UN UOMO DA LETTO

E’ uno dei testi delle mie canzoni più dirompenti e reazionari di un’epoca, quella degli anni ’80, in cui l’inquietudine giovanile post-sessantottina, si misurava con il disincanto e con le prime avvisaglie di un futuro senza più valori di riferimento.

Un uomo da letto”, fotografa l’incapacità di uscire da un target precostituito per affrontare (e superare) il malessere interiore al cospetto di una società consumistica che non “vede” e non “ascolta”.

Ecco il testo:

E mi ritrovo così con la solita definizione
senza alcuna speranza di salvarmi da questa finzione
che dura da tempo e come gli anni non si ferma mai
Che strano il mio nome il mio mito che sai!

E sono un uomo da letto getto orgasmo e più non smetto
un uomo da letto con tanti difetti e poco rispetto
un uomo da letto senz'anima e senza ribellione
ed amo e respiro così senza parole

Ma che stupida sera respirata male!
Non ho più il coraggio di guardarmi allo specchio
Chissà mai perché mi sento stanco e più vecchio?
Stupida canzone nascosta in fondo al cuore!

Il peccato lascia tracce nere nel mare
ma l'innocenza si fa santa quando vuole Dio
Intanto mi spingo dentro grido al vento "Sono mio!"
Io quell'uomo l'ho lasciato per le vie del passato

Ma il mio corpo non va giudicato così solo per questo
Ho un'anima nascosta che vale e che mi rende diverso
Prova amico a volare inventa due ali e un istinto
lascia la tua fantasia non darti per vinto

Dove sei uomo? Non mollare! Perdono!
Dove sei uomo? Non voglio piangere lo giuro!
Resta un po’ con me amica non andar via vita!
Io una speranza vera non l'ho mai avuta

L'innocenza si fa santa quando vuole Dio
qui c'è orgoglio e penitenza sono io sono mio
e il peccato lascia tracce nere nel mare
Ma che stupida sera respirata male!

(Dall'album “Malinconico digiuno”, 1981. Tratto da “Le parole del mio tempo”)

GLI ANGELI DEL DOLORE

Se il dolore potesse avere un volto capace persino di sorridere, avrebbe sicuramente gli occhi e lo sguardo di Stefano Borgonovo, scomparso nel 2013 all'età di 49 anni dopo essere stato colpito dalla SLA, acronimo di sclerosi laterale amiotrofica.

L’ex calciatore di Fiorentina, Milan e Como, si è spento con la fierezza e la dignità che lo ha contraddistinto in questo lungo calvario il cui esito, sia pure tragico, è servito da insegnamento per affrontare con civiltà, compostezza e perseveranza questa terribile malattia.

Mi piace pensare che il mostro della SLA, attraverso l’esperienza di Stefano, sia stato ideologicamente abbattuto e che presto la ricerca scientifica riuscirà ad annientarlo definitivamente. La morte, questa morte, è soltanto un passaggio metafisico che rivaluta la vita e infonde speranza e coraggio  in chi, imbattendosi  nel male “oscuro” e “invisibile”, riuscirà prima o poi a sconfiggerlo.

Numerosi sono stati i messaggi di cordoglio partiti da ogni parte del mondo alla notizia della triste scomparsa di questo campione di  rara umanità: “L’impresa più bella che sei riuscito a costruire è stata trasformare il veleno della malattia in medicina per gli altri.”, scrive Roberto Baggio dalle pagine della Gazzetta dello Sport.

L’ex “codino magico” è stato uno dei più grandi amici di Borgonovo sostenendolo con assiduità nella sua battaglia contro la SLA attraverso numerose iniziative di solidarietà. Tante sono state le gare amichevoli con incasso devoluto alla Fondazione che porta il suo stesso nome, cui hanno partecipato diversi calciatori ed ex compagni di “Borgo”.

Memorabile l’incontro allo stadio Giuseppe  Meazza del 7 settembre 2009 in cui si sono esibite le vecchie glorie del Milan e del Real Madrid con un Franco Baresi visibilmente commosso che accarezza il capo dello sfortunato campione.

Sono gli angeli del dolore, quelli come Stefano, che sopravvivono alle turbolenze della vita e che ciononostante hanno sempre il sorriso dipinto sul viso.

Da loro non bisogna mai distogliere lo sguardo, perché alla perfezione si arriva solo dopo una lunga sofferenza.


LE IDENTITA’ CULTURALI

L’era della globalizzazione sta spazzando via le identità culturali disperdendole nel cosmo come retaggi storici del nostro passato.

Un tempo era facile, intuibile e comprensibile l’identificazione di un popolo attraverso le sue tradizioni, gli usi e i costumi, finanche nel linguaggio, nell'idioma come forma univoca di comunicazione e di assonanza di un comune sentire.

Nelle società tribali, ad esempio, l’organizzazione sociale era caratterizzata dal perseguimento di idee di solidarietà e di comunione d’intenti, oltre che di origini. Tutto era basato su una disciplina comune, accettata e condivisa da una etnia riconosciuta e riconoscibile, che sapeva imporsi e farsi imporre. Esempi di società tribali ve ne sono tutt'oggi nei cc.dd. paesi sottosviluppati, ma guardando alla loro organizzazione, semplice e unitaria, ci si chiede se il progresso abbia davvero portato con sé modelli sociali evoluti e più efficaci.

Nell'era moderna le identità culturali si sono via via associate a simbolismi rappresentativi della storia di un popolo piuttosto che delle sue radici, sicché l’eredità storica che doveva  costituirne il fondamento e il “collante” con le generazioni future, si è andata disperdendo in luogo di una coscienza sociale proiettata più nell'attualità o nel futuro prossimo.

Si associa, ad esempio, Londra al Big Ben, Parigi alla Torre Eiffel, New York alla Statua della Libertà e, fino al 2001, alle Twin Towers, ma le popolazioni di queste metropoli si sono nel frattempo trasformate al punto da allontanarsi quasi del tutto dalla storia che le ha rappresentate.

Proprio il tragico abbattimento delle Torri gemelle ha trasformato la storia del mondo con un taglio deciso con il passato: niente da quel momento sarebbe stato più come prima.

Da quell’11 settembre 2001 si è assistito al decadimento delle identità culturali, le cui avvisaglie in Italia si erano già avute negli anni ’90 con “Tangentopoli” e con la fine della c.d. “Prima Repubblica”.

Rispetto all'era moderna, i periodi storici del passato erano molto più identificativi di una precisa corrente culturale che si sviluppava in aderenza al contesto sociale di cui era espressione. Si pensi alla cultura rinascimentale o a quella del neorealismo del secolo scorso.

Nell'epoca attuale si fa molta più fatica ad essere parte di un contesto o di una comunità poiché mancano regole sociali accettate e condivise, in una parola manca il senso di appartenenza al gruppo, all’etnia , all’organizzazione storico-culturale.

Complice una politica distante dalle reali esigenze della comunità governata, e sotto la spinta della globalizzazione del tutto e del niente, il massimo senso dello Stato si riscontra a malapena alzandosi in piedi allo stadio per ascoltare l’inno della nazionale di calcio. 

Serve allora un deciso cambio di rotta perché le politiche apparentemente egualitarie finiscono col rendere indifferenziate le “differenze”, minando alla base le precipue identità culturali che rischiano così di dissolversi come le più tipiche espressioni del nostro essere.


CENT’ANNI DI SOLITUDINE

Pubblicato nel 1967 agli albori della contestazione giovanile, questo capolavoro di Gabriel Garcia Marquez spezza ogni legame con la letteratura a struttura discorsiva collocandosi, a pieni voti, nell'alveo della narrativa del racconto indiretto racchiudendo in sé una quantità di informazioni, di pensieri e di stati d’animo da risultare una novella dalle mille sfaccettature e profili narrativi.

La solitudine, come condizione naturale e inevitabile dell’Uomo, sembra “materializzarsi” nelle vicende dei personaggi narrati fino a ad essere “toccata con mano” nella trasposizione empirica di tutte le sue componenti interiori.

In questa cornice di desolazione individuale e sociale la morte diventa per l’autore un fatto “piacevolmente” ineluttabile, una sorta di attesa verso la quale sembrano indirizzarsi tutte le azioni e le vicende dei protagonisti. Quanto avviene nella realtà è soltanto provvisorio e precario; i mutamenti del tempo segnano l’incapacità dei personaggi di comunicare e di relazionarsi tra di loro.

LA TRAMA: Tutta l’opera ruota intorno alle vicende della famiglia Buendìa, da Josè Arcadio ad Aureliano Babilonia, una stirpe lunga cent’anni nella quale s’intrecciano storie di eroine come Ursula, la matriarca della famiglia, che tenta in tutti i modi di tenere uniti figli propri o acquisiti, ma anche di falsi eroi, come il colonnello Aureliano Buendia, impegnato nella guerra tra conservatori e liberali, bipolarismo d'altri tempi, la cui matrice ideologica è sconfessata da azioni contraddittorie o controtendenti. Il tutto sullo sfondo di una Macondo che si “spopola”, man mano che progredisce, del sentimento di appartenenza dei suoi fondatori.

Una regressione che culmina in una solitudine fisica ed interiore che è inversamente proporzionale all'evoluzione dello stile di vita degli abitanti del villaggio: dalla primordiale scoperta del ghiaccio da parte degli zingari, all'invenzione dell’elettricità, dei mezzi di comunicazione come il treno e per finire alle prime lotte sindacali per il riconoscimento dei diritti dei lavoratori. 

Nel mezzo storie individuali di amori, presunti o tali, di tradimenti e persino di velato incesto alla ricerca di una felicità o di una serenità agognate e irraggiungibili.

L’AUTORE: Colombiano del 1927 e Premio Nobel del 1982, Gabriel Garcia Marquez ha un curriculum di tutto rispetto. Tra i suoi scritti: Cronaca di una morte annunciata, L’autunno del patriarca, Nessuno scrive al colonnello, L’amore ai tempi del colera, Il generale nel labirinto.

UN PASSO DEL ROMANZO: Ursula ignorava in quei tempi l’abitudine di mandar donzelle nel letto dei guerrieri, come si mettono le galline sotto i galli di razza, ma nel corso di quell'anno l’apprese: altri nove figli del colonnello Aureliano Buendìa furono portati in casa per essere battezzati.

GIUDIZIO: Pur non rientrando nel genere che prediligo, Cent’anni di solitudine è un romanzo scritto con sagacia e cura di particolari. La sapienza e le qualità stilistiche dell’autore emergono a tutto tondo in ogni passo dell’opera appassionando il lettore soprattutto per la quantità delle informazioni che riesce a trasmettere. La descrizione dei luoghi e dei personaggi è alquanto veritiera e fedele nell'intento di rappresentare la solitudine come condizione sociale che si tramanda nel tempo al di là dei suoi mutamenti. E’un romanzo che ha in sé un grande dono: quello di non lasciare indifferenti.
   

VOTA ANTONIO

Le recenti elezioni amministrative per il rinnovo di alcuni consigli comunali hanno fatto registrare un deciso calo degli elettori, reso ancora più marcato con il turno di ballottaggio che ha visto coinvolte città importanti come Roma Capitale.

Rispetto al 1° turno, vi è stata una significativa flessione del numero dei votanti, sceso in media dell’11,25%, contro la quale nemmeno il cattivo tempo degli ultimi sussulti dell’inverno (data la latitanza della primavera) è servito ad invogliare gli elettori più refrattari o inclini alle gite fuori porta.

La media nazionale dei votanti è stata del 48,51%, come dire che la maggioranza degli italiani ha preferito la strada dell’astensione anziché quella della partecipazione democratica.

Questa disaffezione, mista a stanchezza e delusione degli elettori verso le istituzioni, già peraltro avvertita con le recenti politiche del febbraio scorso, appare ancor più significativa se si pensa che l’interesse dei cittadini, almeno a livello locale, dovrebbe essere maggiore.  

Sono finiti i tempi in cui le consultazioni elettorali rappresentavano il momento topico dell’espressione della volontà popolare, diritto/dovere primario e assoluto che i padri della nostra Costituzione avevano voluto imprimere nei principi fondamentali all'indomani dell’infausta esperienza del fascismo.

Chi non ricorda quel bellissimo film del 1963, “Gli onorevoli in cui uno straordinario Totò recitava la parte di Antonio la Trippa, candidato alle politiche, che per ottenere il consenso popolare tormentava i suoi condomini ripetendo da un imbuto a mo’ di megafono la mitica frase “Vota Antonio”. Sublime un passaggio del film in cui il grande comico napoletano pronunciava la battuta: “A proposito di politica, ci sarebbe qualche cosarella da mangiare?

La pellicola, che è un ritratto di sottilissima ironia, si conclude nell'episodio in questione con la presa di coscienza del personaggio La Trippa sui torbidi affari della politica che lo porterà a rinunciare alla sua candidatura per difendere i veri principi morali.

Oggi come ieri le cose non sono cambiate molto anche se di acqua ne è passata sotto i ponti; la questione del “politicamente corretto” (o del suo rovescio che è lo stesso), lungi dall'essere risolta, ha assunto proporzioni ancora più significative. Manca la politica del “fare” in  luogo di quella del “mal-fare”, mancano precisi punti di riferimento da prendere a modello, a cominciare dalla famiglia, ormai fortemente in crisi.

Manca, in altri termini, quell'insegnamento che lo scrittore statunitense H. Jackson Brown junior ha saputo ben racchiudere in queste poche ma significative parole: 
Vivi in modo che quando i tuoi figli penseranno alla correttezza e all'integrità penseranno a te.”