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Si dice che la solitudine sia un’invenzione letteraria,
terreno fertile di poeti e scrittori che si sono cimentati su
questo tema con scritti più o meno avvincenti (e convincenti). L’essere umano,
secondo gli antropologi, è per sua natura socievole e ha bisogno di interagire
con gli altri per trovare la sua piena consacrazione.
Sarà
solo letteratura? Immaginazione? Leggenda metropolitana? Eppure il vuoto
esistenziale con cui le ultime generazioni hanno dovuto fare i conti è qualcosa
che rifugge dalle pagine di un libro. L’ascetica condizione di chi, per
scelta o per necessità, ha innalzato una diga sull'oceano di tanti navigatori
erranti è quanto di più tangibile ci possa essere in un mondo apparentemente
comunicativo e socializzante.
Le storie
raccontate, anche quelle più fantasiose, traggono sempre spunto dalla realtà.
Anzi, proprio l’esperienza del vivere è spesso fonte ispiratrice di trame
molto aderenti al contesto storico in cui si sono sviluppate. Prendiamo, ad
esempio, due libri che ho recensito su questo blog: “La vita interiore”
di Alberto Moravia e “La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano.
Nel primo, la protagonista Desideria
sacrifica la propria verginità in nome di una rivoluzione simbolica mirata
a soppiantare la borghesia omicida (e suicida). Sono gli anni di piombo
del terrorismo e della lotta di classe. Desideria si ritroverà sola
rispetto a un ideale che vede disintegrarsi dall'azione, tutt'altro che eroica,
del gruppo di reazionari da cui viene respinta.
Nel
secondo, i retaggi dell’infanzia dolorosa dei due protagonisti, Mattia
e Alice, segneranno le loro vite che resteranno per sempre divise
e distanti come la teoria matematica dei numeri primi.
Chi
può dire che queste storie non siano lo specchio di una realtà nella
quale si mescolano tante altre esperienze di immanente solitudine? E del resto
i romanzi che ho citato c’insegnano che l’unione disunisce più di quanto
l’isolamento non demarchi uno spartiacque incolmabile verso il cosiddetto “gruppo”.
Ed è
storia dei nostri giorni le mescolanze etniche che dividono e non
congiungono, il fallimento delle unioni coniugali che ha rovesciato la promessa
sacramentale del “finché morte non ci separi”.
Forse
non siamo fatti per vivere insieme, ma per allontanarci e rammaricarci nell’abbandono di quello che sarebbe potuto essere e non è stato.
Forse
è l’idea dello stare insieme che affascina di più di qualsiasi convivenza
che si riveli deludente e incapace di sostenerla.
O forse tutto è il contrario di tutto e la solitudine è davvero un’invenzione dei poeti.
Forse.
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