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“La
vita è bella”, recitava Benigni nel film che gli è valso l’Oscar
qualche anno fa. Ma nella realtà è davvero così? Se si guarda al ciclo di una
giornata, c’è sempre l’alba dopo il tramonto, così come le quattro stagioni che
si susseguono l’una all'altra nell'infinito divenire delle cose, perché
l’inizio e la fine sono intervalli ambivalenti, tutto si ripete e si rinnova e niente
finisce per sempre.
Basterebbe
partire da queste semplici considerazioni per ricavare forza reattiva ai dispiaceri
e alle sofferenze che si avvertono ogni giorno e che fanno più male del dolore
fisico.
Eppure
c’è sempre un bastardo pronto a rovinarti la “festa”, a colpirti
quando stai per rialzarti e a intrufolarsi nella tua mente e nella tua anima
fino a divenire “invisibile”. Quando pensi di averlo definitivamente
allontanato da te, ti accorgi che è ancora molto presente, soprattutto quando
devi fare delle scelte, e quella più importante è proprio la scelta di
vivere.
Sta suscitando
scalpore in questi giorni la vicenda di Laura, giovane belga di
ventiquattro anni che ha chiesto ai medici l’eutanasia per porre fine
alla sua depressione, male che per lei è divenuto incurabile. “La morte è
percepita da me non come una scelta. Se potessi scegliere, vorrei una vita
sopportabile, ma ho provato di tutto e non ha avuto successo”. In Belgio la
legislazione consente ai medici di praticare l’eutanasia a richiesta del
paziente quando non c’è più alcuna speranza di guarigione.
E’
una questione etica che s’interseca con quella medico-scientifica.
L’atrocità del dolore mentale o interiore, quando diventa irreversibile,
è posta sullo stesso piano del dolore fisico che accompagna i malati
terminali ad una morte sicura, sicché per i pazienti dell’uno e dell’altro tipo
di sofferenza la scelta suprema di “staccare la spina” assume pari
valenza.
Il
male di vivere pesa quanto le metastasi tumorali e forse ancor di
più sotto il profilo delle contromisure: l’efficacia del trattamento
farmacologico della depressione non è disgiunta dal successo della terapia
psicologica ed affettiva per la quale è richiesta, giocoforza, l’adesione e la
collaborazione del paziente.
E’
un male sociale sempre più dilagante che fonda le sue radici sulla
cronica anaffettività, diretta o indotta dal mondo delle relazioni, dal
contesto ambientale e dalla (mala) educazione familiare. Colpisce soprattutto i
giovani, ma è una tendenza che si sta stratificando in maniera trasversale a
prescindere dall'età e dall'estrazione sociale. Segno, forse, di una decadenza
di valori sempre più vertiginosa.
E’
un male che nasce anche dall'insicurezza e dall'incapacità di reagire
con spirito positivo e propositivo alle avversità, piccole o grandi che
siano. Ricordo che un mio compagno di scuola aveva la mania di strappare oggetti
di carta: pagine di libri, quaderni e persino manifesti affissi ai tabelloni
delle vie. Un giorno gli chiesi perché mai avvertisse questo bisogno così bizzarro.
E lui mi rispose: “Distruggo perché non so costruire.”
Le
cause e i rimedi sono così svariati e incontrollabili che ho un sogno
ricorrente: quello di trovarmi su un’isola di pace insieme alle vittime
del dolore per accoglierle tutte in un lungo abbraccio. Ambiziosa e
chimerica aspirazione di far sparire, come per incanto, ogni sofferenza senza avere
più paura della notte.
Sarà un sogno impossibile ma dopo tutto, alla fine di un tramonto, c’è sempre un’altra alba da scoprire.
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