessa del sole. Anche questa volta Cinzia eseguì la mia richiesta senza fiatare. Proprio come la Venere di Botticelli, mia moglie si era coperta con il braccio destro i seni ampi e lattiginosi e con la mano sinistra teneva nascosto il ventre.
Aveva la pancia che, nonostante la gravidanza, non era molto prominente ma lasciava intravedere ugualmente la forma circolare che dal busto si estendeva fin sotto il bacino.  Sul fianco destro era ancora visibile il segno di una cicatrice dovuta ai postumi di un intervento all'appendice. Adesso Cinzia mi guardava un po’ impacciata e aspettava che  le indicassi il punto esatto dove posare.
-“Mettiti lì, all'angolo tra la porta e il comò. Ti avverto che questo lavoro sarà solo una bozza. Lo completerò poi nei colori e nei dettagli. Cercherò di non farti stancare molto.”-
Ripresi a dipingere con gli occhi ora rivolti alla tela e ora puntati su Cinzia. Di tanto in tanto le parlavo domandandole, ad esempio, che cosa fosse per lei la malinconia e se si era mai trovata in questo stato d’animo. Diversamente dal solito, non ero pienamente avulso dalla realtà, e il fatto che in quel momento interloquissi con mia moglie me ne dava ulteriore conferma. Sentivo però il bisogno di coinvolgere Cinzia, almeno con le parole, in quel percorso interiore che altrimenti non avrebbe capito. Del resto per lei si trattava di un’esperienza nuova e non potevo pretendere che, di punto in bianco, condividesse spontaneamente quelle sensazioni che, grazie alla mia naturale predisposizione, ero abituato a sentire. Quindi, la interrogavo per guidarla passo dopo passo nel mio mondo.
-“Prova a descrivermi che cos'è per te la malinconia.”-
Avevo finito con il contorno del viso ed ero passato a tracciarne i lineamenti.
-“Non saprei proprio. A volte si è malinconici, a volte no. Credo che sia un fatto naturale.”-
-“Senza volerlo l’hai appena definita: la malinconia è, in un certo senso, una condizione naturale, direi umorale.”-
-“E’ un po’ come la tristezza.”-
-“Non è la stessa cosa. Ci si sente tristi sempre per un motivo specifico, per un fatto che è avvenuto e che ci ha fatto dispiacere. La malinconia, invece, è una condizione dell’animo effettiva, ma quasi mai causale. Si può essere malinconici e stare bene lo stesso.”-
-“Allora ti dico che non sono mai stata malinconica!”-
Fu una affermazione coerente con il carattere di Cinzia e perciò non mi sorprese.  Mia moglie non aveva bisogno di essere malinconica semplicemente perché non era portata ad esserlo. Sempre attenta a guardare le cose sul piano esclusivamente pratico, mia moglie non amava ‘sentire’ la vita ma preferiva viverla attraverso le azioni dettate dal luogo comune. Per lei parole come ‘bello’, ‘brutto’, ‘buono’ o ‘cattivo’, erano aggettivi dal significato puramente lessicale, che servivano a qualificare una cosa o una persona sotto l’accezione più comune e tradizionale. La malinconia, invece, è un qualcosa che richiede una definizione concettuale e introspettiva, e come tale, ben lontana dal modo di pensare di Cinzia. Per converso, io mi trovavo in una situazione del tutto opposta: non vivevo la vita, ma la sentivo e perciò non agivo se non per le sensazioni che la vita stessa mi trasmetteva.
Mi rendevo conto che il mio tentativo di portare Cinzia sulla mia stessa lunghezza d’onda era improbo e disperato. Contro di me si opponevano la diversa tradizione, cultura e formazione etica di mia moglie. Ciò nonostante la mia mano non se la sentì di 'abbandonare' il pennello ed era arrivata adesso a dipingere i fianchi di Cinzia. In un certo senso, mi sentivo come un eroe che affronta un’impresa già votata al fallimento. Ma non mi persi d’animo e continuai con le domande:
-“Mi hai detto che non sei malinconica. Questo vuol dire che sei soddisfatta della vita che fai?”-
-“Potrei esserlo di più. Ma mi accontento.”-
-“Ti accontenti?”-
-“Stiamo per avere un figlio. E questa è la sola cosa che conti. Scusa…possiamo fare una pausa? Sono un po’ stanca!”-
-“Solo un attimo… Ecco, adesso puoi muoverti.”-
Cinzia abbandonò subito la posa, ed io ebbi come la visione che tutta la sua figura uscisse dal quadro che stavo dipingendo e cominciasse ad animarsi. Adesso si era seduta sul bordo del letto e si toccava i capelli per controllare se erano ancora bagnati.
-“Devo ancora tenerli così, o me li posso asciugare?”-
-“Veramente preferirei vederti così, ma se ti dà noia possiamo sospendere e ricominciare domani.”-
-“No, no. Dicevo così per dire.”-
-“Davvero te la senti? Guarda che sono disposto anche a rimandare a un altro giorno.”-
-“Invece penso che sia giusto continuare. E’ così importante per te.”-
-“Perché, per te non lo è?”-
-“Ci tenevi così tanto ad avermi come modella, che alla fine mi sono convinta anch'io.”-
-“Allora l’hai fatto per me?”-
Mi ero seduto accanto a lei prendendole la mano, ma Cinzia la ritirò subito e si alzò di scatto. Senza voltarsi, rispose:
-“Uffa con queste domande! Non ti basta sapere che sono qui, ben felice di fare una cosa che ti fa tanto piacere?”-
In realtà era profondamente turbata e forse già pentita per essersi prestata a fare qualcosa che le procurava grande imbarazzo. Mi alzai anch'io e mi misi di fronte a lei. Era effettivamente nervosa; i suoi occhi lasciavano trasparire una tristezza cupa e rassegnata, si direbbe, quasi malinconica.
-“Se per te questa cosa è un sacrificio, al punto da farti stare così a disagio, allora è meglio interrompere subito.”-
-“Scusami,”- mormorò, -“ma il fatto è che fai troppe domande, e questo m’imbarazza. Adesso, se anche per te va bene, sono pronta a ricominciare.”-
Senza attendere risposta mi baciò sulle labbra ma con tutta fretta che le sfiorò appena. Quindi si mise nuovamente in posa e aspettò che riprendessi il mio posto. Tornai a sedermi sullo sgabello e afferrai il pennello:
-“Non ci vorrà molto.”-, le assicurai, -“E poi ti prometto che non ti farò più domande.”-
Cinzia aveva capito che stavo andando oltre e temeva di rivelare, sotto la spinta del mio interrogatorio, che il suo unico scopo era di tenermi lontano dall'idea di accettare la proposta di mio padre. Mi bastava però averle procurato quel disagio che tanto somigliava alla malinconia a cui volevo condurla. So che era soltanto una mia illusione, ma nella metafora di questo viaggio immaginario che avrebbe dovuto approdare alla riscoperta delle antiche emozioni di un amore che si stava spegnendo, io vedevo Cinzia come un bambino dispettoso che si rifiuta di tendere la mano per salire sull'autobus della scuola. Questa reticenza che in quel momento ascrivevo ad un atteggiamento logico e naturale di mia moglie, rafforzava ulteriormente la mia convinzione di proseguire in un progetto che io sapevo, invece, illogico e innaturale. Ma nello stesso tempo venni assalito dal dubbio che qualsiasi altro mio tentativo di stabilire con Cinzia quel rapporto sintomatico cui aspiravo, non sarebbe servito a niente. Erano due facce della stessa medaglia: da un lato volevo giustificare Cinzia in tutti i modi possibili, anche aggrappandomi a ragionamenti illativi e privi di qualsiasi riscontro concreto; dall'altro, mi pareva di essere arrivato ai limiti di questa illusione e mi sentivo un po’ come colui che, dopo l’ennesimo tentativo di far partire la macchina, si trova sul punto di estrarre definitivamente la chiave dall'accensione.
Nei meandri di questi pensieri, tra loro contraddittori e concorrenti, ero giunto all'apice della mia disperazione e, riprendendo l’esempio dell’azione eroica, adesso toccavo con mano gli effetti del suo fallimento. Questo stato d’animo mi spinse ad accelerare la conclusione del mio dipinto, così che dopo alcuni minuti mi rivolsi a Cinzia dicendole che il lavoro era finito e che poteva rivestirsi.
-“Posso vederlo?”-
-“Come ti ho detto è solo una bozza. Dovrò completarla nelle finiture, ma non preoccuparti. Non sarà più necessaria la tua presenza.”-
Dissi questo non dissimulando un atteggiamento che era, insieme, di delusione e di dispiacere per come si stavano mettendo le cose. In cuor mio speravo che Cinzia mi confermasse, quanto meno, la propria disponibilità a posare di nuovo, se mai ne avessi avuto bisogno. E invece si avvicinò al dipinto e lo esaminò come uno spettatore che, di fronte alla locandina di un film, s’interroga per capire se possa piacergli davvero.
Ma il film che avevo ‘realizzato’ era un pezzo della nostra vita che se ne stava andando e che io avevo voluto afferrare e imprimere sulla tela perché vi rimanesse per sempre: si trattava di un paesaggio marino, col cielo ricoperto di nuvole grigie che lasciava intravedere la luce del sole da un piccola apertura in alto sullo sfondo. Il mare, dal colore bluastro si apriva al centro come un vortice in cui sprofondava la figura di Cinzia, simile alla Venere di Botticelli, ma dai capelli bagnati per la pioggia e dallo sguardo cupo e malinconico.
-“E’ un quadro bellissimo,” osservò, “ma è molto triste!"-
-“Come la nostra storia!”-, mormorai.
Ma Cinzia fece finta di non sentire e proseguì:
 -“Mi hai fatto anche più bella di come sono. Davvero mi vedi così?”-
Avrei voluto rispondere che se solo avessimo usato di più la nostra immaginazione, ci saremmo visti non soltanto più belli ma anche più disponibili l’uno verso l’altro. E invece mi girai verso la finestra con le mani in tasca, in un atteggiamento che voleva dire resa più totale. Senza voltarmi le ripetei che era il caso che si rivestisse, tanto non c’era più motivo che rimanesse così. Cinzia, invece, si avvicinò alle mie spalle e cominciò ad accarezzarmi.
Quello che avvenne dopo lo ricordo ancora come se fosse ieri, forse perché fu la prima volta in cui io e mia moglie ci amammo con la consapevolezza che dopo non sarebbe stato più lo stesso. Cominciammo a baciarci con quella avidità tipica di chi si appresta a un lungo digiuno e per questo mette in serbo tutto il carico di emozioni, sperando che possa bastare durante l’astinenza. In pochi attimi rotolammo sul letto e Cinzia salì sopra di me, nella posizione a lei congeniale, fino a congiungersi in un rituale misto di piacere e di dolore. Dalla finestra filtravano i raggi del sole di quel tardo pomeriggio che si perdevano nei capelli di Cinzia e che la facevano apparire ancora più bella e desiderabile, proprio come la Venere di Botticelli.
Alla fine, Cinzia piegò la testa e si rovesciò su di me per l’ultimo e struggente abbraccio, mentre intorno a noi aleggiava quella malinconia che da lì in avanti non ci avrebbe più abbandonato.