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Sono
refrattario a qualsiasi dolore, guardo il mondo dall'alto e non mi volto
mai indietro. Per la gente sono un mostro insensibile e senza compassione, un
concentrato del Male assoluto racchiuso in un essere pensante abietto
ed implacabile. Un giudizio tutt'altro che onorevole che tuttavia mi lusinga
e mi procura maggiore forza e capacità di propugnare sofferenza ed infelicità.
Da
quando sono così? Dai tempi della scuola, esattamente da quando ho
studiato che due corpi opposti e di eguale intensità si annullano a vicenda
creando un punto di equilibrio fermo ed assoluto. E’ stato allora che ho amato
il mio professore di Fisica, un vecchio decadente che è diventato il mio
alter ego segnando definitivamente la mia esistenza.
Ho
messo in pratica questo principio con dedizione quasi maniacale: ad
un’offesa, un dolore, un fatto spiacevole, ho reagito allo stesso modo,
ovvero con una contro-offesa, un altro dolore della stessa specie, un’azione
uguale e contraria come avveniva con la legge del taglione all’epoca dei
Romani. Non mi sono emozionato più e non ho più sofferto, non ho più gioito
ma nemmeno pianto. E’ stato così che sono diventato agli occhi degli
altri e di me stesso un essere del tutto indifferente.
Ho
un’azienda tessile che si occupa di camicie, maglierie e cravatte di
seta pura. Sto attento all’andamento della produzione, ai costi e ai
ricavi come il più puntiglioso dei ragionieri. Non ammetto nessuna perdita
e se all’orizzonte intravedo un possibile disavanzo mi dedico alla mia attività
preferita, quella che mi procura sollazzo e sadica soddisfazione: il licenziamento.
I costi
del personale incidono non poco nella mia azienda e quando ne ho l’occasione
non perdo tempo in inutili piani di stabilizzazione, prestiti bancari a
tassi altissimi per mantenere la stessa forza lavoro col rischio di chiudere i
battenti e fallire miserevolmente. Guardo con fiducia all’Oriente dove
la manodopera è molto più competitiva e come un sarto accorto e meticoloso
comincio a tagliare la “stoffa” superflua.
Così
convoco nel mio ufficio le teste umane che sono diventate per me inutili
e dispendiose, calcolo la buonuscita in misura proporzionale alle
perdite stimate e, come la teoria dei corpi respingenti, ricavo l’attivo con lo
stesso ammontare.
E’
il turno di Bonifacia, una camiciaia che ho assunto due anni fa, bravina
ma un po’ lenta per il target di produzione che mi sono prefissato. Si siede davanti a
me pallida ed intimorita, come una donnetta delle pulizie che sa di essere
rimproverata per qualche magagna nel suo lavoro.
“Bonifacia
Tagliavento, è questo il suo nome, vero?”
“Sì
dottor Fermi, perché mi ha fatta chiamare? Ho fatto qualcosa che non va?”
“Stia
tranquilla e si rilassi. Vuole un caffè? Un cappuccino? Una brioche?”
Bonifacia
fa cenno di no con la testa, un atteggiamento che mi ricorda i terroni di
qualche paesino sperduto del Sud Italia e questo m’incoraggia nel
discorsetto che sto per fare. Mi alzo e comincio a girare intorno alla
scrivania mentre la malcapitata mi segue preoccupata con lo sguardo.
Ripeto la solita tiritera dell’azienda in crisi e dei sacrifici che, mio
malgrado, sono costretto a chiedere per evitare il fallimento. Annuncio infine
la mia decisione di licenziarla per il bene dell’azienda avendo cura di
modulare il tono della mia voce come se fossi profondamente dispiaciuto.
“Dottor
Fermi, la prego, non mi licenzi. Non ho nessuno al mondo e se perdo questo
lavoro sono rovinata.”
“Purtroppo
non posso fare altro. E’ una decisione dolorosa ma inevitabile.”
“La
prego …”
Bonifacia
mi prende la mano e mi guarda con occhi supplichevoli. Penso che tra un po’me
la bacerà come se fossi un prete o un uomo di chiesa a cui implorare
indulgenza e benevolenza.
“Signorina
Tagliavento, non faccia così …”
“Sono
disposta a tutto pur di rimanere in questa azienda.” Con il pollice mi
strofina delicatamente la mano e ripete: “A tutto, capisce?”
Mi
piacciono le donne formose e in carne, forse per un atavico ricordo che mi vede
me bambino tra le braccia possenti di mia madre nell’atto di succhiare
il latte dalle sue floride mammelle. Bonifacia è mingherlina e senza
forme come un encefalogramma piatto, non è il mio tipo.
“Signorina
Tagliavento, la prego, si ricomponga.”
“Ma
proprio non le piaccio?”
Ci
manca pure che adesso si spogli e mi salti addosso, penso preoccupato.
“E’
molto carina ma non so come dirglielo. Diciamo che... ho altre preferenze
sessuali.”
Fandonia
bella e buona ma mi è servita per respingere le avances della donna in maniera
definitiva e senza appello. Per Bonifacia è stato come un albero che si abbatte
nella tempesta. L’ho vista alzarsi e dirigersi verso la porta, mogia e
rassegnata come un animale che si rintana senza aver afferrato la sua preda.
Esco
dall'ufficio e vado al parcheggio dove mi attende la mia moto, bella e
lucida come uno specchio. Impugno il manubrio e percorro a gran velocità le strade
della città con il vento in faccia, caldo e delicato. A cosa penso? A
niente, ho rimosso tutto dalla mente: la disperazione di Bonifacia, il
mio finto dispiacere, tutto si è annullato con un’azione uguale e
contraria.
Imbocco
la superstrada e spingo con l’acceleratore. 180, 200, 220, provo a
sfidare il vento e penso che non mi succederà niente se riesco a mantenere in equilibrio
il rapporto tra la forza eolica e la velocità della mia moto. Tutto si annullerà
come sempre, penso convinto, ma stavolta non ho fatto i conti con i
particolari.
Ad
una curva perdo il controllo e sono scaraventato sul guard rail
di una piazzola di emergenza con la moto che vedo frantumarsi come un giocattolo
a poche centinaia di metri da me. L’impatto è violentissimo, sento che sto per
perdere i sensi.
“Qualcuno
mi aiuterà”, penso tra me prima di chiudere gli occhi. Sull’asfalto le
macchine sfilano a tutta velocità e nessuno si ferma. Come un corteo,
proseguono nella loro corsa fin dove il viaggio le porterà.
Impietose, fuggevoli, indifferenti.
L’INDIFFERENTE
Racconto breve
di
Vittoriano
Borrelli
(I personaggi e i
fatti narrati sono puramente inventati)
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