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Una
lunga fila all'ambulatorio dell’ospedale. Questa mattina, come le altre, un
gruppo di persone riempie la sala d’attesa muovendosi con discrezione e timore
quasi reverenziale.
Si comincia a dare i numeri. Bisogna prenderne uno per la cassa, un altro per accedere alla sala prelievi e un altro ancora per appiccicare le etichette alle provette delle analisi.
Code su code, masse umane che si spostano da un luogo all'altro come deportati verso un destino che per qualcuno sarà benevolo, per altri già segnato.
Si comincia a dare i numeri. Bisogna prenderne uno per la cassa, un altro per accedere alla sala prelievi e un altro ancora per appiccicare le etichette alle provette delle analisi.
Code su code, masse umane che si spostano da un luogo all'altro come deportati verso un destino che per qualcuno sarà benevolo, per altri già segnato.
Sembra
di assistere ad una sorta di proscrizione, una condanna senz’appello che i
malcapitati di turno fanno trasparire dai loro occhi che s’incrociano in tanti
altri occhi, sguardi più o meno dipinti di un’ansia antica e mai pienamente dominata.
Ognuno
cerca di cogliere nell'altro un indizio, una sfumatura da comparare con il
proprio stato di salute: volti giallastri, invecchiati o decadenti che rivelano
a tratti una bellezza che il tempo ha portato via troppo presto o che è sfiorita
soltanto da poco.
“Lei
sta peggio di me. Lui è stanco come me. Vuoi vedere che abbiamo lo stesso male?”
Intanto
una voce dallo sportello continua a dare i numeri: “L25. Chi ha il numero
L25?” Una signora di mezza età avanza tenendo in mano il contenitore per le
analisi delle urine. Lo porta con cura, quasi come fosse un oggetto prezioso. Si
avvicina al bancone e il faretto all'angolo della sala le stampa sul viso un colore simile al contenuto della boccetta: giallo paglierino.
Una
donna, piuttosto conciata male, tira dalla tasca il fazzoletto e si asciuga le
lacrime. L’uomo che le è accanto, forse il marito, la prende in giro stuzzicandola.
“Non dirmi che hai paura di una semplice punturina? Fifona… Fifona….”
Squilla
un cellulare dal fondo della sala e tutti si voltano all'unisono. Il tizio in giacca e cravatta risponde visibilmente imbarazzato:“Stai tranquilla, ci vuole ancora un po’ prima
che arrivi il mio turno.” L’uomo guarda il tabellone che gli sta di fronte,
poi prosegue: “Siamo a L55. Io c’ho il 74. Segnati questi numeri che ce li
giochiamo al lotto.”
Qualcuno
bisbiglia alla sua vicina:
“Io
devo fare la dialisi. Ho la precedenza.”
“Bene.”,
risponde l’altra, “Finirai prima.”
“Sì.
A morire!”
Finalmente si accede all'ampia sala dove si effettuano i prelievi. È divisa in
tanti scomparti, ciascuno delimitato da tende di colore bianco avorio che fungono a mo' di privacy. Sembra un capannone, di quelli che si allestiscono in tempo di
guerra per assistere i feriti.
Da una tenda semiaperta un’infermiera mi fa cenno di avvicinarmi: “Si denudi il
braccio e stringa forte la mano.” Eseguo come un bambino ubbidiente e
intanto la guardo cercando un sorriso che non arriva.
“Bene.
Si rivesta e segua quella striscia rossa per l’uscita.” Stavo per
rispondere “Signorsì!” Invece ho raccolto la giacca e sono corso subito
fuori.
C’era
un sole luminoso, di un colore vivo infinitamente diverso dal giallo
paglierino. Ho preso in faccia tutta l’aria di quel primo mattino e mi sono
detto che è così bello respirare la vita.
GIALLO PAGLIERINO
Racconto breve
di
Vittoriano
Borrelli
(Liberamente
tratto da fatti realmente accaduti)
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