AMARSI NELLO STESSO TEMPO


Non capita spesso amarsi nello stesso momento, ma quando succede è una vera e propria esplosione dei sensi. Non parlo dell’attrazione fisica, che quando c’è, concomitante o meno, lambisce solo in superficie i sentimenti e si dilegua in fretta come un’impronta sulla sabbia all'arrivo delle onde.

Un grande amore ha bisogno di essere coevo, sintonico, stare sulla stessa lunghezza d’onda del partner, resistere alle intemperie e splendere come un arcobaleno nel cielo dopo la tempesta. Solo quando c’è reciprocità e disponibilità a concedersi senza riserve che si può sperare che questo grande sentimento duri per tutta la vita e anche oltre.

Amor, ch’a nullo amato amar perdona”, la famosa frase pronunciata da Francesca da Rimini nell’Inferno di Dante, è l’esempio tipico della reciprocità dell’amore, quello impetuoso e necessario che obbliga ciascuno degli amanti a darsi completamente all’altro nello stesso tempo. L’epilogo, si sa, fu una tragedia, ma è il destino dei grandi amori sopravvivere al dolore e diventare immortali.

 O Romeo, Romeo! Perché sei tu Romeo? Rinnega tuo padre; e rifiuta il tuo nome: o, se non vuoi, legati solo in giuramento all'amor mio, ed io non sarò più una Capuleti.” Forse l’amore perfetto per antonomasia quello tra Giulietta e Romeo nella celebre opera di Shakespeare: l’amore che lega i due giovani è così intenso e passionale che vince sui conflitti e i contrasti tra le rispettive famiglie sopravvivendo alla morte nella scena finale del suicidio condiviso.

Trovarono tra tutte quelle orribili carcasse due scheletri, uno dei quali abbracciava singolarmente l’altro. Uno di quegli scheletri, che era quello di una donna, era ancora coperto di qualche lembo di una veste di una stoffa che era stata bianca, ed era visibile attorno al suo collo una collana di adrézarach con un sacchettino di seta, ornato da perline verdi, che era aperto e vuoto. Quegli oggetti erano di così poco valore che di certo il boia non li aveva voluti. L’altro, che abbracciava stretto questo, era lo scheletro di un uomo.”

Così scrive Victor Hugo in Notre-Dame de Paris per commentare la storia d’amore tra l’adolescente Eloisa e il suo maturo insegnante Abelardo, finita tragicamente con la castrazione di lui ordinata dallo zio malvagio di lei. Nonostante la separazione forzata i due amanti riuscirono a ricongiungersi facendosi seppellire nella stessa tomba.

Storie di ieri, oggi quasi introvabili e improbabili. Ma l’amore toglie e concede tutto nello stesso lunghissimo istante.

Gli amanti che si amano sono gocce della stessa lacrima, la luce che irradia le oscurità dell’anima, le distanze che si accorciano anche quando sono lontanissime. E fanno di tutto per cercarsi e per ritrovarsi nello stesso momento, nello stesso tempo.



I LIKE


Quanto è importante oggi sentirsi accettati con un semplice clic? Molto più di quanto non lo dicano già le statistiche sull'uso dei social. Un tempo bisognava lavorare tanto sulla propria persona per ottenere il maggior numero di consensi possibili, farsi largo anche a spintoni per emergere ed essere vincenti.

Oggi imperversa l’immanentismo delle immagini, tutto ciò che non si vede oltre quello che mostriamo con le nostre foto non esiste, perché soppiantato, sommerso, camuffato dall'idea e dalla voluttà dell’apparire come arma unica e necessaria per reclamare la propria esistenza.

Le stesse parole si prestano a questo gioco perverso dell’esibizionismo visivo per esprimere concetti e definizioni surreali, come uno specchio dentro al quale non si riflette più la nostra immagine reale ma  quella che vogliamo sia ostentata agli occhi degli altri.

La proliferazione dei dibattiti, commenti, considerazioni personali sulla rete internet, se da un lato si sta rivelando un'importante opportunità di far sentire la propria voce, un tempo anonima ed insignificante, dall'altro sta acuendo l’indifferenziazione e la fatuità dei contenuti.

Se fino ad un decennio prima si doveva andare, mettiamo, al bar o dal barbiere per ascoltare certi discorsi strampalati e sconclusionati, oggi c’è una grande platea sul mondo, facilmente accessibile, in cui tutto converge come un grande minestrone di idee e di improvvisazione.

Il distinguibile diventa l’indistinguibile e la qualità di un messaggio è così offuscata dall’ignoranza del sapere che per trovarla sarebbe come cercare un ago nel pagliaio.

Se questi sono i presupposti, gli effetti sono ancor peggiori e sono racchiusi tutti in due paroline: I like, Mi piace, Me gusta … Il termometro della nostra visibilità è quel I like tanto agognato non appena digitiamo quattro parole o postiamo una foto.

I like: la misurazione del niente. Dimmi quanti “I like” hai e ti dirò chi sei. 10 sono pochi, 20 comincia ad essere un numero interessante, ma se si superano i 100 vuol dire che si sta diventando qualcuno.

I like, la nuova frontiera dell’essere. Non importa quello che scrivi e neppure la sgrammaticatura. Anzi, quanto più si è sgrammaticati tanto più si raccolgono proseliti. Un libro? Un approfondimento tematico? Troppo faticoso e complicato. Meglio spaziare nella sottocultura, usare un linguaggio postribolare, volgare e ad effetto. Così si guadagnano più consensi e la vita va avanti da sé.

I like.

I POETI MALEDETTI


Avremmo dovuto dire Poeti Assoluti per restare nella calma, ma oltre al fatto che la calma poco si addice di questi tempi, il nostro titolo ha questo, che risponde in modo adeguato al nostro odio e, ne siamo sicuri, a quello dei sopravvissuti tra gli Onnipotenti in questione, per la volgarità dei lettori elitari - una rude falange che ben ce lo rende.
Assoluti per l'immaginazione, assoluti nell'espressione, assoluti come i Rey-Netos dei migliori secoli. Ma maledetti…”.

Paul Verlaine così scriveva nella sua opera più famosa, “I poeti maledetti”, per indicare quella categoria di letterati che intendeva dissociarsi da un sistema socio-culturale abietto e ipocrita. I loro scritti enunciavano messaggi di protesta e di distacco che si riflettevano anche nei loro comportamenti e stili di vita, spesso anarchici ed autodistruttivi.

Ricco e corposo il filone dei Poeti maledetti: da Cecco Angiolieri a Charles Baudelaire, da Guy de Maupassant ad Edgar Allan Poe, autori di qualità assoluta che hanno segnato la storia della letteratura mondiale.

Di Baudelaire si ricorda la sua poesia più famosa, “L’albatro”, tratta da “I fiori del male”:

Sovente, per diletto, i marinai catturano degli albatri, grandi
uccelli marini che seguono, indolenti compagni di viaggio, il
bastimento scivolante sopra gli abissi amari.

Appena li hanno deposti sulle tavole, questi re dell’azzurro, goffi
e vergognosi, miseramente trascinano ai loro fianchi le grandi,
candide ali, quasi fossero remi.

Come è intrigato e incapace, questo viaggiatore alato! Lui, poco
addietro così bello, com’è brutto e ridicolo! Qualcuno irrita il
suo becco con una pipa mentre un altro, zoppicando, mima
l’infermo che prima volava!

E il poeta, che è avvezzo alle tempeste e ride dell’arciere, assomiglia
in tutto al principe delle nubi: esiliato in terra, fra gli
scherni, non può per le sue ali di gigante avanzare di un passo.

Geni incompresi o gente disadattata ed ermetica? Le etichette e le classificazioni appartengono spesso ai pregiudizi o all’incapacità di superare i limiti della propria conoscenza. Creano barriere insormontabili e formazioni elitarie che alimentano lo scontro sociale e generazionale.

 Il Poeta si fa veggente mediante una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi.

E’ Arthur Rimbaud a scrivere nella sua “Lettera del Veggente”, progetto ambizioso che si proponeva di esplorare l’ignoto come evoluzione della specie:

Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi. Tutte le forme d'amore, di sofferenza, di follia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non serbarne che la quintessenza. Ineffabile tortura in cui ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il grande malato, il grande criminale, il grande maledetto, – e il sommo Sapiente! – Poiché giunge all'ignoto! Avendo coltivato la sua anima, già ricca, più di ogni altro! Egli giunge all'ignoto, e anche se, sconvolto, dovesse finire per perdere l'intelligenza delle sue visioni, le avrebbe pur sempre viste!

L’infinito è un’invenzione dei poeti, l’ho già scritto qualche tempo fa. Le parole e l’immaginazione sono il miglior viaggio per sentirsi assoluti ed esplorativi, specie quando intorno c’è la pochezza del niente, delle cose che passano veloci come le case e gli alberi dai finestrini di un treno.

All’ombra dei poeti maledetti
germoglia una storia di dolore e di miseria
Una storia di cose non dette
di ferite ancora aperte
che nessuno saprà rimarginare.

L’ULTIMO GIROTONDO

Giro girotondo,
casca il mondo,
casca la terra,
tutti giù per terra!

In quel lontano 12 agosto 1944 i bambini di Sant’Anna di Stazzema, piccolo comune della provincia di Lucca, mai avrebbero immaginato che questa filastrocca, intonata tante volte nei loro giochi d’infanzia, sarebbe stata foriera di un tragico epilogo: quella mattina, infatti, centotrentotto angioletti cascarono davvero tutti per terra ma per mano della furia omicida dei tedeschi nazisti che proprio sulla Piazza della Chiesa, teatro dei loro giochi, li avevano fucilati senza pietà.

Le vittime furono in tutto cinquecentosessanta: un vero e proprio massacro, del pari della strage degli innocenti di Erode ai tempi di Gesù, secoli di storia passati invano che purtroppo non hanno debellato la cattiveria e la malvagità nel mondo. 

L’eccidio di Sant’Anna, che tanto sdegno ha suscitato nella parte buona della coscienza collettiva, è l’ennesima pessima dimostrazione di quanto ancora ci sia da lavorare in termini di recupero e sensibilizzazione dei valori della fratellanza, compassione e solidarietà sociale.

Testimoni sopravvissuti, associazioni umanitarie, mass-media, intellettuali e non, si sono prodigati nel rendere vivo e immemore il ricordo di queste stragi come monito per i posteri. Tra questi, Laura Pellegrini, affermata scrittrice milanese, che ha voluto dare voce e sostanza alle anime di Sant’Anna con il libro “L’ultimo girotondo”, raccolta di lettere (immaginarie) dei bambini vittime di questa strage orrenda che ancora oggi deve far vergognare e riflettere.

Ho conosciuto Laura e sua figlia, l’attrice Gabriella Pession, in un convegno sulla ricorrenza della Liberazione tenutosi nella sede municipale del mio comune, e sono stato piacevolmente colpito dalla presentazione di questo libro che giudico come un dono, una missione che, attraverso parole intense e toccanti, si propone di risvegliare le coscienze intorpidite dalle distrazioni del tempo.

Penso di fare cosa gradita alla scrittrice e ai lettori sensibili e attenti su questo tema, pubblicare una delle tante lettere che compongono l’opera. Per non dimenticare, non solo nel giorno della memoria che si celebra il 27 gennaio, ma in tutti quelli che si susseguono nel calendario, presente e futuro.


Volevo girare il mondo

La vallata di Stazzema era bellissima in tutte le stagioni, e io passavo ore a guardare oltre, verso quel mare che mi sembrava così lontano e che non avevo visto mai.
Col mio temperino intagliavo i pezzi di legno che trovavo nei boschi e creavo da quei ceppi strane forme che, a volte, sembravano animali sconosciuti che mi facevano quasi paura.
Avevo la fantasia e la voglia grande di vedere cosa ci fosse oltre quella valle, oltre le nuvole e oltre il mio cielo.
La sera tutta la famiglia si riuniva attorno alla grande tavola della cucina, la mamma accendeva il fuoco nel camino e nella stufa con la legna raccolta nel bosco, e io sbirciavo se, per caso, un qualche legnetto poteva servirmi per le mie sculture, mentre lei, con uno strano aggeggio fatto di piume d’uccello, sventagliava davanti alle fiamme, che si animavano e scoppiettavano.
Poi, sopra quella grande stufa di ghisa dal cuore palpitante di fuoco, la mamma ci cucinava la minestra di fagioli, quella che a me piaceva tanto, poiché era così fitta, a causa del pane secco aggiunto al brodo, che il cucchiaio restava ritto come un alberello.

Quel pane secco era squisito ed io non lo sapevo il simbolo della nostra povertà durante quegli anni di guerra.
La mamma ci ripeteva –eravamo io, mio fratello Carlo, mia sorella Marcella e la mia sorellina Zara–, che eravamo molto fortunati a vivere lassù, lontano dal fuoco della guerra e dagli urli dei soldati tedeschi.
Mio padre era restato a casa, poiché lavorava, con altri del paese, su alla miniera, ed io pensavo che la guerra sarebbe finita, prima o poi, e che tutto sarebbe ritornato alla normalità quotidiana.
Io non potevo capire che niente ritorna mai com’era prima e che tutto si muove e cambia, se non viene distrutto.
Io ascoltavo mia madre, che era dolce e saggia e non si arrabbiava quando le facevo sparire i pezzi di legno che mi servivano per i miei intagli.
Lei sapeva che quello era il mio gioco preferito, ora che non c’era più nulla con cui poter giocare. La guerra, piano piano, mi aveva tolto anche quei pochi giocattoli che avrei potuto desiderare, Gesù Bambino era povero, anche lui, e non poteva più farmi trovare balocchi la sera di Natale, ma solo qualche pezzetto di legno.
A noi bambini restava il girotondo che facevamo davanti alla chiesa, ridenti e spensierati, nonostante le brutte cose che accadevano laggiù, oltre la valle.
Potevo ancora fantasticare però, non contava niente, e mi divertivo sognare i paesi lontani che avrei un giorno visitato, da grande sarei andato in capo al mondo, per vedere com’era fatto lontano da Sant’Anna.
Andavo anche a scuola, nonostante la guerra, si cercava di vivere normalmente e a me piaceva tanto la geografia; quelle lezioni che parlavano di sperduti continenti mi lasciavano la mente piena di tante curiosità.

Avrei studiato anche le lingue per poter comunicare con gli altri popoli della Terra, quando fossi diventato grande.
Don Innocenzo, il nostro parroco, mi aveva regalato un dizionario di italiano-tedesco… ma quella era una lingua che mi faceva un po’ paura, come anche i tedeschi.
Ascoltavo i discorsi che si facevano in casa, il babbo bisbigliava, per non farsi sentire da noi bimbi, che avevano incendiato tutte le case, non lontano dalla nostra valle.
I fascisti come i tedeschi cercano i partigiani dappertutto, in paese noi si temeva il Ciro, che era uno sporco traditore – diceva sempre il babbo – bisbigliando:
“Uno sporco traditore e un fanatico!”, ecco cosa diceva, sottovoce, pensando che io non sentissi.
Quando la mamma incontrava il Ciro in piazza, lo salutava però con un sorriso, ma io sapevo che in quel momento, non era sincera, ma aveva solo paura.

Ci hanno uccisi tutti, quel sabato mattina del 12 agosto, così non ho più potuto vedere il mondo e, durante la notte, con gli altri bambini, torniamo qualche volta quassù, a fare il nostro girotondo, davanti alla chiesa: ma non siamo più sorridenti e spensierati.

(Tratto da “L’ultimo girotondo” di Laura Pellegrini)

LA FINE


Se apro quella porta so già che sarà la fine e non mi volterò più indietro. Quante volte ho avuto la tentazione di varcare la soglia di casa e compiere quella deviazione decisiva per dare un taglio netto al passato, a quello che sono stato e che non avrei voluto essere.

Ho così disegnato la fine ma tutte le volte è stato l’inizio di qualcosa che non ho interrotto e che non si è interrotto, concatenazione di remore ataviche che mi hanno impedito di volare e di raggiungere in un punto qualsiasi dell’orizzonte la pace interiore. Il riposo del guerriero non c’è stato e non ci sarà per uno come me che ha sempre lottato per farsi largo nella giungla di una disumana umanità.

Mi sono perso nella fine guardando i tuoi occhi scuri e impenetrabili che mi hanno spiato nell’assenza prima ancora di una presenza, vera e palpabile, che non c’è stata. Una fine interminabile che non è mai stata la fine, come il circuito di un autodromo tracciato apposta per me affinché non potessi uscirne e provare finalmente a viaggiare da solo.

La fine non è la fine quando non sei pronto a ricominciare, come un bambino che non vuole diventare grande, un fiore che non vuole sbocciare, un prato che non vuole rinverdire, il buio che non si fa luce o l’alba di un nuovo giorno che tarda ad arrivare. Storie senza fine, ferme al primo capitolo, che non si sviluppano e restano impresse sulla stessa pagina.

Ma ogni cosa prima o poi finisce, è scritto nel destino di ciascuno di noi, perché è il tempo metafisico a segnare la fine.

Cadranno tutte le resistenze, i dubbi, le esitazioni e tutto ciò che è irrisolto si risolverà e si dissolverà come neve al sole, la pioggia che spazzerà via la polvere e un’altra porta si aprirà per un nuovo domani.

Ora che si avvicina la fine quasi mi commuovo della mia fine, come la terra bruciata dai bombardamenti su Hiroshima. Allora per un lungo istante scese il silenzio, domani sarà lo stesso ma nessuno si accorgerà di questa fine.

Scrive Alberto Moravia ne “La vita interiore” (Bompiani, 1978):

A Hiroshima, dopo l’esplosione della bomba atomica, è rimasta su un muro l’impronta di un corpo umano, come rimane sulla sabbia l’orma di un piede; cioè, un’ombra un po’ più scura dell’intonaco, con una testa, un busto, delle gambe. Il corpo che ha lasciato quest’impronta è stato divorato, annientato dalla vampa. Così io. La tua immaginazione mi ha bruciata, consumata. Alla fine non esisterò più, se non nella tua scrittura, come impronta, come personaggio.”