L’ATTENZIONE

Quando la realtà non piace perché abietta e reietta diventa qualcosa di inautentico da affrontare con disattenzione. È quello che succede a Francesco, protagonista de “L’attenzione”, romanzo di Alberto Moravia pubblicato nel 1965 e prodotto in un film vent’anni dopo con Stefania e Amanda Sandrelli. Scrittore alla ricerca di se stesso, Francesco si propone di scrivere un romanzo ricavandolo da un diario personale sul quale annota le vicende della sua vita familiare allo scopo di trasferire l’inautenticità, ovvero la piattezza del vivere quotidiano, nell'autenticità del dramma ideologico che solo un romanziere è in grado di rappresentare.

Figlio di una famiglia borghese e corrotta, e come tale inautentica, Francesco s’innamora di una donna del popolo, Cora, fino a sposarla e accoglierla in casa con la figliastra Gabriella, detta Baba, avuta da una precedente relazione con un militare durante la seconda guerra mondiale:

Ora, per contrasto con questa inautenticità, si era formato in me, con la lentezza ma anche con la naturalezza del processo che porta alla nascita, dentro l’ostrica del nucleo della perla, si era formato, dico, il mito del popolo come solo depositario di tutto ciò che vi era di autentico al mondo. Si era nel 1947; questo mito aveva ricevuto una conferma dal fascismo e dalla guerra, due catastrofi, a ben guardare, dell’inautenticità. Così si spiega come, al mio primo incontro con Cora, io mi innamorai. ”

Ma il rapporto coniugale si rivela ben presto un fallimento: Cora si trasforma agli occhi del marito in una donna convenzionale, e perciò inautentica, che spingerà Francesco ad allontanarsi dalla famiglia con frequenti viaggi all'estero per motivi di lavoro. Decide quindi di essere “disattento” verso tutto ciò che accade nella vita della moglie e della figlia Baba, vivendo con loro da pigionante, ovvero da “separato in casa” ma non rinunciando a lunghe sortite fuori dalle mura domestiche.

Insomma, una specie di paralisi davvero progressiva mi irrigidiva sempre più in un atteggiamento di incompleta incomunicabilità, distacco, estraneità, ribrezzo. […] Per dare un’idea dell’irritato senso di estraneità che mi ispirava la convivenza con Cora e con sua figlia, voglio dire ancora che tra me e me non le chiamavo più con i loro nomi bensì con dei soprannomi. Cora era la “sarta” […] e Baba era, mi dispiace dirlo, “la bastarda”.”

Un giorno, al rientro da uno dei soliti viaggi, Francesco scopre tra la posta una lettera anonima nella quale viene rivelato che Cora gestisce da anni una casa di appuntamenti, un bordello cui aveva cercato di introdurre la stessa figlia Baba all'età di quattordici anni. Comincia così per Francesco l’attenzione. Interroga Baba che conferma l’attività della madre e del tentativo di quest’ultima di proporla al cliente di turno. Scoprirà che in quella stessa casa di appuntamenti Cora organizzava incontri con donne che si offrivano al marito, ignaro dell’occulta regia della moglie.

Con Baba il rapporto si fa intenso, misterioso, continuamente in bilico tra l’amore filiale e la passione incestuosa:

“… era piuttosto da questo nome che da lei stessa in carne ed ossa che mi sentivo attirato; e questo nome era quello che si dà al rapporto amoroso tra un uomo e una donna che hanno i vincoli di parentela. Ora io mi rendevo conto che se non ci fosse stato l’idea o meglio il nome di incesto, probabilmente io non l’avrei desiderata. così ancora una volta era dimostrato che per me non c’era né poteva esserci azione autentica nemmeno quando l’impulso ad agire veniva dal profondo. Infatti: il mio desiderio era scattato automaticamente al suono di un nome, di un mero nome e per giunta falso, poiché dopo tutto, non eravamo veramente padre e figlia.”

Si consuma così il dramma familiare. Quello che era inautentico, impersonale, indifferente, diventa autentico, una presa di coscienza dettata proprio dall'attenzione che spingerà Francesco a scrivere il romanzo non dall'immaginazione ma dagli stessi appunti del suo diario personale. Scoprirà inorridito quello che era veramente successo a Baba all'età di quattordici anni in quella casa di appuntamenti …

Romanzo scritto con magistrale bravura da Alberto Moravia, “L’attenzione” è il prologo di uno sconvolgimento sociale che precederà da lì a poco gli anni duri della rivoluzione sessantottina. Fortemente introspettivo ed ideologico, se ne consiglia la lettura a chi ama approfondire le tematiche dell’esistenzialismo puro e maledetto.

ZUCCHERO AMARO


Giro e rigiro il cucchiaino nel cappuccino quasi a voler prolungare un istante che non so bene se sia di sollazzo o di ostinata agonia. La schiuma trasborda intorno alla tazza come le onde del mare sulla scogliera; in questa distesa di liquido colorato sento di immergermi con il capo chino e pensieroso.

La barista giocherella con il suo smartphone aspettando che arrivi un altro avventore da servire. E’ magra da far paura ma dotata di una forza mascolina che non disdegna di mostrare quando impugna il portafiltro e lo sistema in un colpo solo sotto la coppa della macchina da caffè. Dove troverà tutta questa energia alle sette e trenta del mattino? Che sia forse un monito a noi poveracci che ci muoviamo come zombi alle prime luci dell’alba?

Accanto a me una coppia di anziani commenta le notizie di un quotidiano piegato a metà sul bancone, e più in là, in disparte, un giovane studente con lo zaino sulle spalle beve tutto d’un fiato il succo d’arancia prima di scappare fuori a prendere l’autobus.

Intanto continuo a girare il cucchiaino nella tazza con le pupille che seguono questo movimento circolare che quasi mi procura un effetto ipnotico. Se non la smetto finirò sul serio con la faccia nella schiuma del latte e mi addormenterò come un ubriaco dopo l’ennesimo quartino.

Penso e non vorrei pensare, mi agito e vorrei stare fermo, tutte azioni e negazioni  che si annullano a vicenda facendomi rimanere al punto di partenza: ritto nella mia postazione, anonimo e indifferente come un manichino insieme ad altri intento ad osservare il solito scenario.

Giro e rigiro il cucchiaino ma questa volta la barista mi lancia un’occhiata interrogativa che mi induce ad accelerare l’atto di sorbirmi il mio cappuccino.

Ecco che mi decido ad impugnare il manico della tazza e a portarla a poca distanza dalle mie labbra. Sento gli occhi dei presenti su di me come se stessero assistendo ad un’operazione delicata e difficile. Finalmente mando giù i primi flutti di latte caldo che scendono in gola e infine nello stomaco dopo un lieve rigurgito. Provo un gusto amaro come se avessi ingerito uno strano intruglio, di quelli che si prendono come medicina quando si sta male.

Chiedo alla barista una brioche alla crema per addolcire il palato ma il primo boccone mi va di traverso, comincio a tossire, divento rosso e poi paonazzo, sento che sto per soffocare. Improvvisamente ricordo che non ho fatto  testamento né ho dato disposizioni per la donazione degli organi e questa assenza di pianificazione delle azioni postume alla mia vita mi fa agitare sempre di più.

Penso a Confucio, il mio cane che da lì a poco avrei lasciato da solo nel mio giardino di casa senza che nessuno si sarebbe occupato di lui. Ed è un pensiero miracoloso che segna la mia salvezza da quella difficile situazione. Di colpo il boccone della brioche che si era trattenuto tra la trachea e l’esofago si sposta verso quest’ultimo ed io riprendo finalmente a respirare.

Cerco di darmi un contegno, fingo indifferenza ma in cuor mio mi sento sollevato per lo scampato pericolo. Vado alla cassa, rifiuto con un sorriso l’offerta della barista di non pagare l’infausta consumazione ed esco dal bar.

Mi prendo in faccia l’aria fredda del mattino e scopro che è così bello ricominciare.

ZUCCHERO AMARO

Racconto breve 

di

Vittoriano Borrelli



A tutti i lettori i miei auguri di buona Pasqua


PRIMA DI FIRMARE, PENSA!


La pubblicazione di un libro può essere un sogno che si avvera ma può anche trasformarsi in un vero e proprio incubo. In questo articolo vi spiego gli errori da non commettere per evitare di trovarsi, nel bel mezzo di una festa annunciata, con un pugno di mosche tra le mani.

Dopo aver scritto il vostro manoscritto, se pensate di rivolgervi ad una casa editrice, è bene prestare la massima attenzione a tutte le clausole contrattuali che vi vengono sottoposte. Sappiate che con la sottoscrizione del contratto trasferite a terzi (in questo caso all'editore) per un certo periodo di tempo, il diritto di utilizzazione dell’opera che in molti casi non consiste semplicemente nella stampa e distribuzione, ma anche nel diritto della traduzione in altre lingue o di adattamento a scopi teatrali, cinematografici, radiotelevisivi o multimediali. 

Si tratta quindi di una limitazione più o meno ampia della proprietà intellettuale che dura per tutta la vigenza del contratto, per la quale vale la pena spendere una pausa di riflessione più che adeguata prima di apporre la propria firma sul documento.

È bene sapere innanzitutto che nell'ordinamento italiano vige la legge 22 aprile 1941 n. 633, da ultimo modificata dal decreto legislativo 15 gennaio 2016 n. 8, che regola la protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi. In particolare gli articoli che disciplinano il contratto di edizione sono dal numero 118 al n. 135.

In particolare l’art. 122 stabilisce che nei contratti di edizione (che sono quelli in cui devono essere specificati il numero delle edizioni e il numero degli esemplari per ogni edizione) e  nei contratti di edizione a termine (dove invece deve essere indicato il numero di edizioni che si stima necessario durante il termine concordato e il numero minimo degli esemplari per ogni edizione), la durata massima del contratto non può eccedere i vent’anni dalla consegna del manoscritto completo.

Salvo che non sia stato scritto un capolavoro (ma nessuno può saperlo a priori) o l’editore non sia di fama certa, è bene non accettare contratti di così lunga durata. Tre anni o al massimo cinque è un tempo più che sufficiente per valutare l’andamento dell’opera sul mercato, il comportamento dell’editore e altri elementi che potrebbero indurre le parti, alla scadenza contrattuale, a rinnovare o meno la collaborazione.

L’art. 127 fissa il termine massimo per la pubblicazione dell’opera che non può eccedere i due anni dalla consegna completa del manoscritto. Ogni diversa clausola è nulla di diritto e vale l’anzidetto termine legale dei due anni. Anche in questo caso il suggerimento è di non stabilire un termine così lungo: se l’opera è giudicata buona, è interesse anche dell’editore stabilire un termine inferiore, massimo sei-otto mesi che appare più che sufficiente. È altresì opportuno che sia disciplinato il recesso ipso iure, ovvero senza la necessità di intervento del giudice adito, se entro il termine concordato non si proceda alla pubblicazione dell’opera.

Occorre inoltre sapere che l’autore può apportare tutte le modifiche all'opera (purché non sostanziali), fino al momento della stampa (art. 129) e che il prezzo di ogni copia, pur stabilito dall'editore, deve essere tempestivamente comunicato all'autore il quale può opporsi se “sia tale da pregiudicare gravemente i suoi interessi e la diffusione dell'opera.” (art. 131).

Infine, tra le cause di estinzione del contratto di edizione (art. 134), si sottolinea lo spirare del termine di due anni senza che sia intervenuta alcuna pubblicazione. Si aggiunge che trattandosi di contratto sinallagmatico (a prestazioni corrispettive), in caso di violazione di ogni singola clausola è sempre possibile domandare la risoluzione giudiziale con diritto al risarcimento dei danni previa diffida ad adempiere.

Come si vede, il contratto di edizione è tutt'altro che operazione semplice. Occorre non lasciarsi prendere dall'entusiasmo ed evitare di affidarsi alla sola fiducia e “stretta di mano” senza regolare per iscritto quelle condizioni base sopra descritte che tutelino l’autore da… brutte sorprese.

Pertanto, prima di firmare, pensa!

LUCCIOLE


Strade che finiscono davanti al buio
marciapiedi pieni di colore umano
Qui non ci son stelle
Solo buchi sulla pelle

Scende anche stavolta bella e silenziosa                              
questa notte brava bella e maliziosa
fatta per aprire
cuori freddi e finestrini

Eccole che danzano sopra le ore
Lucciole che ballano senza parole
con il capo in fondo
si alzano ed è già il conto

Volti sconosciuti 
altri molto noti che
sfidano la notte e i bagliori tiepidi
che si vedono spuntare all'improvviso
quando tutto è già finito

E le trovi nei bar
con la spesa sul tram
Certe hanno anche un figlio
e un marito coniglio

Altre sono chissà
a curarsi l'età
le ferite che il mondo
ha lasciato giù in fondo

Lucciole che ballano senza nascondersi
anche se non vogliono devono accendersi
Aspettando il giorno
senza neanche un sogno
per tornare 

sulle strade che finiscono davanti al buio
marciapiedi pieni di colore umano
Qui non ci son stelle
Sono andate a farsi belle

(Tratto da Le parole del mio tempo”)