GIARDINO D’INFANZIA

E’ uno dei testi delle mie canzoni più apprezzati dagli amici “internauti”.
Con molto piacere lo ripropongo aggiungendo alcune informazioni di cornice.

Tratto dall'album “Malinconico digiuno” del 1981, il testo racconta il rimpianto di una fanciullezza spensierata nel ricordo sofferto dell’io narrante.

Dagli accenti “leopardiani”, “Giardino d’infanzia” si propone di esorcizzare il dolore attraverso il riscatto degli anni perduti, nella ieratica aspirazione di lasciarsi definitivamente alla spalle la porta delle rinunce …

La musica è stata scritta da me con la collaborazione di Salvatore Maniscalco, apprezzato musicista, che ha curato l’introduzione.

GIARDINO D’INFANZIA
(V. Borrelli.-S. Maniscalco -V. Borrelli)

Nel giardino d'infanzia nascondevo il peccato
le bugie con mia madre e con mio padre invecchiato
Dopo un po’ mi stendevo sopra il suolo bagnato
e guardavo il mio cielo farsi sempre lontano
Qualche volta per sbaglio arrossivo nel buio
addormentandomi su un letto freddo e di nessuno

Nel giardino d'infanzia c'era la fata turchina
con il corpo sottile e con la faccia ruffiana
Mi diceva perché sognavo altri orizzonti
se la vita era quella alle spalle dei monti
Sotto alberi di ulivi i miei occhi erano vivi
ascoltavo il mio tempo e le voci del vento

Nel giardino d'infanzia la mia faccia era pulita
e facevo all'amore per cambiare un po’ vita
Io stringevo tra le mani due rami vecchi e spinosi
e baciavo il mio tronco con pensieri scabrosi
Vita mia dove sei? Perché fuggi da me?
Ho bisogno di te sempre e solo di te

Quante volte ho rubato l'anima alla poesia
quante volte ho cercato di andarmene via
Dietro il niente restavo e in silenzio morivo

Nel giardino d'infanzia nei discorsi del nonno
c'era la verità di leggende e di imbrogli
Io fumavo il mio vento mentre mi disprezzavo
perché avevo accettato il mio destino segnato
Vita mia dove sei? Perché fuggi da me?
Ho bisogno di te sempre e solo di te

La mia vita moriva prima di incominciare
le mie idee erano ombre e volavano sole
Dietro il niente restavo e in silenzio morivo

Nel giardino d'infanzia quante cose ho lasciato!
La mia terra il mio sangue
il mio giorno rinunciato
Dietro il niente restavo
e in silenzio morivo...

L’ULTIMO ORANGO A TREVIGLIO

Quando vedo le immagini della Kyenge non posso non pensare alle sembianze di un orango”, ha dichiarato il vice presidente del Senato Roberto Calderoli durante un comizio della Lega a Treviglio.

L’infelice epiteto rivolto al Ministro dell’Integrazione del governo Letta, ha destato imbarazzo tra i vertici delle Istituzioni che hanno duramente condannato le frasi pronunciate da un esponente (fatto ancor più grave) della Repubblica italiana. E’un comportamento che meriterebbe di essere sanzionato, senza alcun appello, con una espulsione esemplare dai banchi del Parlamento.

E invece, codici e regolamenti alla mano, tale decisione, secondo quanto precisato dal presidente del Senato Pietro Grasso, sarebbe rimessa alla sola volontà dell’interessato.

Al di là dei cavilli e dei leziosismi normativi, la questione morale rimane ampiamente aperta e irrisolta, malgrado gli approcci e i tentativi di rinnovamento della nuova compagine governativa che non sembrano sortire gli effetti sperati.

Piovono a iosa esempi di imbarbarimento civile (come sottolineato anche dal Capo dello Stato) senza che si faccia niente per porvi rimedio.

Eppure basterebbe modificare la legge sull’incandidabilità con una norma del tipo “coloro che si siano resi responsabili, anche solo sul piano politico, di azioni, atti o comportamenti elusivi dei principi costituzionali dell’eguaglianza e del rispetto della dignità sociale individuale".

La ricetta del “prevenire è meglio che curare”, funziona sempre. Sarebbe ora di avviare un deciso sterminio del decadimento culturale cui la stragrande maggioranza degli italiani sta assistendo, ahimè, in maniera del tutto impotente.

Voglio sperare che nella civilissima Treviglio si sia assistito all'ultimo orango (parafrasando un noto e più nobile film) del trogloditismo del pensiero, misero e sparuto, da obliare in fretta.

Se si è toccato il fondo, domani è già un giorno migliore.



AAA CERCASI … UN DISCO PER L’ESTATE

C’era una volta il Festivalbar. La grande kermesse canora condotta dal mitico Vittorio Salvetti, che affollava le piazze italiane nelle notti d’estate fino a giungere all'appuntamento fatidico dell’Arena di Verona, ha lasciato un vuoto che non è stato mai colmato.

Forse la “Spending Review” ha mietuto vittime anche sul fronte dell’offerta musicale, da qualche anno a questa parte, scarna e povera di qualità.

Qualche giorno fa discutevo con i miei due adorati figlioli delle canzoni di questa estate che avrebbero potuto “accompagnarci” durante la prossima vacanza. Ho chiesto loro consiglio sui brani più in voga del momento ma non ho ottenuto grandi suggerimenti. A parte la (bonaria) presa in giro per i miei gusti musicali, a loro avviso retrogradi e appartenenti al tempo che fu, vi è stata una oggettiva difficoltà nell'individuare canzoni godibili e orecchiabili.

Eppure ai tempi del bravissimo Salvetti c’era solo l’imbarazzo della scelta. Sotto la sua “scuderia” sono nate hit che hanno spopolato le classifiche, fatto innamorare ( e qualche volta litigare) milioni di teen-ager, non lesinando mai sogni e desideri di spensieratezza e finanche di (moderato) ottimismo.

Canzoni come “Un’estate al mare” della compianta Giuni Russo, “Vamos a la playa” degli “estinti” Righeira, o ancora, (per fare molti passi indietro), come le super - gettonate  “E tu” di Claudio Baglioni o “Sapore di sale” del mitico Gino Paoli, hanno fatto emozionare intere generazioni senza trovare, nell'implacabile scorrere del tempo, degni sostituti.

Un tentativo di “resurrezione” del fortunato programma di Salvetti, è stato compiuto in questi giorni da Mediaset che dalla sua rete ammiraglia ha mandato in onda il “Music Summer Festival-Tezenis Live” , versione ridotta (appena quattro puntate, visti i tempi) del disco per l’estate del terzo millennio condotto da Alessia Marcuzzi e da Simone Annichiarico (figlio di Walter Chiari, n.d.r.).

Sul palco si sono esibiti artisti affermati come Eros Ramazzotti  che ha duettato con Nicole Scherzinger (cognome che evoca l’ex partner Hunziker)  sulle note di “Fino all'estasi”, Gianna Nannini, con “Indimenticabile (spero che lo sia davvero), Max Pezzali (emaciato e ridotto quasi all'osso) con “L’universo tranne noi”, e l’onnipresente del momento, Emma Marrone, che ha sfoderato “Dimentico tutto” dall'album “Schiena” .

Particolarmente applaudito Biagio Antonacci, che dopo il successo dell’estate scorsa con l’esotica “Non vivo più senza te”,  ha  proposto “Insieme finire”, canzone dai ritmi “irlandesi” particolarmente godibile.

Spazio anche alle nuove proposte con il vincitore dell’ultima edizione di Amici, quel Moreno (che non è figlio del più famoso ventriloquo)  che ha mandato in “Confusione” le migliaia di ragazzine accorse festanti nella mitica Piazza del Popolo. E ancora, Antonio Maggio (vincitore nella categoria “giovani” dell’ultimo Sanremo) che si è esibito con “Anche il tempo può aspettare”, l’esordiente Clementino, con la napoletanissima “O’Vient, e un certo Coez che si è esibito con la “beneaugurante” “Siamo morti insieme”.

Sarà come ai vecchi tempi? Lo sapremo presto. A settembre. 

MARQUEZ: CENT’ANNI DI SOLITUDINE

Pubblicato nel 1967 agli albori della contestazione giovanile, questo capolavoro di Gabriel Garcia Marquez spezza ogni legame con la letteratura a struttura discorsiva collocandosi, a pieni voti, nell'alveo della narrativa del racconto indiretto racchiudendo in sé una quantità di informazioni, di pensieri e di stati d’animo da risultare una novella dalle mille sfaccettature e profili narrativi.

La solitudine, come condizione naturale e inevitabile dell’Uomo, sembra “materializzarsi” nelle vicende dei personaggi narrati  fino a ad essere “toccata con mano” nella trasposizione empirica di tutte le sue componenti interiori.

In questa cornice di desolazione individuale e sociale la morte diventa per l’autore un fatto “piacevolmente” ineluttabile, una sorta di attesa verso la quale sembrano indirizzarsi tutte le azioni e le vicende dei protagonisti. Quanto avviene nella realtà è soltanto provvisorio e precario; i mutamenti del tempo segnano l’incapacità dei personaggi di comunicare e di relazionarsi tra di loro.

LA TRAMA: Tutta l’opera ruota intorno alle vicende della famiglia Buendìa, da Josè Arcadio ad Aureliano Babilonia, una stirpe lunga cent’anni nella quale s’intrecciano storie di eroine come Ursula, la matriarca della famiglia, che tenta in tutti i modi di tenere uniti figli propri o di altri acquisiti, o di falsi eroi, come il colonnello Aureliano Buendia, impegnato nella guerra tra conservatori e liberali, bipolarismo di altri tempi, la cui matrice ideologica è sconfessata da azioni contraddittorie o contro-tendenti.
Il tutto sullo sfondo di una Macondo che si “spopola”, man mano che progredisce, del sentimento di appartenenza dei suoi fondatori.
Una regressione che culmina in una solitudine fisica ed interiore che è inversamente proporzionale all'evoluzione delle abitudini di vita degli abitanti del villaggio: dalla primordiale scoperta del ghiaccio da parte degli zingari, all'invenzione dell’elettricità, dei mezzi di comunicazione come il treno e per finire alle prime lotte sindacali per il riconoscimento dei diritti dei lavoratori. 
Nel mezzo storie individuali di amori, presunti o tali, di tradimenti e persino di velato incesto alla ricerca di una felicità o di una serenità  agognate e irraggiungibili.

L’AUTORE: Colombiano del 1927 e Premio Nobel del 1982, Gabriel Garcia Marquez ha un curriculum di tutto rispetto. Tra i suoi scritti: Cronaca di una morte annunciataL’autunno del patriarcaNessuno scrive al colonnelloL’amore ai tempi del coleraIl generale nel labirinto.

UN PASSO DEL ROMANZO: Ursula ignorava in quei tempi l’abitudine di mandar donzelle nel letto dei guerrieri, come si mettono le galline sotto i galli di razza, ma nel corso di quell'anno l’apprese: altri nove figli del colonnello Aureliano Buendìa furono portati in casa per essere battezzati.


GIUDIZIO: Pur non rientrando nel genere che prediligo, Cent’anni di solitudine è un romanzo scritto con sagacia e cura di particolari. La sapienza e le qualità stilistiche dell’autore emergono a tutto tondo in ogni passo dell’opera appassionando il lettore soprattutto per la quantità (e qualità) di informazioni che riesce a trasmettere. La descrizione dei luoghi e dei personaggi è alquanto veritiera e fedele nell'intento di rappresentare la solitudine come condizione sociale che si tramanda nel tempo, al di là dei suoi mutamenti. E’un romanzo che ha in sé un grande pregio: quello di non lasciare indifferenti.