PER NON DIMENTICARE …

“Tutto era silenzioso come in un acquario, e come in certe scene di sogni. Ci saremmo attesi qualcosa di più apocalittico: sembravano (i soldati SS) semplici agenti d'ordine. Era sconcertante e disarmante.

Qualcuno osò chiedere dei bagagli: risposero: " bagagli dopo"; qualche altro non voleva lasciare la moglie: dissero "dopo di nuovo insieme"; molte madri non volevano separarsi dai figli: dissero "bene bene, stare con figlio". Sempre con la pacata sicurezza di chi non fa che il suo ufficio di ogni giorno; ma Renzo indugiò un istante di troppo a salutare Francesca, che era la sua fidanzata, e allora con un solo colpo in pieno viso lo stesero a terra; era il loro ufficio di ogni giorno.

In meno di dieci minuti tutti noi uomini validi fummo radunati in un gruppo.

Quello che accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potemmo stabilire né allora né dopo: la notte li inghiottì, puramente e semplicemente.

Oggi però sappiamo che in quella scelta rapida e sommaria, di ognuno di noi era stato giudicato se potesse o no lavorare utilmente per il Reich; sappiamo che nei campi rispettivamente di Monowitz- Buna e Birkenau, non entrarono, del nostro convoglio, che novantasei uomini e ventinove donne, e che di tutti gli altri, in numero di più di cinquecento, non uno era vivo due giorni più tardi.

Sappiamo anche che non sempre questo pur tenue principio di discriminazione in abili e inabili fu seguito, e che successivamente fu adottato spesso il sistema più semplice di aprire entrambe le portiere dei vagoni, senza avvertimenti né istruzioni ai nuovi arrivati.

Entravano in campo quelli che il caso faceva scendere da un lato del convoglio; andavano in gas gli altri.

Così morì Emilia, che aveva tre anni; poiché ai tedeschi appariva palese la necessità storica di mettere a morte i bambini degli ebrei. Emilia, figlia dell'ingegner Aldo Levi di Milano, che era una bambina curiosa, ambiziosa, allegra e intelligente; alla Fondazione CDEC 5 quale, durante il viaggio nel vagone gremito, il padre e la madre erano riusciti a fare il bagno in un mastello di zinco, in acqua tiepida che il degenere macchinista tedesco aveva acconsentito a spillare dalla locomotiva che ci trascinava tutti alla morte.

Scomparvero così, in un istante, a tradimento, le nostre donne, i nostri genitori, i nostri figli. Quasi nessuno ebbe modo di salutarli.

Li vedemmo un po' di tempo come una massa oscura all'altra estremità della banchina, poi non vedemmo più nulla.”

(A cura di Giorgina Bellak, Giovanni Melodia, Donne e bambini nei lager nazisti.
Testimonianze dirette, Milano, ANED, 1960, p. 50)


Per non dimenticare anche dopo il giorno della memoria …

ANCHE I MORTI UCCIDONO

L’eredità di chi ci lascia non sempre è condita di cose o insegnamenti preziosi. Accade sovente che il cordone ombelicale con le negatività vissute e convissute non si spezzi mai, per quanti sforzi si facciano per allontanarsi definitivamente da chi ci ha procurato un grande dolore.

Le organizzazioni sociali e politiche, ad esempio, sono fortemente condizionate dall’eredità storica lasciata dal contesto in cui operano. In Italia si parla spesso di prima, seconda o terza Repubblica per segnare epoche distinte di un certo cambiamento anche se, a conti fatti, nessuna di queste fasi può dirsi davvero autonoma e indipendente dall’altra. 

Il presente è sempre la risultante del passato e il futuro segue di pari passo quello che oggi si sta compiendo.

Secondo il celebre filosofo sant’Agostino, “il passato come bruto fatto materiale non può riguardarci se non in forza di un nostro qualche attuale interesse. Il passato non esiste se non nella misura in cui è stato efficace, ci ha segnato e soprattutto ci segna. Se i fatti del passato fossero solo passati, essi sarebbero medesimamente morti e sepolti e non potremmo intrattenere alcun commercio con essi. Ogni fatto del quale si narra, è già, certo, passato e defunto, e tuttavia esso può rivivere in noi attraverso la considerazione storica che, per così dire, annulla quel passato in quanto passato, e lo attualizza nella vita del presente.”

E’ un pensiero filosofico di grande rilievo e verità: non si eredita il passato che non ha significato ma quello che ha segnato in modo incisivo la nostra educazione. Nel bene o nel male la nostra vita è condizionata dall’ambiente o dalle persone con le quali veniamo in contatto, specie in primissima età quando la nostra capacità di orientamento e di discernimento non è autonoma ed abbiamo bisogno di punti di riferimento.

Ecco che allora l’influenza di chi ci ha guidati nel nostro cammino fino ad un certo percorso continua a produrre i suoi effetti anche oltre la separazione. Soprattutto se l’esperienza vissuta è stata fortemente negativa, si fa fatica ad elaborare un dolore profondo, a colmare una carenza affettiva significativa, in una parola, a tagliare i ponti con il passato.

Nelle fragilità caratteriali si annidano quelle (pericolose) manchevolezze che possono dare adito a comportamenti di forte impatto. Si sente dire: “E’ violento come il padre”, oppure, “Va con tutti come la madre” per sottolineare il trapasso di azioni o reazioni che rende negativamente indissolubile il legame che si aveva in vita.

Non c’è pace per chi resta, per chi cerca di scrollarsi di dosso quei retaggi che suo malgrado si porta dentro fino ad assumere gli atteggiamenti più devianti o a compiere le azioni più delittuose. Ma a premere il “grilletto” sono simbolicamente proprio quelli che non ci sono più.

Perché anche i morti uccidono. Lo fanno da mandanti nella polvere di un silenzio assordante che inquieta le coscienze e non fa più vedere la luce di un mattino giusto e tranquillo.

VIVERE CON ME

Ho imparato a vivere con me
a mangiare discorsi senza te
a guardare le macchine così
ma nessuno mi porta via da qui …”

Sono passati trentatre anni da quando ho scritto questa canzone tratta dall’album “Cerco” e inserita nella raccolta “L’aquila non ritorna”. Esegesi di un mondo interiore che si evolve attraverso la conoscenza di se stessi, mentre fuori tutto scorre velocemente e distrattamente.

C’è una solitudine positiva ed un’altra di segno opposto. Il protagonista del testo vive purtroppo la seconda come reazione ad un mondo esteriore cinico e perverso, chiuso nella propria autoreferenza ed indifferenza. Una sorta di spirito di sopravvivenza, tipico di chi si sente accerchiato da una serie di fattori negativi che lo spingono a ricercare nella propria interiorità gli appigli più sicuri e le risorse, necessarie e dovute, per provare a riemergere.

La sommatoria di storie individuali come quella di “Vivere con me”, è indicativa di un problema sociale di più ampie proporzioni, caratterizzato dal disagio affettivo (o disaffettivo) che si erige a muro invalicabile sull’impoverimento relazionale e, più in generale, sull'incapacità di coglierne i segnali.

Chi fa da sé fa per tre, recita un celebre proverbio. Ci si abitua così alla propria solitudine, si ascoltano le voci di dentro costruendosi una sorta di sistema immunitario per autorigenerarsi. Un po’ come un camaleonte che cambia colore adattandosi a qualsiasi tessuto sociale che gli viene cucito addosso. E nel silenzio contemplativo tenere alto lo sguardo per scorgere, oltre l’orizzonte, nuove prospettive di vita.

La solitudine è un’arte per chi riesce a conviverci ma è anche una pericolosa discesa all’inferno per chi invece la vive come una scelta imposta dalle circostanze rimanendo ai margini della propria e altrui esistenza.

Fuori.

Da ragazzo io e la mia compianta sorella, prematuramente scomparsa, ci emozionavamo fino a commuoverci nell’ascoltare la bellissima canzone di Loredana BertèStare fuori”, meno nota rispetto ai tanti successi dell’artista calabrese, ma così intensa e profonda da rappresentare una denuncia solenne contro l’indifferenza.

Ecco alcuni versi del testo che desidero dedicare a lei:

“Fuori.
E’più di un anno stare soli
Più di un inverno stare fuori
Più della faccia di un amore
che non ti vuole e che ti lascia fuori …”


A Isabella

MI BASTANO CINQUE MINUTI

Lidia è la donna dei cinque minuti. In così poco tempo riesce a fare una quantità di cose che in confronto io sono una vera e propria lumaca. Quello che mi sorprende di lei è la contemporaneità delle azioni, tutte compiute al punto giusto e senza alcuna sbavatura.

Eccola al telefono che parla con un’amica e nel contempo tirare fuori dal frigo le bistecche appena scongelate, deporle sulla piastra già calda e con un piede aprire la credenza per prelevare, tenendo la cornetta ben ferma tra l’orecchio e la spalla, le spezie e il pane. In mezzo a questi gesti in rapida sequenza si permette persino di sorridermi mentre la osservo affascinato e nello stesso tempo interdetto da cotante acrobazie.

Non sta ferma un minuto. Come adesso che la vedo andare avanti e indietro per il soggiorno, guardare l’orologio e fermarsi al centro della sala con aria pensierosa.

Sono le 13 e 55. Alle due devo essere giù che viene Rosetta per accompagnarmi in ufficio.
Che aspetti allora? Comincia a scendere.
C’è ancora tempo. Possiamo fare l’amore.”
In cinque minuti?”
E che ci vuole? Se sei pronto quanto basta possiamo saltare i preliminari. Lo sai che li trovo inutili e dispendiosi.”

A questo punto è accaduto qualcosa di comico. Nella fretta la lampo dei miei pantaloni si è impigliata negli slip. Lidia tuttofare non si è persa d’animo. Con una forbicina che aveva, guarda caso, a portata di mano, è riuscita a sbrogliare la “matassa” e a tirare giù gli indumenti in un sol colpo procurandomi un breve ma intenso piacere. Il tutto nello spazio di tre minuti e quarantacinque secondi.

Insomma Lidia è la donna che ognuno di noi vorrebbe avere al proprio fianco: pratica ed efficiente come la migliore delle lavoratrici, calda e passionale come un’amante puntuale e generosa.  C’è però il rovescio della medaglia. Il suo vivere intensamente senza sprecare un attimo della sua vita è per me un monito che mi fa ricordare, come uno specchio implacabile, la mia proverbiale pigrizia e il mio essere esageratamente tranquillo e posato. La vitalità di Lidia mi fa toccare con mano l’inutilità della mia esistenza fatta di continue pause e ripensamenti al punto da sentirmi addosso tutto il peso del tempo.

Quando si vive poco o s’indugia troppo s’invecchia prima, un po’come le cose che si lasciano in soffitta a impolverarsi. Per usare un eufemismo, Lidia sarebbe un treno che corre ad alta velocità mentre io una locomotiva vecchia e desueta che sta ferma su un … binario morto!

Uno di quei giorni la vedo rientrare in casa sbattendo la porta. Mi saluta appena accasciandosi sul divano col viso stanco e affranto come se fosse reduce da un campo di battaglia. La osservo in silenzio pensando che tra un secondo la vedrò alzarsi per sbrigare qualche faccenda.

Di solito è sempre indaffarata a fare qualcosa. Per Lidia le sedie e le poltrone non sono altro che dei suppellettili per abbellire l’arredamento. Invece resta seduta con lo sguardo fisso nel vuoto e la cosa comincia a preoccuparmi.

E’ successo qualcosa?”, chiedo con la mia solita flemma.
Credo di aver notificato un ricorso oltre i termini.” Lidia lavora presso uno studio legale ed è in attesa di diventare avvocato.
Sei sicura?”
La colpa è di Mariella.”
Mariella?”
Quella collega antipatica del mio ufficio. Smorfiosa, arrogante, tutta tette e culo che non disdegna di mostrare a quel babbeo del nostro capo. Quando stamattina ha cominciato a vantarsi per l’ennesima volta delle sue “qualità”, non ci ho visto più e gliene ho cantate quattro. Così mi sono accorta in ritardo di quella notifica che era per una causa molto importante. Ho inviato la pec ma credo di aver toppato.”
Di quanto sei andata fuori termine?”
Cinque minuti, maledetti cinque minuti …”

MI BASTANO CINQUE MINUTI

Racconto breve di
Vittoriano Borrelli


(I fatti narrati sono assolutamente immaginari)