Stare fuori


Fuori.
È più di un anno stare soli
Più di un inverno stare fuori
Più della faccia di un amore
che non ti vuole e che ti lascia fuori …”

Da ragazzo io e la mia compianta sorella, prematuramente scomparsa, ci emozionavamo fino a commuoverci nell'ascoltare questa bellissima canzone di Loredana Bertè “Stare fuori”, scritta da Ivano Fossati, meno nota rispetto ai tanti successi della rock-star calabrese, ma così intensa e profonda da rappresentare una denuncia solenne contro l’indifferenza. 

La solitudine è un’arte per chi riesce a conviverci ma è anche una pericolosa discesa all’inferno per chi invece la vive come una scelta imposta dalle circostanze rimanendo ai margini della propria e altrui esistenza.

Quando è obbligata diventa una sorta di spirito di sopravvivenza, tipico stato di chi si sente accerchiato da una serie di fattori negativi che lo spingono a ricercare nella propria interiorità gli appigli più sicuri e le risorse, necessarie e dovute, per provare a riemergere. 


Ho imparato a vivere con me 
a mangiare discorsi senza te 
a guardare le macchine così 
ma nessuno mi porta via da qui” 

Sono passati trentatré anni da quando ho scritto questa canzone tratta dall'album “Cerco” e inserita nella raccolta “L’aquila non ritorna”. Esegesi di un mondo interiore che si evolve attraverso la conoscenza di se stessi, mentre fuori tutto scorre velocemente e distrattamente. 

C’è una solitudine positiva ed un’altra di segno opposto. Il protagonista del testo vive purtroppo nella seconda come reazione ad un mondo esteriore cinico e perverso, chiuso nella propria autoreferenza ed indifferenza. 

La sommatoria di storie individuali come quella di “Vivere con me”, è indicativa di un problema sociale di più ampie proporzioni, caratterizzato dal disagio affettivo (o disaffettivo) che si erge a muro invalicabile sull'impoverimento relazionale e, più in generale, sull'incapacità di coglierne i segnali. 

Chi fa da sé fa per tre, recita un celebre proverbio. 

Ci si abitua così alla propria solitudine, si ascoltano le voci di dentro costruendosi una sorta di sistema immunitario per auto-rigenerarsi. Un po’ come un camaleonte che cambia colore adattandosi a qualsiasi tessuto sociale che gli viene cucito addosso. 

E nel silenzio contemplativo tenere alto lo sguardo per scorgere, oltre l’orizzonte, nuove prospettive di vita. 

A Isabella

CASA DOLCE CASA


In questi giorni terribili in cui l’imperativo più altisonante che si ascolta dappertutto è di restare a casa, dobbiamo riscoprire, volente o nolente, gli antichi sapori del focolare domestico. Vero che le abitudini sono dure da scardinare, ma un cambiamento del proprio stile di vita, specie se preordinato ad una futura e più calorosa socializzazione non può che farci bene.

Come sapete, sono napoletano. Ricordo la mia esperienza ai tempi del colera, un’epidemia che colpì Napoli alla fine dell’estate del 1973 e che fu causata da un virus, il vibrione, rinvenuto in una partita di cozze proveniente dalla Tunisia. Ero giovanissimo e trascorrevo con la mia famiglia le vacanze nel salernitano. Anche allora ci fu il panico, la paura di un contagio che avrebbe abbattuto intere popolazioni. Ricordo che tardammo il rientro a Napoli e ci sottoponemmo tutti alla vaccinazione. Il bilancio fu di poche decine di morti e tanti ricoverati ma soprattutto, allora, c’era già un vaccino che ci salvò.

Oggi le cose sono molto diverse. Contro questo virus, Covid 19, subdolo e sconosciuto, non è stato ancora scoperto l’antidoto. Ecco, quindi, che diventa importante la prevenzione attraverso il c.d. distanziamento sociale, termine che abbiamo imparato a conoscere in questi giorni e che significa mantenere le giuste distanze gli uni dagli altri (almeno 1 metro), evitare qualsiasi contatto fisico oltre che osservare le nome d’igiene come il lavarsi spesso le mani, non portarle alla bocca, naso ed occhi e, soprattutto, restare a casa per evitare la diffusione del contagio.

La casa è diventata quindi il luogo più sicuro e bisogna spendere il tempo a disposizione (per chi può) nel miglior modo possibile. Si potrebbero rispolverare abitudini che forse, nella vita frenetica ante epidemia, abbiamo dimenticato o coltivato con meno frequenza. Come leggere un libro, una fiaba ai propri figlioli piccoli, giocare con loro o fare insieme i compiti che le scuole, stante la chiusura obbligata, stanno assegnando attraverso i vari canali telematici.

Avere cura dei nostri cari più anziani, coccolarli, non importa se a volte a distanza o con una video-chiamata. Informarsi o divagarsi guardando un bel film alla TV. Riflettere e prepararsi al meglio quando tutto sarà finito e si potrà  ritornare nelle piazze o in altri luoghi di ritrovo per abbracciarsi di nuovo con più calore e affetto.

Restare a casa, al di là della situazione drammatica in cui stiamo vivendo, è anche un privilegio rispetto a tante persone costrette a lavorare, primi fra tutti, il personale medico e paramedico che in questi giorni si sta prodigando con eroismo e abnegazione per salvare tante vite umane.

Emblematica è la foto del post che ritrae un’infermiera di Cremona accasciata sulla scrivania, stremata e distrutta dalla lotta quotidiana contro questo maledetto virus. Forse il simbolo di questa tragedia che racchiude in sé l’eroismo e l’alto senso di altruismo ma anche un monito per riscoprire i valori della vita, il senso di responsabilità che tutti noi dobbiamo rafforzare con i nostri comportamenti ed essere migliori.

Casa dolce casa, quindi. In attesa che le porte possano di nuovo riaprirsi e sorridere al mondo.


ESORDIENTI PER SEMPRE


Forse si è autori esordienti per sempre. A parte i grandi maestri della letteratura, penso che uno scrittore debba sempre mettersi in gioco e considerare ogni opera che propone come se fosse la prima. Niente è scontato, per restare sul palcoscenico letterario bisogna mantenere il piglio, l’entusiasmo, l’emozione acerba della prima volta. In questo modo l’etichetta di “autore esordiente” non assume per niente il significato di essere sconosciuti o principianti ma, al contrario, è la leva per rinnovarsi e riproporsi nel tempo.

Affermarsi è difficile, confermarsi lo è ancora di più. Soprattutto nel campo letterario dove il rapporto tra domanda/offerta è decisamente sbilanciato in favore della seconda. Siamo un popolo di scrittori e di poeti, i libri spuntano nel mercato dell’editoria come funghi e distinguersi in questo marasma di letteratura o pseudo letteratura sparsa è davvero complicato.

A ben guardare anche per gli scrittori che hanno scritto la storia della letteratura, ripetersi non è stato facile. Umberto Eco, ad esempio, è per i più identificato nella sua opera più rappresentativa, “Il nome della rosa”, anche se il suo curriculum non si limita solo a questo capolavoro. Andando indietro nel tempo, Dante Alighieri si ricorda per l’immensurabile “Divina Commedia”, e Alessandro Manzoni, pur avendo composto diversi scritti, ha legato la sua fama soprattutto per “I Promessi Sposi” che resta a tutt'oggi la sua opera più significativa e di spicco.

Se per i grandi della letteratura il cammino è stato arduo, figuriamoci per il resto degli scrittori o pseudo tali che si avventurano in questo campo, poche volte con profitto, molte altre in maniera estemporanea, episodica, da non lasciare, spesso, alcuna traccia.

Di questi tempi la concorrenza è ampia e agguerrita: auto-pubblicazioni selvagge anche per promuovere le ultime ricette della vicina di casa, scrittori improvvisati per conquistarsi uno spazio di celebrità che è solo illusoria, editoria a pagamento, che investe poco o che punta più sulla quantità che sulla qualità, sicché emergere o individuare opere di qualità è quasi come cercare un ago nel pagliaio.

Esordienti per sempre, quindi, tanto per continuare da dove si è iniziati e provare a districarsi in questa fucina incontrollata di idee affinché le proprie emozioni, sempre in continuo divenire, possano arrivare a chi saprà raccoglierle e condividerle con un passaparola spontaneo e crescente.  

Oggi è il miglior risultato che si possa sperare.