IL PICCHE NICCHE


Natale, Capodanno, Befana, quando verso il quindici di dicembre comincio a sentire parlare di feste, tremo, come a sentir parlare di debiti da pagare e per i quali non ci sono soldi. Natale, Capodanno, Befana, chissà perché le hanno messe tutte in fila, così vicine, queste feste. Così in fila, non sono feste, ma, per un poveraccio come me, sono un macello.

E qui non si dice che uno non vorrebbe festeggiare il Santo Natale, il primo dell’anno, l’Epifania, qui si vuol dire che i commercianti di roba da mangiare si appostano in quelle tre giornate come tanti briganti all’angolo della strada, così che, alle feste, uno ci arriva vestito e ne esce nudo.

Forse ai tempi che Berta filava, Natale, Capodanno e Befana erano feste sul serio, modeste ma sincere: ancora non c’erano l’organizzazione, la propaganda, lo sfruttamento. Ma dagli, dagli e dagli, anche i più sciocchi si sono accorti che con le feste si poteva fare la speculazione; e così, adesso, la fanno.

Feste per i furbi, dunque, che vendono roba da mangiare; non per i poveretti che la comprano. E tante volte ho pensato che per il pasticciere, per il pollaiolo, per il macellaio, quelle sono feste davvero, anzi feste doppie: feste perché feste e poi feste perché in quelle feste loro vendono dieci volte tanto quanto nei giorni che non c’è festa. E così, mentre il disgraziato festeggia le feste a mezza bocca, con la borsa vuota e la tavola scarsa, quelli le festeggiano sul serio, con la borsa piena e la tavola traboccante.

Del resto, per farvi capace che ho detto la verità, guardate la strada dove ho la mia bottega di cartolaio. In fila, uno dopo l’altro, ci sono Tolomei il pizzicagnolo, De Santis il pollarolo, De Angelis che ha il vapoforno, e Crociani che ha la fiaschetteria. Fateci caso, che vedete? Montagne di formaggi e di prosciutti, stragi di polli e gallinacci, sacchi pieni di tortellini, piramidi di fiaschi e di bottiglie, luce e splendore, gente che va e gente che viene, dalla mattina alla sera, senza interruzione, come in un porto di mare, nelle prime quattro botteghe.

Nella mia cartolibreria, invece, silenzio, ombra, calma, la polvere sul banco, e, sì e no, qualche ragazzino che viene a comprarsi il quaderno, qualche donna che entra a prendersi la boccetta d’inchiostro per fare i conti della spesa. E io rassomiglio alla mia bottega, vestito di uno zinale nero, magro, affamato, con addosso l’odore della polvere e della carta, sempre acido, sempre pensieroso; e loro, invece, De Angelis, Tolomei, Crociani, De Santis, sono tutto il ritratto dei loro affari che vanno tanto bene, belli, rossi, grassi, con la voce sicura, sempre allegri, sempre strafottenti. Eh, ho sbagliato mestiere; e con la carta stampata o bianca, c’è poco da fare; e ne consumano più loro per involtare pacchi che io per far leggere o scrivere.

Basta, qualche giorno prima di Capodanno, mia moglie, una mattina, mi fa: “Senti, Egisto, che bella idea… Crociani ha detto che a Capodanno ci riuniamo tutti e cinque noialtri commercianti di questa parte della strada, e facciamo un picche nicche per la fine dell’anno.”

“ E che cos’è il picche nicche?” domandai.
“ Beh, sarebbe il cenone tradizionale.”
“Tradizionale?”
“Sì, tradizionale ma in questo modo: ciascuno porta qualche cosa e così ciascuno offre a tutti e tutti offrono a ciascuno.”
“Questo è il picche nicche?”
“Sì, questo è il picche nicche… De Angelis ci metterà i tortellini, Crociani il vino e lo spumante, Tolomei gli antipasti, De Santis i tacchini…”
“E noi?”
“Noialtri dovremmo portare il panettone.” Non dissi nulla. E lei insistette: “Non è una bella idea questo picche nicche?... Allora gli dico che ci stiamo?”

Stavo seduto al banco, scartando un pacco di cartoline d’auguri natalizi. Dissi, finalmente: “Per me, mi pare che questo picche nicche non sia tanto giusto... De Angelis i tortellini ce li ha a bottega, e così Crociani il vino, Tolomei gli antipasti e De Santis i tacchini... ma io che ci ho? Un corno... il panettone debbo comprarlo.”

 “Che c’entra?... anche loro, la roba la pagano, mica gli cresce in bottega... che c’entra... lo vedi che sei sempre il solito... vuoi sempre fare il difficile, ragionare, fare il sottile... e poi ti lamenti che le cose non ti vanno bene.”

Insomma discutemmo un bel po’ e finalmente io tagliai corto, dicendo: “Va bene, digli che ci sto al loro picche nicche... porteremo il panettone.” Lei si raccomandò, allora, che lo portassi bello grosso, per non fare cattiva figura: due chili, almeno. E io promisi il panettone bello e grosso.

L’ultimo dell’anno lo passai, al solito, a vendere cartoline di auguri e figurine di carta per i presepi. Intanto, i miei vicini vendevano gallinacci e polli, tortellini e tagliatelle, cassette di liquori e di vini pregiati, formaggi e prosciutti. Era una bella giornata e io, dal fondo del mio negozietto nero, vedevo, di fuori, passare nel sole le donne cariche di roba. Era proprio una bella giornata, da Capodanno romano, con un cielo turchino, duro, che pareva il cristallo fino fino e tutte le cose che sembravano dipinte su questo cristallo, con i loro colori.

A mia moglie, la sera, chiudendo bottega, dissi: “È inutile che mangiamo... tanto la mangiata la facciamo a mezzanotte con il picche nicche... non fosse altro che il panettone che porto io, c’è da mangiare per cento.” Ed effettivamente, lo scatolone del panettone era proprio enorme. Però dissi a mia moglie che non se ne occupasse: l’avrei portato io.

Alle dieci e mezzo, entrammo nel portone di Crociani che aveva la casa proprio sopra il negozio. I Crociani credo che ci abitassero da più di cinquanta anni: ci aveva abitato il nonno quando la fiaschetteria non era che un’osteriola dove gli operai andavano a bere il quintino; il padre che l’aveva ingrandita vendendo il vino all’ingrosso; adesso, ci stava Adolfo, il figlio che, oltre al vino, vendeva anche il whisky e gli altri liquori stranieri. 

Era uno di quegli appartamenti malandati della vecchia Roma tutto corridoi e stanzette; ma Crociani, un giovanotto con le guance gonfie e gli occhi piccoli, ci guidò con orgoglio nella stanza da pranzo: salute che bellezza. Tutti mobili nuovi, di mogano lucido, con le maniglie di ottone e le zampette sottili di acero bianco. L’ultima volta che l’avevo veduta, quella stanza, era ancora come in passato: con un tavolone andante, le seggiole di paglia, le fotografie alle pareti, e, nel vano della finestra, la macchina da cucire. Tutto questo, adesso, non c’era più: oltre a quei mobili, notai un grande quadro dorato con un tramonto sul mare; una radio enorme che serviva anche da bar; soprammobili di porcellana in forma di donnine nude, pagliaccetti, cagnolini; e, sulla tavola preparata, un servizio di porcellana dei più fini, stampato a fiorami rosa.

“L’ho comprata all’Argentina” mi disse Crociani indicando la stanza, “indovina un po’ quanto l’ho pagata.” Dissi una cifra e lui me la triplicò, gonfiandosi per la soddisfazione. Intanto arrivava nuova gente; e presto fummo al completo.

Chi c’era? C’era Tolomei, un pezzo di giovanotto coi baffi, che, quando pesa sulla bilancia l’affettato, dice alle serve: “Lascio?”; c’era De Angelis del vapoforno, un ometto piccolo, con la faccia da minchione: ma lui invece è un furbo che da ragazzino andava in giro con la sporta e adesso invece vende tagliatelle a tutto il quartiere; c’era De Santis, il pollarolo, che è rimasto contadino come al tempo che veniva a Roma col panierino delle uova di giornata: con la faccia senza peli, grigia e massiccia come una pagnotta e la parola greve della gente del viterbese.

C’erano le mogli loro, tutte infronzolate, ma i figli non c’erano, perché, come disse Crociani offrendo il vermut, questa era una serata tra commercianti, per salutare l’anno che veniva, anno commerciale anzitutto, durante il quale tutti dovevano fare quattrini a palate. Dico la verità, vedendoli seduti a tavola, mi piacevano anche meno di quando li vedevo sulle soglie delle botteghe: durante il commercio, nascondevano la soddisfazione e, magari, anche, si lagnavano; ma adesso che si trattava di far festa e i clienti non c’erano, la soddisfazione gli schizzava fuori dai pori.

Ci mettemmo a tavola che erano le undici e attaccammo subito gli antipasti di Tolomei. Qui cominciarono gli scherzi: chi chiedeva a Tolomei se la mortadella era di vero suino, chi gli ricordava la frase: “Lascio?” che lui diceva tanto spesso. Ma erano tutti scherzi con la zampa di velluto, tra gente che se la intendeva e si rassomigliava: se avessi scherzato io, che quegli antipasti me li permettevo di rado, penso che gli avrei lasciato l’unghiata; e perciò preferii mangiare e tacere.

Ai tortellini si fece un po’ di silenzio, anche perché il brodo scottava e tutti soffiavano nei cucchiai. Ma qualcuno osservò che questi erano tortellini veramente pieni e non mezzo vuoti come quelli che erano in vendita normalmente, e tutti ci fecero una risata. Stetti zitto anche questa volta e mi presi due scodelle colme di minestra per riscaldarmi la pancia. Vennero, finalmente, due tacchini arrosto grandi come due struzzi; e, anche per la grandezza, tutti si misero in allegria e cominciarono a punzecchiare il pollarolo chiedendogli dove li avesse prenotati quei due fenomeni della natura, se dal noto De Santis che forniva tutta Roma. Ma lui, che era contadino e non capiva lo scherzo rispose che, quei due tacchini, lui li aveva scelti tra cento e li aveva ingrassati con le sue mani, tenendoli in casa.

Anche questa volta non dissi nulla ma scelsi con cura una coscia grande come un monumento, e poi tre fette di ripieno, e poi un altro pezzo quadrato che non so dove l’avessero staccato, ma era buono anche quello. Mangiavo tanto di gusto che qualcuno osservò “Guarda Egisto come divora... eh, non ti succede tutti i giorni di mangiare un tacchino simile, Egisto.” Risposi a bocca piena: “Proprio così”; e dentro di me pensai che, per una volta almeno, avevo detto la verità.

Intanto i fiaschi di Crociani circolavano, e tutte quelle facce intorno la tavola lustravano, rosse e brillanti, come una batteria di rame da cucina. Salvo, però, quelle frasi sulla roba da mangiare, nessuno parlava veramente perché, in fondo, non avevano nulla da dirsi. Il solo che ci avesse qualche cosa da dire ero io, appunto perché, al contrario di loro, gli affari mi andavano male, e questo mi faceva riflettere, e la riflessione, se non riempie la pancia, almeno riempie il cervello.

Finiti i tacchini, venne un’insalata che nessuno toccò, poi il formaggio e la frutta, e quindi Crociani disse che era mezzanotte e andò in giro per la tavola mostrando la bottiglia di spumante, che, come fece notare, era autentico francese, di quello che lui vendeva tremila lire e più la bottiglia. Sul punto, però, di stappare lo spumante, tutti gridarono: “Egisto, tocca a te, facci vedere il tuo panettone.”

Io mi alzai, andai in fondo alla stanza, presi la scatola del panettone, tornai a sedere e lo scartai con solennità. Dissi, tanto per cominciare: “Questo è un panettone proprio speciale... ora vedrete.” Aprii la scatola, misi la mano dentro e cominciai la distribuzione: una boccetta d’inchiostro, una penna, un quaderno e un abbecedario per uno, ad ognuno degli uomini; per le donne, come dissi, mi scusavo, non ci avevo pensato. Davanti a questa distribuzione, tutti tacevano sbalorditi; non capivano, anche perché erano intontiti dal vino e dal mangiare.

Finalmente, De Angelis disse: “Ma, Egisto, abbi pazienza, che è ‘sto scherzo? Mica siamo bambini che andiamo a scuola.” De Santis, che pareva abbrutito, domandò: “E il panettone dov’è?”. Io risposi, alzato in piedi: “Questo è un picche nicche, non è vero? Ciascuno ha portato la roba che ci aveva a bottega, non è vero?... e io vi ho portato quello che ci avevo: inchiostro, penna, quaderno, abbecedario.”
“Ma che” disse ad un tratto Tolomei, “sei scemo o ci fai?”
“No” risposi, “non sono scemo ma cartolaio... tu hai portato gli antipasti che io sono costretto a comprarti tutto l’anno... io ho portato quello che ci avevo e che tu mai ti sogni di comprare.” De Angelis disse, conciliante: “Basta, mettiti a sedere, non facciamoci cattivo sangue. “E questa fu la proposta che venne accolta. Saltarono fuori alcuni dolci, le bottiglie furono stappate, e tutti bevvero.
Ma, come notai, al brindisi nessuno volle bere alla mia salute. Allora mi alzai e dissi, il bicchiere in mano: “Visto che non volete bere alla mia salute, il brindisi lo faccio io... Che possiate dunque, durante questo anno, leggere un po’ più, anche se, per caso, doveste vendere un po’ meno.”

Ci fu un coro di proteste e poi Crociani, che aveva bevuto più degli altri, si inferocì e gridò: “Ma piantala, iettatore... ci porti sfortuna... vendi i libri a chi ti pare ma non venirci a seccare a noi... anzi, guarda, è meglio che te ne vai ... tanto, ormai, il cenone l’hai mangiato.”

“Allora” risposi “tu non vuoi bere alla salute del commercio dei libri?”
“Ma piantala, buffone, scemo, ignorante, pagliaccio.” Ora tutti mi ingiuriavano; io rispondevo per le rime, calmo, sebbene mia moglie mi tirasse per la manica; il più cattivo di tutti era proprio il padrone di casa che insisteva affinché ce ne andassimo.

Insomma, non so come, mi ritrovai in strada, con un gran freddo, e con mia moglie che piangeva e ripeteva: “Lo vedi che hai fatto... ora ci siamo fatti dei nemici e l’anno che verrà sarà peggio di quello che è finito.”

Così, discutendo, tra i botti delle lampadine fulminate e i cocci che volavano dalle finestre, ce ne tornammo a casa.

Tratto da Racconti romani, di Alberto Moravia. Bompiani Editore
(Riproduzione consentita ai sensi dell’art. 70 legge n. 633/1941)

AMICI DA NIENTE


Ci sono parole che andrebbero usate con cautela e circospezione perché esprimono concetti e significati di grande valore. Accade invece di proferirle con facilità in discorsi pomposi e adescanti, come un pescatore che getta la rete in mare e aspetta che i pesci abbocchino.


Ti sono amico.” “Conta pure su di me.” “L’amicizia è importante.” Frasi belle da libro Cuore ma spesso slegate, nei fatti, da comportamenti non all'altezza del loro significato. La disgiunzione delle parole dall'anima crea rapporti fasulli, relazioni di circostanza che finiscono presto quasi senza accorgersene.

Nell’Era dei social tutto appare ancora più amplificato e, se vogliamo, spettacolare, ma solo fino ad un certo punto. Se sei un amico da niente su Facebook, Instagram e compagnia bella, lo sei anche nella vita reale e viceversa.

Chi trova un amico, trova un tesoro.” Non c’è proverbio più vero di questo. Un amico o un’amica non ti giudica, ti ama così come sei ed è sempre pronto ad aiutarti senza alcun tornaconto, a starti vicino anche in silenzio. Quanti di noi possono vantarsi di essere circondati da persone così? Non credo molte ed è per questo che un amico è merce rara, vale più del partner, più di un amore.

Abbondano invece gli amici da niente, ce ne sono tanti, troppi che ti ronzano intorno come insetti fastidiosi nelle torride estati. Asfissianti, indistinguibili, clonabili come la pecora Dolly ma sempre uguali a se stessi al di là delle sembianze che assumono.

Gli amici da niente hanno una loro scala di valori all'incontrario dove il bene e la generosità sono agli ultimi posti, se non fuori classifica. Di loro diffida soprattutto di quelli che sorridono troppo, quando succede stai pure certo che qualcosa di brutto sta per capitarti.

Alla larga allora dagli amici da niente. Meglio soli che essere accompagnati da gente così. Tuffarsi con lo sguardo in altri e più confortanti lidi fino a vederli sfumare, uno ad uno, dal tuo orizzonte.

Basta poco.

Basta niente.
  

RITORNO AL FUTURO IMPERFETTO


Dorian Gray dei nostri tempi. Così potrebbe sintetizzarsi il mio nuovo romanzo “Il futuro imperfetto”, prossimamente in uscita nelle migliori librerie e dal 15 novembre, per cinque giorni, in promozione gratuita formato e-book su Amazon.

I lettori che mi seguono da quasi otto anni su questo blog sanno ormai molte cose di me: il mio modo di scrivere, le emozioni che (spero) avrò trasmesso anche solo in minima parte nei miei oltre quattrocento post raccontando qualcosa di me e del mondo del mio tempo.

Credo quindi che la scelta di leggere “Il futuro imperfetto” non sia a scatola chiusa come invece potrebbe avvenire quando, entrando in una libreria, si scorrono i titoli di tantissime opere senza decidersi quale acquistare. Chi sceglie Vittoriano Borrelli sa a cosa va incontro e se mi ha conosciuto attraverso il viaggio delle parole del mio tempo, non resterà deluso.

Perché ne “Il futuro imperfetto” ci sono tutti gli ingredienti che mi contraddistinguono: ironia, commozione, suspense e il classico colpo di scena finale.

È la storia di Edo, un personaggio che ricalca in chiave moderna la figura di Dorian Gray.  Radiologo di una delle cliniche più importanti di Milano, Edo è un uomo straordinariamente bello che si serve di questa qualità esteriore per superare qualsiasi difficoltà nella vita. Una bellezza che gli dà una forza invincibile, come il Sansone della Bibbia, o malefica e deviante come, appunto, il Dorian Gray del celebre ritratto.

Dopo l’esperienza nel collegio di Rosental, in Basilea, durante la quale subisce l’influenza dominante del professor Schoengen, uomo enigmatico dal passato doloroso, Edo si afferma brillantemente nella carriera di medico diventando uno dei radiologi più in vista della città meneghina. Lo fa a discapito di tutti usando le armi di una seduzione fisica e psicologica che lo porterà a primeggiare in ogni ambito. Ma qualcosa si frappone nel suo cammino, un evento imprevisto che lo coglierà impreparato e gli farà toccare con mano tutte le sue fragilità e imperfezioni.

 Romanzo fedele all'esistenzialismo, tema a me caro, “Il futuro imperfetto si colloca fra le opere che mirano ad analizzare l’agire umano in certi contesti, con l’obiettivo di dimostrare che l’imperfezione sta proprio nelle azioni dell’Uomo più che nella Natura, di per sé perfetta e incontaminata.


Dopo l'ottima promozione gratuita a cinque giorni su Amazon, ecco il link dal quale acquistarlo in attesa dell'uscita in libreria:
Il futuro imperfetto

Ringrazio fin d’ora tutti coloro che lo faranno.


GIALLO PAGLIERINO


Una lunga fila all'ambulatorio dell’ospedale. Questa mattina, come le altre, un gruppo di persone riempie la sala d’attesa muovendosi con discrezione e timore quasi  reverenziale.

Si comincia a dare i numeri. Bisogna prenderne uno per la cassa, un altro per accedere alla sala prelievi e un altro ancora per appiccicare le etichette alle provette delle analisi.

Code su code, masse umane che si spostano da un luogo all'altro come deportati verso un destino che per qualcuno sarà benevolo, per altri già segnato.

Sembra di assistere ad una sorta di proscrizione, una condanna senz’appello che i malcapitati di turno fanno trasparire dai loro occhi che s’incrociano in tanti altri occhi, sguardi più o meno dipinti di un’ansia antica e mai pienamente dominata.

Ognuno cerca di cogliere nell'altro un indizio, una sfumatura da comparare con il proprio stato di salute: volti giallastri, invecchiati o decadenti che rivelano a tratti una bellezza che il tempo ha portato via troppo presto o che è sfiorita soltanto da poco.

Lei sta peggio di me. Lui è stanco come me. Vuoi vedere che abbiamo lo stesso male?

Intanto una voce dallo sportello continua a dare i numeri: “L25. Chi ha il numero L25?” Una signora di mezza età avanza tenendo in mano il contenitore per le analisi delle urine. Lo porta con cura, quasi come fosse un oggetto prezioso. Si avvicina al bancone e il faretto all'angolo della sala le stampa sul viso un colore simile al contenuto della boccetta: giallo paglierino.

Una donna, piuttosto conciata male, tira dalla tasca il fazzoletto e si asciuga le lacrime. L’uomo che le è accanto, forse il marito, la prende in giro stuzzicandola. “Non dirmi che hai paura di una semplice punturina? Fifona… Fifona….”

Squilla un cellulare dal fondo della sala e tutti si voltano all'unisono. Il tizio in giacca e cravatta risponde visibilmente imbarazzato:“Stai tranquilla, ci vuole ancora un po’ prima che arrivi il mio turno.” L’uomo guarda il tabellone che gli sta di fronte, poi prosegue: “Siamo a L55. Io c’ho il 74. Segnati questi numeri che ce li giochiamo al lotto.”

Qualcuno bisbiglia alla sua vicina:
Io devo fare la dialisi. Ho la precedenza.”
Bene.”, risponde l’altra, “Finirai prima.”
Sì. A morire!

Finalmente si accede all'ampia sala dove si effettuano i prelievi. È divisa in tanti scomparti, ciascuno delimitato da tende di colore bianco avorio che fungono a mo' di privacy. Sembra un capannone, di quelli che si allestiscono in tempo di guerra per assistere i feriti.

Da una tenda semiaperta un’infermiera mi fa cenno di avvicinarmi: “Si denudi il braccio e stringa forte la mano.” Eseguo come un bambino ubbidiente e intanto la guardo cercando un sorriso che non arriva.

Bene. Si rivesta e segua quella striscia rossa per l’uscita.” Stavo per rispondere “Signorsì!” Invece ho raccolto la giacca e sono corso subito fuori.

C’era un sole luminoso, di un colore vivo infinitamente diverso dal giallo paglierino. Ho preso in faccia tutta l’aria di quel primo mattino e mi sono detto che è così bello respirare la vita.

GIALLO PAGLIERINO

Racconto breve
di
Vittoriano Borrelli
(Liberamente tratto da fatti realmente accaduti)