QUEL CHE RESTA (DI ME)


Resta la mia insufficienza nel guardarti
poche cose da scoprire
poche colpe da inveire
Resta quel che resta e il peggio resta qui
tra le rughe di un rapporto
che non sento e non conosco


Dall'album “La notte dei ricordi, ecco “Resta”, una delle canzoni più struggenti del mio repertorio. Radiografia degli effetti prodotti dalle nostre scelte di vita, volute o necessarie, che residuano come le macerie di un terremoto o le polveri grigie che si depositano sulla terra inerme dopo l’esplosione di un vulcano.

Tutto il male che c'è stato
non l'abbiamo mai scordato
E ci sembra di fuggire dalla realtà
Cosa siamo noi stasera?
Forse è meglio entrare in casa
e buttare giù qualcosa

Il dolore è qualcosa contro cui si combatte ma che non sempre si sconfigge quando ad agire ci sono i cosiddetti effetti collaterali, primo fra tutti il ricordo indelebile di un’esperienza mal vissuta o metabolizzata. E non c’è nessuna medicina efficace se non quella della sopravvivenza. “Entrare in casa e buttare giù qualcosa”: bisogno di nutrirsi per ristabilire il regolare decorso delle proprie funzioni vitali mentre tutto fuori si muove in un vortice di azioni e di ripetizioni.

Resta quel che resta e in fondo resti tu
con me stesso ancora adesso
ma non voglio tutto questo
Resta la speranza di trovarsi in due
a parlare di argomenti
lineari e convincenti

Il tentativo di ribellione è un sottile rigurgito di vitalità, un’oloturia che sguizza negli abissi dell’oceano senza forma e sostanza. Anche in questo caso è l’istinto di sopravvivenza ad agire quando manca un interlocutore capace di registrare e conclamare i propri bisogni. “La speranza di trovarsi in due a parlare …”.

Questo amore tanto ambito
dalle mani ci è sfuggito
Forse è già deliquescenza questa coesistenza
Cosa sarò mai stasera?
Forse  è meglio andare a letto
e buttare fumo in petto

Le convivenze forzate sono le più delittuose perché si interfacciano su piani diversi e non comunicano. Come i binari di un treno che si frappongono a debita distanza senza mai incontrarsi. “E’ già deliquescenza questa coesistenza”, a segnare un’alleanza disomogenea ma necessaria perché ciascuno degli sventurati è il prodotto di una sofferenza individuale che riversa sull'altro come ultimo appiglio alla vita. Restano così due mondi resto io con te.

Tutto quindi volge nell'incapacità di toccarsi con gli occhi per registrare un brivido, un’emozione, una corrispondenza dei sensi. 

Così resta la mia insufficienza nel guardarti

CENTOMILA BACI

Un traguardo, piccolo o grande che sia, è sempre un evento che merita di essere celebrato e conservato nel proprio album dei ricordi. Quattro anni fa ho realizzato questo blog quasi per caso, ed ora posso idealmente alzare il calice e brindare con tutti voi che avete contribuito con il vostro seguito a rendere le pagine del mio diario colorite e speciali.

Ho da poco superato le centomila visualizzazioni, target che non credevo minimamente di raggiungere quando, agli albori della mia esperienza di blogger, ho cominciato a muovere le prime “dita” sulla mia tastiera informatica.

Niente di trascendentale. So che il mio è solo un piccolo blog che ho messo su in maniera casereccia e da autodidatta, immagazzinando qua e là informazioni e suggerimenti senza avvalermi di alcuna guida esperta. Credo anche che senza un supporto professionale serio e competente non si possa andare oltre un certo risultato in termini di visibilità e consenso.

Questo succede soprattutto per i blog, come il mio, in cui l’autore è uno (pseudo) scrittore che cerca di dare voce e sostanza ai propri libri senza ricorrere a forme di pubblicità capillari e martellanti, ma trattando argomenti di cultura, di musica e di attualità, o raccontando storie dirette e indirette che possano sollecitare la curiosità del lettore.

Forse ci sono troppi scrittori in giro che c’è bisogno di una guida-maestra come lo è stata Virgilio per Dante nel suo viaggio dall’Inferno fino alle porte del Paradiso. Una guida che ti faccia emergere dal groviglio di tante buone (o cattive) proposte che intasano la rete a “spintoni” e qualche volta confondono le idee.

Per intanto mi godo le mie centomila visualizzazioni, traguardo per me preziosissimo per come si è sviluppato tutto il mio percorso. E sono come centomila baci, carezze che voglio dedicare a chi, in veste di lettore assiduo o semplicemente per caso, si è fermato da queste parti.

Da “La prossima vita”, il primo post, a “Finché morte non ci separi”, l’ultimo, sono sfilati oltre duecento articoli, parole che sono partorite dal mio universo di pensieri e di stati d’animo nella recondita speranza di suscitare un’emozione, stimolare una riflessione o semplicemente disegnare un sorriso. Grazie di cuore se l’avete fatto e se lo farete ancora.

Nel frattempo il blog si è arricchito di tante rubriche, come la vetrina degli emergenti, le interviste agli autori, le recensioni, l’aforisma del giorno e i miei racconti brevi che sono stati particolarmente seguiti e graditi.

Altro si può fare per migliorarsi e rinnovarsi. L’importante è che non manchi mai la passione di scrivere facendo viaggiare le parole fin dove qualcuno vorrà raccoglierle e accarezzarle. 

Perché le parole, come quelle del mio tempo, possano arrivare nel cuore di chi vorrà ascoltarle.

FINCHE’ MORTE NON CI SEPARI

Si dice che la solitudine sia un’invenzione letteraria, terreno fertile di poeti e scrittori che si sono cimentati su questo tema con scritti più o meno avvincenti (e convincenti). L’essere umano, secondo gli antropologi, è per sua natura socievole e ha bisogno di interagire con gli altri per trovare la sua piena consacrazione.

Sarà solo letteratura? Immaginazione? Leggenda metropolitana? Eppure il vuoto esistenziale con cui le ultime generazioni hanno dovuto fare i conti è qualcosa che rifugge dalle pagine di un libro. L’ascetica condizione di chi, per scelta o per necessità, ha innalzato una diga sull'oceano di tanti navigatori erranti è quanto di più tangibile ci possa essere in un mondo apparentemente comunicativo e socializzante.

Le storie raccontate, anche quelle più fantasiose, traggono sempre spunto dalla realtà. Anzi, proprio l’esperienza del vivere è spesso fonte ispiratrice di trame molto aderenti al contesto storico in cui si sono sviluppate. Prendiamo, ad esempio, due libri che ho recensito su questo blog: “La vita interiore” di Alberto Moravia e “La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano.

Nel primo, la protagonista Desideria sacrifica la propria verginità in nome di una rivoluzione simbolica mirata a soppiantare la borghesia omicida (e suicida). Sono gli anni di piombo del terrorismo e della lotta di classe. Desideria si ritroverà sola rispetto a un ideale che vede disintegrarsi dall'azione, tutt'altro che eroica, del gruppo di reazionari da cui viene respinta.

Nel secondo, i retaggi dell’infanzia dolorosa dei due protagonisti, Mattia e Alice, segneranno le loro vite che resteranno per sempre divise e distanti come la teoria matematica dei numeri primi.

Chi può dire che queste storie non siano lo specchio di una realtà nella quale si mescolano tante altre esperienze di immanente solitudine? E del resto i romanzi che ho citato c’insegnano che l’unione disunisce più di quanto l’isolamento non demarchi uno spartiacque incolmabile verso il cosiddetto “gruppo”.

Ed è storia dei nostri giorni le mescolanze etniche che dividono e non congiungono, il fallimento delle unioni coniugali che ha rovesciato la promessa sacramentale del “finché morte non ci separi”.

Forse non siamo fatti per vivere insieme, ma per allontanarci e rammaricarci  nell’abbandono di quello che sarebbe potuto essere e non è stato.

Forse è l’idea dello stare insieme che affascina di più di qualsiasi convivenza che si riveli deludente e incapace di sostenerla.

O forse tutto è il contrario di tutto e la solitudine è davvero un’invenzione dei poeti.

Forse.

IL MIO NOME E’ NESSUNO

I tablet e gli smartphone dell’ultima generazione fanno ormai parte delle nostre abitudini quotidiane e sono accessori irrinunciabili che ci portiamo addosso. Se ci capita di osservare le persone per strada o in qualsiasi altro luogo, scopriamo che sono sempre di più quelle intente a parlare al cellulare, a messaggiare o a seguire l’ultima moda del selfie, ovvero l’autoscatto fotografico.

Voglia di visibilità, di sentirsi qualcuno in mezzo a tanta anonimia, sembra essere questa la molla che ha fatto scattare una tendenza sociale sicuramente innovativa e intrigante che ha stimolato non  poco l’interesse di sociologi e psicologi, veri o presunti, del nostro tempo.

Ma qual è il prezzo da pagare e, soprattutto, l’effetto di cotanto protagonismo?

Chi mi segue sa che ho trattato questo argomento in diversi articoli con accenti quasi sempre negativi.  Le infinite strade comunicative rese possibili dalle tecnologie del momento, se da un lato hanno accorciato, e di molto, certe distanze un tempo impensabili e irraggiungibili, dall’altro hanno virtualizzato le relazioni sociali creando più solitudine che appartenenza al contesto, più esclusione che inclusione, in una parola, più emarginazione.

Certo, se il progresso tecnologico venisse utilizzato a piccole dosi e con sapiente oculatezza si potrebbero apprezzare anche gli aspetti positivi come l’immediatezza e la facilità di reperire le informazioni, la possibilità di entrare in contatto con un mondo dalle mille sfaccettature capace di pungolare le curiosità più esplorative.

Ma, come si dice, non è oro tutto quello che luccica. In primis l’autenticità di chi è al centro delle nostre attenzioni mediali è messa a dura prova da una realtà che latita nei sentimenti e nel coinvolgimento emotivo. Quanto più le cose o le persone con cui entriamo in contatto quotidianamente ci disturbano o, peggio, ci sono indifferenti, tanto più il rigurgito verso più comode trasposizioni virtuali del nostro essere è dirompente.

E’ un po’ come stare continuamente in bilico tra la nostra incapacità di relazionarci  e la nostra fertilità ideologica nel ricercare in ciò che non esiste -se non come fotografia o messaggio virtuale- quello di cui siamo carenti: affetto e attenzione.

Dubbio amletico del nostro tempo.  Ecco che allora il selfie, l’attesa di un commento o di un “mi piace”, tanto agognati ed effimeri, assumono sostanza in un mondo reale che di concreto ha ben poco.

E poco importa se il mio nome è nessuno quando per pochi istanti le luci di una ribalta immaginaria possono regalarci un brevissimo sorriso.

Perché, come cantava il grande Renato Zero, “è meglio fingersi acrobati che sentirsi dei nani …”

LE MANI SU DI ME – PARTE FINALE

Dice di chiamarsi Marco, ma per me potrebbe essere Osvaldo, Riccardo o chicchessia. Magari non è nemmeno il suo vero nome come spesso mi è capitato con uomini fantasiosi e un po’ goffi, inclini a cucirsi addosso un’identità diversa finché dura la fiamma del piacere.

Li conosco questi uomini così curati e perbenisti. Sempre ben vestiti e col sorriso stampato sul viso come a voler dissimulare le proprie debolezze, i propri vizi e preferenze particolari. Si fanno vedere in giro con le loro mogli o fidanzate che usano come paravento per nascondere il loro essere disinibito e dissacrante, animali vaganti su strade periferiche che imboccano a fari spenti sperando di non essere mai scoperti.

Marco si spoglia ed io faccio altrettanto ripetendo un rito che conosco a memoria. Distrattamente vedo la mia immagine riflessa nell'ampio specchio che sovrasta il comò, uno dei tanti che ho fatto mettere nel mio appartamento per la gioia di chi desidera vedersi durante l’amplesso.

Ho i seni che sembrano due pere cotte, qualche smagliatura qua e là e uno sguardo non più brillante come un tempo. Un giorno o l’altro dovrò pensare seriamente alla mia “pensione”, smetterla prima che siano gli altri a farmelo notare.

Così ti chiami Genè. E’ il diminutivo di cosa?”
Generosa.”
Ah! Per quello che fai è un nome che ti sta bene. Ma sei un po’ “cara”.
Il piacere si paga non trovi?”

Non amo conversare con i miei amanti, preferisco andare subito al “sodo”, finire quanto prima con questa sofferenza di cui so di essere l’unica artefice. Non aspetto altro che la fine, l’ennesima, per correre spedita sotto la doccia e liberarmi dell’odore del sesso. Purificazione rituale che in me ha l’effetto di rigenerarmi, illudermi di essere una persona diversa almeno fino al prossimo … incontro.

Marco sembra invece voler prolungare questo rito che detesto facendomi domande sulla mia vita e altre simili sciocchezze. Provo a distrarlo col tocco esperto delle mie mani che s’intrufolano nei meandri soliti di un piacere antico e ben collaudato. Lui si dimostra inaspettatamente rigido, mi afferra per un braccio proseguendo nell'interrogatorio:

Perché hai deciso di fare la puttana?” Adesso il tono si fa serio, quasi minaccioso, ed io comincio a preoccuparmi.
Ma che t’importa? Rilassati …” 
‘… coglione’, aggiungo tra me.

Per tutta risposta mi arrivano due sberle, di quelle che fanno male e che lasciano il segno. Ho infatti un labbro sanguinante, forse a causa dell’anello massiccio del mio assalitore che quasi mi spacca un dente. Dovrei essere abituata a comportamenti del genere, invece rimango ferma, incredula e atterrita.

Marco si avventa su di me schiaffeggiandomi ancora e mordendomi come una bestia affamata. Lo lascio fare e chiudo gli occhi.

Presto finirà tutto, mi dico, mentre avverto bruciori dappertutto come se fossi avvolta dalle fiamme di un fuoco rovente e indomito. Sensazione ben diversa da quella che provavo da bambina quando restavo per ore a guardare il camino di casa mia. 

Le spinte di Marco sono un vortice che mi fa tornare alle origini della mia infanzia, quando tutto è cominciato facendomi precipitare nel baratro di un dolore che non si sarebbe più cancellato.

Tra poco finirà tutto, ripeto a me stessa, aprirò gli occhi e correrò a immergermi sotto la doccia.

L’ultimo respiro è un rantolo che mi annuncia la fine.
Ho aperto gli occhi e ho visto mio padre.

LE MANI SU DI ME

Racconto breve in due parti scritto da
Vittoriano Borrelli

Ogni riferimento alla realtà è puramente casuale


(La prima parte è stata pubblicata venerdì 18 marzo 2016)