I FIORI SPEZZATI

Mirko ci andava spesso in quel luogo impervio e solitario che sembrava trovarsi alla fine del mondo. Ogni occasione era buona per imbracciare la sua amata bicicletta e percorrere chilometri e chilometri fino a raggiungere quella radura nascosta tra alberi secolari e tappeti di fiori selvaggi. Era felice come mai si sentiva tra le sue mura domestiche con una madre carabiniera e un padre fuggiasco e sconosciuto.

Ultimo di dieci figli che madre natura aveva voluto catapultare in un gregge indomito e senza regole, Mirko sapeva bene di valere meno di niente in quella cerchia familiare di ammasso umano, dove l’unico sussulto che facesse pensare ad una risonanza di vita era rappresentato dal rumore dei cucchiai nelle scodelle fumanti di brodo caldo.

La radura era invece la sua oasi di pace, il momento di una contemplazione voluta e ricercata che lo faceva sentire ad un passo dal cielo nell'ampio scenario di immagini variopinte che si aprivano ai suoi occhi come le porte di un castello incantato. Una contemplazione ascetica e insolita per la sua giovane età di bambino undicenne ma già con le fattezze di un uomo adulto e posato.

Quel giorno era arrivato nel suo rifugio segreto di buon mattino portandosi con sé le poche cose che gli appartenevano: una borraccia d’acqua e Ramiro, un pupazzo di stoffa che aveva costruito con le sue mani utilizzando qualche strofinaccio rubato dalla cucina in un momento in cui la madre si era attardata nei campi.

Con il tappo di una bottiglia ci aveva fatto il naso e con due ceci gli occhi, mentre i capelli avevano preso forma grazie a qualche foglia di rosmarino. Le mani e i piedi li aveva abbozzati alla buona con rametti d'albero infilati nei pertugi della stoffa sulla quale, nella parte in basso del viso, aveva disegnato una bocca grande e sorridente.

Era particolarmente affezionato a quello strano esemplare da non separarsene mai nemmeno per andare a dormire. Ora lo teneva stretto a sé seduto sopra un grande sasso, intento a rimirare il sorgere del sole che tra gli alberi proiettava i suoi primi raggi incerti. Uno spettacolo a cui aveva assistito tante volte e che lo rendeva partecipe di una gioia nuova e rigenerante, come se quelle trasformazioni naturali, solite e ripetitive, gli infondessero fiducia e speranza in un giorno migliore.

Si era alzato un timido vento che aveva scompigliato i capelli di Ramiro. Mirko lo guardava con affetto filiale sussurrandogli:

Se il mondo degli uomini potesse capire quello che stiamo provando in questo momento io e te, forse tutto sarebbe diverso e non ci sarebbe più dolore, tristezza, incomprensione.”

D’un tratto uno strano uccello nero, forse un corvo, si era poggiato tra i rami di un albero e gracchiava con un suono gutturale e sinistro. Il cielo si era improvvisamente rannuvolato e il vento aveva preso a spirare più forte. Mirko si strinse nelle spalle avvertendo un brivido che non gli faceva presagire niente di buono.

E’ successo qualcosa!”, esclamò. Si alzò di scatto, prese la bicicletta e cominciò a pedalare a tutta velocità rifacendo a ritroso il sentiero che aveva percorso pochi minuti prima. Davanti a sé grosse nuvole nere si addensavano minacciose in squarci d’azzurro beffardi.

Giunse nel giardino di casa e gettò a terra la bici. Sull'erba incolta giacevano i corpi dei suoi fratelli come fiori spezzati in quel lugubre scenario. La porta d'ingresso era socchiusa e nell'aria c'era un silenzio tombale, simile a quello che scende dopo una battaglia. Entrò da quella fessura quasi a volersi mimetizzare per non essere visto e arrivò in cucina. Vide sua madre riversa su una sedia, la testa sopra il tavolo e la pistola appoggiata sul grembiule.

Non una parola uscì dalla sua bocca.

Oggi Mirko è rinchiuso in una comunità di accoglienza e non parla più con nessuno. Passa gran parte del tempo nel letto della sua stanza, le mani dietro la testa e lo sguardo perso nel vuoto. Solo di rado il suo viso pare accendersi quando ripensa alle giornate tranquille trascorse alla radura. Allora accenna a un sorriso stringendo forte a sé il suo Ramiro.

I FIORI SPEZZATI 

Racconto breve
di
Vittoriano Borrelli

NON MI ACCORGO DI TE

Potresti stare con dieci uomini a letto e non accorgermi di te, metterti in ghingheri col vestito più bello e non notare in te alcun cambiamento. Sei semplicemente invisibile al mio cospetto come le cose senza importanza che scivolano via.”

Un pensiero del genere potrebbe appartenere ad un distratto cronico o più probabilmente ad una persona  che ostenta disinteresse, se non indifferenza, verso chi cerca in tutti i modi di farsi notare per essere amato e accettato.

Quanti di noi vivono all'ombra di chi domina la scena delle parole e delle immagini, supplementari e mai complementari del più bieco protagonismo? Ciononostante ci ostiniamo a ritagliarci uno spazio, pur piccolissimo che sia, nel mondo che conta o che pensiamo possa valere tanto, salvo accorgerci (quasi sempre troppo tardi) di essere solo un punto, cornice sbiadita di un dipinto antico e replicato.

Subalterni o crocerossini? Ci affanniamo a cambiare il mondo e le persone che ci stanno accanto, ma sono sempre gli altri a cambiare noi, a renderci diversi rispetto ad un contesto che non ci appartiene e che forse non ci è mai appartenuto.

Luigi Pirandello così scriveva nella sua “Sei personaggi in cerca di autore”:
E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch'io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre, chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com'egli l'ha dentro? ”

Nell'opera del grande scrittore siciliano il tema centrale è l’impossibilità di trasporre fatti e vicende della vita reale nella rappresentazione scenica, ma esiste anche un’altra chiave di lettura, più sottile e latente, data dall'incapacità di saper registrare, interpretare e comprendere i bisogni, le sollecitazioni e le istanze di chi ci sta accanto.

Non mi accorgo di te” è quindi il triste epilogo in cinque parole di un atteggiamento che non lascia scampo all'intesa, alla vicinanza e comunione dei sensi. E’ uno spartiacque inflessibile e desolante tra chi ama per essere amato e chi invece, pur ricevendo carezze e attenzioni, non reagisce allo stesso modo.

Il risultato è una cupa solitudine non solo individuale, ma anche e soprattutto sociale che ridisegna i destini di un mondo che volge lo sguardo altrove e non si accorge di te.

Spesso è il paradosso, l’espressione roboante e ad effetto a rendere l’idea, a massimizzare un concetto che in altri termini resterebbe solo allo stato embrionale.

Ecco perché:

Potresti stare con dieci uomini a letto e non accorgermi di te, metterti in ghingheri col vestito più bello e non notare in te alcun cambiamento. Sei semplicemente invisibile al mio cospetto come le cose senza importanza che scivolano via.”

LA COSCIENZA DI ZENO

Ognuno di noi, a modo suo, parla con se stesso. Si può essere ipercritici, superficiali, poco obiettivi o semplicemente opportunisti per sentirsi dire da “dentro” quelle parole o proclami assolutori che non arrivano dall'esterno.

C’è un romanzo meraviglioso che racconta in maniera attenta e magistrale queste dinamiche interiori: “La coscienza di Zeno”, di Italo Svevo, pubblicato nel 1923.

L’opera descrive l’incapacità del protagonista, Zeno Cosini, di spiegare e risolvere i malesseri che hanno segnato tutto il suo percorso di vita:

Dalla dipendenza dal fumo vista come mancanza di volontà …:

Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente.”

 … al rimpianto per non aver avuto alcun rapporto significativo con il padre:

La morte di mio padre fu una vera, grande catastrofe. Il paradiso non esisteva più, ed io poi, a trent'anni, ero un uomo finito. Anch'io! M’accorsi per la prima volta che la parte più importante e decisiva della mia vita giaceva dietro di me, irrimediabilmente.”

Dall'inettitudine nella scelta della donna che diventerà sua moglie …:

“Venne finalmente il giorno del mio matrimonio e proprio quel giorno ebbi un’ultima esitazione. Avrei dovuto essere dalla sposa alle otto del mattino, e invece alle sette e tre quarti mi trovavo ancora a letto fumando rabbiosamente e guardando la mia finestra su cui brillava, irridendo, il primo sole che durante quell'inverno fosse apparso.”

… alla relazione controversa e contraddittoria con l’amante che per questo lo lascerà …:

“Si dice che quando si soffre per aver bevuto troppo, non ci sia miglior cura che di berne dell’altro. Io, quella mattina, andai a rianimarmi da Carla …”

Vicende che Zeno racconta nelle sedute dal suo psicoanalista dal quale si allontanerà non appena si farà strada in lui il disprezzo e la sfiducia verso il buon esito della terapia.

La coscienza di Zeno non è soltanto la storia di un uomo divorato dalle malattie, reali o apparenti, del proprio vissuto al punto da renderlo inetto e refrattario a qualsiasi stimolo esterno.

E' il fallimento della società civile di acquisire una propria capacità introspettiva, l’inadeguatezza dell’essere in rapporto alle azioni compiute che appaiono effimere, inspiegabili o, nella migliore delle ipotesi, poco efficaci e produttive delle migliori manifestazioni d’animo.

Sono allora le omissioni, le parole sottaciute, i gesti trattenuti a destabilizzare la vita del protagonista relegandola in un limbo indefinito nel quale e contro il quale s’imbatte una coscienza fragile ed indifesa che non sa tendere lo sguardo ad un futuro sicuro e tranquillo:

Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.”

(Italo Svevo, “La coscienza di Zeno)