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Per commemorare
i trent'anni dalla scomparsa del grande Eduardo De Filippo, la RAI
ha trasmesso recentemente “Le voci di dentro”, con Toni Servillo regista e interprete del personaggio
principale Alberto Saporito. A parte i paragoni ( tutti irriverenti) con
l’immenso e inimitabile drammaturgo napoletano, l’opera è una delle più
riuscite sotto il profilo dell’impegno sociale di Eduardo di portare sul
palcoscenico l’analisi minuziosa dell’agire umano traendola fedelmente da quanto
succede nella realtà.
Una
trasposizione che il grande Maestro della nostra cultura volge a
profitto con un’operazione chirurgica tesa a fotografare le caratterizzazioni
tipiche dei comportamenti individuali rispetto ad eventi della vita comune,
tali da suscitare nello spettatore una deduzione logica del tutto spontanea
rispetto alla propria (o indiretta) esperienza.
Spesso
ci serviamo delle fotografie per ricordare momenti più o meno indimenticabili
del nostro passato, quasi a volerli immortalare per evitare vuoti di memoria. Nell'opera
di Eduardo, come in tutte le sue commedie, è la vita stessa che si eleva a ricordo e a rappresentazione visiva
di ciò che siamo senza che lo scorrere del tempo possa mai cancellare.
La
commedia, scritta nel 1948, e riproposta in diverse rappresentazioni
teatrali e televisive (di cui si ricorda la messa in onda del 1978 con
una magistrale Pupella Maggio fra gli interpreti), è un ritratto
fedele della nostra coscienza nella sua massima rappresentazione
simbolica rispetto ad eventi più o meno accaduti. E poco importa se il
protagonista Alberto Saporito abbia creduto nel sogno che un certo
delitto sia stato commesso dai vicini di casa. Qui sono i comportamenti
interiori ad essere reali ed inconfutabili, a dispetto delle prove
giudiziarie che la magistratura dimostrerà essere del tutto
inconsistenti.
Si
può essere assassini senza aver commesso delitto alcuno, perché nelle voci
di dentro è il simbolismo ad agire e a far tirare fuori dai
protagonisti della storia la loro vera indole. Ne è una riprova l’atteggiamento
dei vicini che vedendosi accusati di aver ucciso Aniello Amitrano, amico
di Saporito, faranno di tutto per scagionarsi accusandosi a vicenda,
progettando persino l’assassinio dello stesso protagonista pur di liberarsi
dell’onta di un omicidio mai (realmente) commesso.
Pregevole
il j’accuse di Saporito nel finale della commedia:
“Mo'
volete sapere perché siete assassini? E che v' 'o dico a ffa'? Che parlo a
ffa'? Chisto, mo', è 'o fatto 'e zi' Nicola... Parlo inutilmente? In mezzo a
voi, forse, ci sono anch'io, e non me ne rendo conto. Avete sospettato l'uno
dell'altro: 'o marito d' 'a mugliera, 'a mugliera d' 'o marito... 'a zia d'
'o nipote... 'a sora d' 'o frate... Io vi ho accusati e non vi siete
ribellati, eppure eravate innocenti tutti quanti... Lo avete creduto
possibile. Un assassinio lo avete messo nelle cose normali di tutti i giorni...
il delitto lo avete messo nel bilancio di famiglia! La stima, don Pasqua', la
stima reciproca che ci mette a posto con la nostra coscienza, che ci
appacia con noi stessi, l'abbiamo uccisa... E vi sembra un assassinio da
niente? Senza la stima si può arrivare al delitto. E ci stavamo arrivando ..”
E’
la perdita della stima il vero delitto commesso. Una componente della
vita interiore che nessun ordinamento giuridico considera ma che ne “Le
voci di dentro” assurge a macchia indelebile della nostra coscienza, come una delle più tangibili e implacabili condanne.
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