L’ETERNO


Manca l'eterno nel nostro sentire
giovani amanti noi già prigionieri
di un sogno che non ci fa risvegliare più
E manchi proprio tu
dentro di me tu dove sei?
In qualche via fuori di me


Io voglio camminare insieme a te
oltrepassare tutto quel che c'è
per arrivare in fondo agli occhi tuoi
capire che l'eterno siamo noi


Poeti della stessa malattia
Malati della stessa poesia
Perduti in questa lucida follia
Rapiti dall'eterno che va via
che va via ...
che va via ...

Manca l'eterno nel nostro capire
quando restiamo da soli a dormire
e abbiamo freddo e non c'è quasi niente da dire
E  manchi solo tu
Nei sogni miei solo tu
Nel cielo mio vieni anche tu

Io voglio camminare insieme a te
oltrepassare tutto quel che c'è
per arrivare in fondo agli occhi tuoi
capire che l'eterno siamo noi

Poeti della stessa malattia
Malati della stessa poesia
Perduti in questa lucida follia
Rapiti dall'eterno che va via
che va via ...
che va via ...
che va via …

TRATTO DA "LE PAROLE DEL MIO TEMPO"

IO E FRANCESCO


Si può avere per amico un maschietto ed essere trattata allo stesso modo, anzi peggio? Con Francesco, compagno d’infanzia, delle elementari, delle scuole medie e infine del liceo, è accaduto proprio questo: un’amicizia di lunga data, intima e necessaria, che ha contrassegnato buona parte della mia vita fino a condizionarla, orientarla, plasmarla come si fa con un oggetto di cui si vuole modellare a proprio piacimento la forma, lo spessore, la sostanza.

E’ cominciata così, fin dai primi vagiti, gattonate nel corridoio di casa, lunghe corse sui tricicli e risate a non finire nei pomeriggi svogliati in cui passavamo gran parte del tempo insieme. I nostri genitori, vicini di casa, si frequentavano praticamente tutti i giorni e per un certo periodo io e Checco, il mio Francesco, ci siamo sentiti come un fratello e una sorella, figli della stessa famiglia.

Devo dire che fino a quando eravamo bambini questa fratellanza mi stava anche bene. Giocavamo agli indiani, ingaggiavamo lotte estenuanti per misurare la nostra forza, mi sono persino travestita da Zorro per sfidarlo a colpi di spada ma era un modo per fargli piacere, per assecondarlo, lasciarlo vincere qualche volta per compiacermi dei suoi sollazzi.

Invece che preferire le bambole, facevo collezione di soldatini e poi con Francesco passavo ore intere a giocare alla guerra, a inventarmi strategie per abbattere il nemico, a gridare a squarciagola quando vincevo e a godere quando vedevo la faccia del mio compagno mogia e affranta.

Questi giochi d’infanzia, ma soprattutto la mia amicizia con Francesco mi aveva resa un vero e proprio maschiaccio e forse è stato per questo che negli anni successivi il mio amico ha continuato a trattarmi come se fossi davvero come lui, cioè un maschio di sana pianta nonostante nel frattempo stessi diventando una donna con esigenze che sentivo diverse ma che ho dovuto reprimere per stare, come dire?, al suo livello e non deluderlo.

Crescendo, durante l’adolescenza, mi sono sorbita le confidenze di Francesco che mi raccontava di questa o di quella tipa tutta tette e con un fisico da mozzafiato che gli faceva il filo. A volte scendeva in particolari anche imbarazzanti di cui facevo finta di niente per non spezzare quella grande complicità che si era creata tra noi. Eravamo due facce della stessa medaglia, due monellacci che si divertivano a prendere in giro la gente, a correre nei parchi e nei sentieri accidentati con le nostre mountain bike che avevano preso il posto dei nostri tricicli.

Dai racconti piccanti, parolacce proferite senza riserve, Francesco era passato del tutto spontaneamente alla gestualità colorita che non disdegnava di mostrare: una volta ad un fast food, complice anche qualche birra di troppo, si era complimentato per una mia battuta con una sonora pacca sulla spalla che mi aveva fatto andare di traverso la bibita che stavo sorbendo dalla cannuccia.

Insomma due amici per la pelle, un corpo e un’anima come direbbe una famosa canzone degli anni ’70, osmosi di pensieri, stati d’animo, di emozioni che provavamo anche quando eravamo distanti come succede per certe telepatie sensoriali, certi legami invisibili che persistono e sembrano durare in eterno.

Ma tutto questo non mi bastava più. E’ successo quando la mia femminilità, fino a quel momento repressa come una guaina che si tiene ben stretta per comprimere il grasso cutaneo, ha preso il sopravvento e ho cominciato a guardare Francesco con occhi diversi. E’ stato questo sguardo, tipico di una donna che smette di essere una bambina, a far mutare le mie aspettative verso un’amicizia che si stava trasformando, almeno per me, in un amore forte e inconsolabile. Ma non sapevo che da lì a poco avrei decretato la fine della nostra amicizia.

Francesco continuava a trattarmi come un amico, un compagno di giochi e di avventura senza minimamente intuire che stessi cambiando e volessi che anche lui mi guardasse con i miei stessi occhi. Nulla da fare, non mi vedeva che come un maschiaccio grazie anche al mio fisico che, a dispetto della mia femminilità, presentava connotati di virilità: longilineo, un po’ tozzo, seni piatti come una sogliola e ciuffi di peluria sparsi qua e là su di un tessuto cutaneo grezzo e indelicato.

Un giorno ho voluto fare un esperimento. Mi sono detta: se per Francesco non sono altro che un’amica vorrà dire che sarò io ad essere esattamente come lui mi vede, un uomo anche nell’aspetto e nelle fattezze. E’ stato così che sono diventata… Guido, uno sportivo, e precisamente un giocatore di tennis che ha preso a frequentare lo stesso club di Francesco.

La trasformazione, merito anche del mio fisico, è stata semplice: capelli cortissimi, occhiali da sole, peluria sul mento a mo’ di barbetta e un cappellino con una visiera inclinata verso gli occhi giusto per evitare di essere riconosciuta. Ci crederete? Francesco non si è accorto di nulla e ha voluto sfidarmi in lunghe partite di tennis in cui ne uscivo quasi sempre vincitrice. Per lui ero Guido e, fatto ancor più strano, non riusciva ad arrabbiarsi per le sconfitte come invece accadeva con me nei giochi d’infanzia e dell’adolescenza.

Ora Francesco mi guardava con occhi diversi ma questo anziché lusingarmi mi procurava turbamento, instabilità emotiva e soprattutto il sospetto che non fossi per lui quello che io desideravo, ovvero Vania, la sua amica del cuore che nel frattempo si era trasformata per amore e che sperava, quasi per miracolo, di essere riconosciuta e amata allo stesso modo.

Non è andata così. Per Francesco ero Guido, un amico speciale, direi fin troppo. Una volta, dopo l’ennesima partita a tennis, mi ha seguita negli spogliatoi e con una scusa ha cercato di baciarmi. Sono scappata via terrorizzata perché sapevo che non era me che voleva ma la persona in cui mi ero trasformata.

Io ero diventato Francesco.
Francesco era diventato me.

IO E FRANCESCO

Racconto di
Vittoriano Borrelli

(Ogni riferimento a fatti o a persone reali è puramente casuale)

Tutti i diritti riservati

GLI OCCHI DI MIA MADRE


Erano grandi da specchiarmi dentro e trovarci tutto l’amore possibile, sentinelle attente sui miei passi incerti verso la vita. Lacrimanti o gioiosi, parlavano più di quanto le parole, semplici e rudimentali, non riuscissero ad esprimere.  Erano belli gli occhi di mia madre.

Se c’è uno sguardo che ci portiamo dentro fino alla fine dei nostri giorni è quello dei nostri genitori e più ancora di chi ci ha messo al mondo, perché quel cordone ombelicale non si spezza mai, nemmeno quando viene reciso al momento del parto.

Sentiamo questo sguardo anche quando non lo vediamo, a volte ci condiziona, altre ci conforta e ci orienta come una bussola senza la quale ci sentiremmo smarriti, indifferentemente adulti o bambini perché non si smette mai di essere gli uni o gli altri a dispetto dell’età che avanza.

Gli occhi di mia madre sono gli occhi del mondo che ci costruiamo e che ci guarda come un Grande Fratello, perché nessun segreto può essere tenuto nascosto se a captarlo sono gli occhi più importanti del nostro tempo.

Gli occhi di mia madre sono gli occhi dell’amore, voluto, ambìto, desiderato, come quando si ha sete e si cerca acqua dalla sorgente più pura per rigenerarsi. Sono gli occhi che restano vivi nel nostro ricordo, l’immagine che non si cancella e che ci portiamo dentro di noi per sempre.

Gli occhi di mia madre sono gli occhi che ci osservano in silenzio qualunque sia la direzione che imbocchiamo, il luogo in cui ci troviamo, gli affetti o le solitudini da cui siamo circondati. Sono presenze che vanno oltre la percezione delle distanze, il tempo che passa e che cavalca le nostre rughe, il nostro corpo che cambia e che s’inclina per la stanchezza.

Quali parole, all'indomani della festa della mamma, si possono dedicare alla donna più importante della nostra vita? Tante o nessuna perché non c’è parola che possa esprimere veramente tutto l’amore che serbiamo per lei, quell'amore di cui ci nutriamo durante il nostro cammino.

Solo gli occhi, quelli che s’incrociano e si toccano nell’anima possono farlo.

Gli occhi di tutte le madri.

Gli occhi belli di mia madre.


Auguri a tutte le mamme del mondo (e oltre)!




L’INDIFFERENTE


Sono refrattario a qualsiasi dolore, guardo il mondo dall'alto e non mi volto mai indietro. Per la gente sono un mostro insensibile e senza compassione, un concentrato del Male assoluto racchiuso in un essere pensante abietto ed implacabile. Un giudizio tutt'altro che onorevole che tuttavia mi lusinga e mi procura maggiore forza e capacità di propugnare sofferenza ed infelicità.

Da quando sono così? Dai tempi della scuola, esattamente da quando ho studiato che due corpi opposti e di eguale intensità si annullano a vicenda creando un punto di equilibrio fermo ed assoluto. E’ stato allora che ho amato il mio professore di Fisica, un vecchio decadente che è diventato il mio alter ego segnando definitivamente la mia esistenza.

Ho messo in pratica questo principio con dedizione quasi maniacale: ad un’offesa, un dolore, un fatto spiacevole, ho reagito allo stesso modo, ovvero con una contro-offesa, un altro dolore della stessa specie, un’azione uguale e contraria come avveniva con la legge del taglione all’epoca dei Romani. Non mi sono emozionato più e non ho più sofferto, non ho più gioito ma nemmeno pianto. E’ stato così che sono diventato agli occhi degli altri e di me stesso un essere del tutto indifferente.

Ho un’azienda tessile che si occupa di camicie, maglierie e cravatte di seta pura. Sto attento all’andamento della produzione, ai costi e ai ricavi come il più puntiglioso dei ragionieri. Non ammetto nessuna perdita e se all’orizzonte intravedo un possibile disavanzo mi dedico alla mia attività preferita, quella che mi procura sollazzo e sadica soddisfazione: il licenziamento.

I costi del personale incidono non poco nella mia azienda e quando ne ho l’occasione non perdo tempo in inutili piani di stabilizzazione, prestiti bancari a tassi altissimi per mantenere la stessa forza lavoro col rischio di chiudere i battenti e fallire miserevolmente. Guardo con fiducia all’Oriente dove la manodopera è molto più competitiva e come un sarto accorto e meticoloso comincio a tagliare la “stoffa” superflua.

Così convoco nel mio ufficio le teste umane che sono diventate per me inutili e dispendiose, calcolo la buonuscita in misura proporzionale alle perdite stimate e, come la teoria dei corpi respingenti, ricavo l’attivo con lo stesso ammontare.

E’ il turno di Bonifacia, una camiciaia che ho assunto due anni fa, bravina ma un po’ lenta per il target di produzione che mi sono prefissato. Si siede davanti a me pallida ed intimorita, come una donnetta delle pulizie che sa di essere rimproverata per qualche magagna nel suo lavoro.

Bonifacia Tagliavento, è questo il suo nome, vero?
Sì dottor Fermi, perché mi ha fatta chiamare? Ho fatto qualcosa che non va?
Stia tranquilla e si rilassi. Vuole un caffè? Un cappuccino? Una brioche?

Bonifacia fa cenno di no con la testa, un atteggiamento che mi ricorda i terroni di qualche paesino sperduto del Sud Italia e questo m’incoraggia nel discorsetto che sto per fare. Mi alzo e comincio a girare intorno alla scrivania mentre la malcapitata mi segue preoccupata con lo sguardo. Ripeto la solita tiritera dell’azienda in crisi e dei sacrifici che, mio malgrado, sono costretto a chiedere per evitare il fallimento. Annuncio infine la mia decisione di licenziarla per il bene dell’azienda avendo cura di modulare il tono della mia voce come se fossi profondamente dispiaciuto.

Dottor Fermi, la prego, non mi licenzi. Non ho nessuno al mondo e se perdo questo lavoro sono rovinata.”
Purtroppo non posso fare altro. E’ una decisione dolorosa ma inevitabile.”
La prego …”

Bonifacia mi prende la mano e mi guarda con occhi supplichevoli. Penso che tra un po’me la bacerà come se fossi un prete o un uomo di chiesa a cui implorare indulgenza e benevolenza.

Signorina Tagliavento, non faccia così …”
Sono disposta a tutto pur di rimanere in questa azienda.” Con il pollice mi strofina delicatamente la mano e ripete: “A tutto, capisce?

Mi piacciono le donne formose e in carne, forse per un atavico ricordo che mi vede me bambino tra le braccia possenti di mia madre nell’atto di succhiare il latte dalle sue floride mammelle. Bonifacia è mingherlina e senza forme come un encefalogramma piatto, non è il mio tipo.

Signorina Tagliavento, la prego, si ricomponga.”
Ma proprio non le piaccio?

Ci manca pure che adesso si spogli e mi salti addosso, penso preoccupato.

E’ molto carina ma non so come dirglielo. Diciamo che... ho altre preferenze sessuali.”

Fandonia bella e buona ma mi è servita per respingere le avances della donna in maniera definitiva e senza appello. Per Bonifacia è stato come un albero che si abbatte nella tempesta. L’ho vista alzarsi e dirigersi verso la porta, mogia e rassegnata come un animale che si rintana senza aver afferrato la sua preda.

Esco dall'ufficio e vado al parcheggio dove mi attende la mia moto, bella e lucida come uno specchio. Impugno il manubrio e percorro a gran velocità le strade della città con il vento in faccia, caldo e delicato. A cosa penso? A niente, ho rimosso tutto dalla mente: la disperazione di Bonifacia, il mio finto dispiacere, tutto si è annullato con un’azione uguale e contraria.

Imbocco la superstrada e spingo con l’acceleratore. 180, 200, 220, provo a sfidare il vento e penso che non mi succederà niente se riesco a mantenere in equilibrio il rapporto tra la forza eolica e la velocità della mia moto. Tutto si annullerà come sempre, penso convinto, ma stavolta non ho fatto i conti con i particolari.

Ad una curva perdo il controllo e sono scaraventato sul guard rail di una piazzola di emergenza con la moto che vedo frantumarsi come un giocattolo a poche centinaia di metri da me. L’impatto è violentissimo, sento che sto per perdere i sensi.

Qualcuno mi aiuterà”, penso tra me prima di chiudere gli occhi. Sull’asfalto le macchine sfilano a tutta velocità e nessuno si ferma. Come un corteo, proseguono nella loro corsa fin dove il viaggio le porterà.

Impietose, fuggevoli, indifferenti.

L’INDIFFERENTE

Racconto breve
di
Vittoriano Borrelli

(I personaggi e i fatti narrati sono puramente inventati)