Cattivi pensieri

 

I pensieri sono come l’alcool, vanno alla testa, ubriacano e impediscono di essere lucidi. Accade soprattutto quando la mente li subisce in maniera incontrollata perdendo quella capacità di discernimento che è indispensabile per distinguere i buoni dai cattivi pensieri.

Stare in pensiero per qualcuno o per qualcosa che non si è fatto o si deve fare, può alimentare l’ansia di non farcela, di non essere all’altezza di quel compito che ci è stato affidato o di prefigurarci il peggio da certe aspettative. La negatività di questi pensieri, se non dominata da una giusta dose di ottimismo, finisce per prendere il sopravvento con il risultato di non vivere affatto.

Quanta vita che si perde per colpa dei cattivi pensieri. Quante occasioni di spensieratezza, di sana leggerezza e superficialità ci passano davanti  come un treno che sfreccia via dileguandosi in fondo all’orizzonte.

E il naufragar m’è dolce in questo mare”. Leopardi lo sapeva bene quando scrisse questi bellissimi versi a chiusura de “L’Infinito”, che le limitazioni del mondo sono nella testa degli uomini più che nella Natura di per sè infinita e senza preconcetti. Dovremmo prendere spunto da questo per spogliarci delle nostre trepidazioni, dei nostri indugi e autolimitazioni che non danno estro e sostanza al nostro essere.

Via allora i cattivi pensieri per vivere meglio scrollandosi di dosso giornate anonime che pesano come zavorre, di tempo sprecato per dedicarsi ad altro e non alle cose che contano veramente, come le migliori pratiche del benessere interiore.

Basta poco: abbracciarsi e stringersi di più per respirare i profumi della vita che ci fanno sentire meglio e più vicini alla nostra aspettativa di essere, se non felici, quanto meno sereni e più saggi.

 

 

La casa di vetro-Epilogo

 


Squilla il telefono, so chi è ma non voglio rispondere. Indugio per alcuni secondi, poi alzo la cornetta e rischiaro la voce come un attore che si appresta ad entrare in scena.

 Pronto.

“Ci hai messo tanto a rispondere. Che stavi facendo?”

“Niente. Guardavo la mia casa di vetro.”

“Ti piace così tanto?”

“Sì.”

“Lo sai che tra poco dovrai lasciarla?”

“Devo proprio farlo?”

“Sì, il momento è arrivato.”

“Concedimi ancora qualche giorno. Fammi godere ancora della sua bellezza, dei suoi profumi, del tepore delle sue cose, di ogni centimetro dei suoi spazi.”

“Lo sai che non è possibile. E poi sarebbe come prolungare inutilmente questa agonia.”

“Non è un’agonia. Io sto bene qui. E poi non so che cosa mi aspetta fuori.”

“Non devi aver paura. Verrò io a prenderti e ti condurrò per mano verso un altro luogo più bello e confortevole.”

“Ma io sono felice qui.”

“Non lo sei.”

“Sì che lo sono. Sono felice della mia infelicità, della mia tristezza, del mio dolore. Li ho imprigionati in questa casa per tenerli sotto controllo e non mi fanno più paura. Ormai sono solo oggetti, suppellettili, cose inanimate che non agiscono più se non per mia concessione.”

“Devi uscire.”

“Perché mi costringi ad uscire? Fuori non c’è nessuno che mi aspetta, nessuno che si è accorto della mia assenza, del mio niente nel quale sono precipitato in un giorno qualunque, oscuro e nebuloso, che non ricordo più.”

“C’è un tempo per restare e un tempo per andare via.”

“Dove mi porterai?”

“Ti porterò in un posto sicuro che ti piacerà. Fidati di me.”

“Devo proprio?”

“Devi.”

“Come farò a riconoscerti? Finora ci siamo parlati solo al telefono.”

“Aspettami fuori che arrivo tra un minuto.”

Ho aperto la porta e ho cominciato a muovere i primi passi come un bambino incerto che inizia a camminare. Ho avvertito subito un dolore lacerante in ogni parte del corpo: dallo stomaco al torace, dalle gambe alla testa come un serpente velenoso insinuatosi nelle vene, nei muscoli, nei capillari. Mi sono piegato in due e ho cominciato a piangere. Le lacrime mi hanno ingorgato il viso e sono scese giù fino agli angoli della bocca da dove si sono infilate per raggiungere il palato e poi la gola. Ho avvertito un sapore aspro, amaro e allora mi sono detto che in fondo tutta la mia vita è stata amara come queste lacrime che adesso sentivo spargersi dentro e fuori di me.

La strada davanti a me si è illuminata di colpo disegnando un percorso chiaro e lineare. Mi sono catapultato su quel fascio luminoso come un naufrago disperato che tenta di salvarsi prima di essere inghiottito dalle onde. Non ho sentito più niente, il dolore è improvvisamente scomparso e così ho proseguito verso quella luce mentre la casa di vetro crollava alle mie spalle.

 

LA CASA DI VETRO 

Racconto breve

di

Vittoriano Borrelli

 Ogni riferimento alla realtà è puramente casuale.

La prima parte del racconto è stata pubblicata venerdì, 15 gennaio 2021.

La casa di vetro

 


Sono rinchiuso in questa casa di vetro dove custodisco ogni cosa che mi faccia stare bene. Una sorta di contenitore delle mie emozioni che ho prelevato dall’esterno per riviverle in tutta tranquillità come si fa quando si guardano vecchie foto del passato. Ma so che è soltanto un’illusione o, come si dice, un surrogato di quella che dovrebbe essere la vera felicità e il benessere dei sensi.

Da quanto tempo sono rinchiuso tra queste quattro mura bianche, fredde, asettiche come la stanza di un ospedale? Un giorno? Un mese? Un anno? Forse da tempo immemore che ho perso il conto da quando tutto questo è cominciato.

C’è sempre un inizio per ogni cosa, come un mal di testa improvviso, una fitta al cuore, un tumore. Sarà capitato anche a me che un bel giorno, per una ragione oscura ed inspiegabile, ho deciso di rifugiarmi in questo focolare domestico artato e ovattato da cui non riesco più a separarmi.

Mi chiamo Eugenio e ho cinquant’anni. Sono un uomo piacente anche se gli anni si fanno sentire a giudicare dalle rughe sotto gli occhi che ogni mattina, quando mi guardo allo specchio, mi ricordano che il tempo sta passando anche per me. Inesorabilmente.

Sono sposato? Forse. Ho dei figli? Forse. C’è qualcuno che mi aspetta? Forse.

Penso, non so se a torto o a ragione, di non essere mai stato amato e questo dubbio spiacevole mi porta a non ricordare, per scienza o incoscienza, le persone che hanno interagito nella mia vita per amore, odio, amicizia o inimicizia. 

Guardo la mia casa di vetro: luminosa, spaziosa con ogni cosa a suo posto. E’ un ordine precostituito che mi acquieta e mi dà pace. Tra me e la mia casa c’è un rapporto di osmosi e di reciproca corrispondenza.  L’uno è lo specchio dell’altra e viceversa.

Se trovo qualcosa in disordine mi faccio prendere dall’ansia di riportare il tutto ad uno status quo che, ai miei occhi, è la condizione ideale per la mia apparente tranquillità. Lavo le stoviglie, tolgo la polvere dai mobili, sistemo le suppellettili, lucido i pavimenti e tanto altro fino a che la mia casa non sia ordinata, splendente e senza macchie.

Si sa che quello che si prova dentro non è tangibile, palpabile, materializzabile, ma per me è accaduto esattamente il contrario: ho proiettato all’esterno tutte le mie manifestazioni interiori affinché prendessero forma e sostanza attraverso gli oggetti che compongono la mia casa di vetro. Una sorta di spia rivelatrice della mia affezione o disaffezione, rabbia o contemplazione, piacere o dolore.

Insomma ho dato anima al mio arredamento domestico perché parlasse e agisse per me.

Squilla il telefono, so chi è ma non voglio rispondere ...

(continua) 

(Il seguito della storia sarà pubblicato sabato, 23 gennaio 2021. Nel frattempo prova ad indovinare chi potrebbe essere la persona che telefona a Eugenio?)

Napoli muore

 


Brano a struttura atipica (strofa- intermezzo/ritornello-refrain-orchestra intercalare), musicalmente complesso, “Napoli muore” rischiò negli anni ’80 di essere prodotta dalla casa discografica Baby Records. Le titubanze della dirigenza di dare un taglio diverso alle strategie di mercato ( a quei tempi contrassegnato dai successi di Pupo e dei Ricchi e Poveri), fecero accantonare il progetto che in seguito non venne più ripreso.

 La canzone, scritta nel 1981 con la collaborazione del musicista milanese Salvatore Maniscalco che curò gli arrangiamenti, racconta le contraddizioni di una Napoli bella e maledetta nello stesso tempo, illusa e disillusa, anarchica e maestra di quella filosofia che appartiene solo ai partenopei: l’arte d’arrangiarsi.

 Napoli muore” è una canzone senza tempo nonostante siano passati ben quarant’anni dalla sua creazione. Il testo lunghissimo, come la parte strumentale che dura oltre sei minuti, è uno dei più rappresentativi de “Le parole del mio tempo” pubblicato nel 2012 dall’editore Meligrana e inserito l’anno dopo nella raccolta “Poeti in costruzione” dall’associazione culturale “I Leoni di Ferro” a scopo benefico.

 Il brano può essere ascoltato su YouTube cliccando sull’immagine in alto o accedendo a questo link: 

Le mie canzoni sono differenti.

 Di seguito il testo:

 

NAPOLI MUORE

(V. Borrelli-S. Maniscalco-V. Borrelli)

 



Napoli muore con il vento dimenticandosi di sé
Napoli muore per un bimbo che vive senza un perché
poi si distende sul mio letto e fa l’amore con me
bruciando giorni disgraziati svegliandosi nel caffè

Napoli muore consapevole della sua oziosità
e s’innamora in un bar per una stagione che verrà
poi come un vecchio aspetta che
il tempo passi senza novità

Che mondo!
Quattro puttane che ti passano accanto
e fanno il girotondo senza le mutande

Allegramente Napoli si droga e sogna per un po’
e si scatena in discoteca o legge libri in biblioteca
poi guarda il cielo e canta amore cadendo ancora nell’errore
e si traveste è un travestito e si rivede nel finito

Napoli muore in bicicletta o in tanti uffici e scrivanie
Napoli sente ma non parla è sempre in cerca di manie
e se la vita si è impiccata Napoli crede all’avventura
magari con tante valigie ed una storia un po’ più sua

Napoli muore sui cartelli di proteste appesi ai muri
Napoli muore di prostituzione e di falsi amori
non è più come una volta od è la stessa
ma cosa importa?

Che mondo!
Senza cortili e senza spazi per giocare
che idea lasciare tutto
e andare in giro a bestemmiare

Quando il cielo si fa scuro e il sole è più pezzente
quando la vita non è più sua
Napoli prega qualche santo
e grida forte: “Dammi tempo!”

Quando mangia nei digiuni o tenta la fortuna
Napoli diventa ironia
chiedendosi se la sua vita
è solo una ferrovia

Napoli muore tra cortei e scioperi internazionali
poi si confonde tra i confusi o si addormenta tra gli illusi
Napoli muore ma lo sa perciò rimane come sta
e si rassegna per la via o si ribella per apatia

Napoli muore in giradischi nelle domeniche d’inverno
oppure annega nel suo mare per depressione totale
Non è lo specchio di se stessa
Napoli piange anche se si fa festa

Che mondo!
Senza un momento da dividere in due
Morire non è più forse una ragione per vivere

Quando il cielo si fa scuro e il sole è più pezzente...

 

 

(Tratto da “Le parole del mio tempo”)