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Un
buon libro deve avere una trama avvincente. Se ne può apprezzare la
copertina, annusare il classico profumo inebriante della carta stampata,
indugiare sui particolari come il profilo dell’autore o una
presentazione ad hoc con tanto di prefazione, ma quello che conta è la
storia, il tessuto narrativo che sappia appassionare il lettore.
Se l’ottimismo
è il sale della vita, come diceva il grande Tonino Guerra,
l’intreccio romanzesco è l’ingrediente principale per rendere il libro “appetibile”
e “saporito”. Come un digestivo che prendi dopo una grande abbuffata di
cose prelibate e succulenti che tuttavia non ti procurano sazietà, perché la
quantità non si abbina quasi mai con la qualità che ti può dare la lettura di
una scorrevolissima storia.
E’ pur
vero che l’equazione buona trama/buon libro non sempre genera l’altro
binomio rappresentato dalla qualità dell’opera/successo assicurato. Concorrono
variabili impazzite che nemmeno i più illustri matematici sarebbero in grado di
risolvere.
La Storia è piena di esempi di questo tipo. “I Malavoglia”,
capolavoro di Giovanni Verga, quando venne pubblicato nel 1881 fu un
fiasco completo, avversato dalla critica che non seppe apprezzare la novità
tematica ed espressiva del romanzo. “La
coscienza di Zeno” che Italo Calvino pubblicò nel 1923, passò
letteralmente inosservato salvo guadagnarsi la notorietà solo alcuni anni dopo.
Ma
la letteratura ci insegna di tanti libri
che presentano “strafalcioni” di ogni tipo, dalla
linguistica infestata da "orrori" grammaticali, all'impostazione narrativa approssimativa, inconcludente e
noiosa. Forma e sostanza che vanno a braccetto in maniera aberrante e, a volte,
inspiegabilmente proficua e vincente.
Le “50
sfumature di grigio”, tanto per citare uno degli esempi più
recenti, è la dimostrazione di quanto una cattiva trama non escluda affatto
successo e profitto, e quanto invece un libro di qualità fatichi ad entrare
nelle grazie del grande pubblico. Qui, più che di “variabili impazzite”, entrano
in gioco strategie di mercato ben costruite basate sulla capacità di adescare,
incuriosire e procurare l’effetto sorpresa mascherandone i contenuti.
Il voyeurismo letterario funziona quasi sempre. Se il mio romanzo "La prossima vita" fosse stato intitolato "La prossima scopata", avrei avuto maggiore visibilità a scapito però della più preziosa dignità culturale.
E
che dire dei libri pubblicati da personaggi famosi, scrittori per caso
che sfruttano la propria notorietà per guadagnarsi uno spazio nel mercato delle
vendite?
Pensate a “La confessione” di Enzo Ghinazzi, in arte Pupo,
edito dalla Rizzoli nel 2012 (e chi se no?) con tredicimila copie
vendute in pochissimi mesi. Una cifra da capogiro se rapportata alla crisi del
mondo dell’editoria (e dintorni). La
trama racconta di un delitto commesso al festival di Sanremo che avrebbe fatto
“rabbrividire” persino Agatha Christie, ma se a scriverla è l’autore di “Gelato al
cioccolato” qualche dubbio sorge spontaneo.
Basta
una semplice vocale per trasformare la prospettiva di una buona trama in un trauma
per i malcapitati lettori. E se si seguono certe logiche di mercato, come gli
investimenti sicuri sul “nome” più che sulla qualità del
prodotto, questi “traumi” sono sempre dietro l’angolo, pronti
a mietere altre innumerevoli "vittime".
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