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UNA VITA DIVERSA

L’ULTIMO GIROTONDO

Giro girotondo,
casca il mondo,
casca la terra,
tutti giù per terra!

In quel lontano 12 agosto 1944 i bambini di Sant’Anna di Stazzema, piccolo comune della provincia di Lucca, mai avrebbero immaginato che questa filastrocca, intonata tante volte nei loro giochi d’infanzia, sarebbe stata foriera di un tragico epilogo: quella mattina, infatti, centotrentotto angioletti cascarono davvero tutti per terra ma per mano della furia omicida dei tedeschi nazisti che proprio sulla Piazza della Chiesa, teatro dei loro giochi, li avevano fucilati senza pietà.

Le vittime furono in tutto cinquecentosessanta: un vero e proprio massacro, del pari della strage degli innocenti di Erode ai tempi di Gesù, secoli di storia passati invano che purtroppo non hanno debellato la cattiveria e la malvagità nel mondo. 

L’eccidio di Sant’Anna, che tanto sdegno ha suscitato nella parte buona della coscienza collettiva, è l’ennesima pessima dimostrazione di quanto ancora ci sia da lavorare in termini di recupero e sensibilizzazione dei valori della fratellanza, compassione e solidarietà sociale.

Testimoni sopravvissuti, associazioni umanitarie, mass-media, intellettuali e non, si sono prodigati nel rendere vivo e immemore il ricordo di queste stragi come monito per i posteri. Tra questi, Laura Pellegrini, affermata scrittrice milanese, che ha voluto dare voce e sostanza alle anime di Sant’Anna con il libro “L’ultimo girotondo”, raccolta di lettere (immaginarie) dei bambini vittime di questa strage orrenda che ancora oggi deve far vergognare e riflettere.

Ho conosciuto Laura e sua figlia, l’attrice Gabriella Pession, in un convegno sulla ricorrenza della Liberazione tenutosi nella sede municipale del mio comune, e sono stato piacevolmente colpito dalla presentazione di questo libro che giudico come un dono, una missione che, attraverso parole intense e toccanti, si propone di risvegliare le coscienze intorpidite dalle distrazioni del tempo.

Penso di fare cosa gradita alla scrittrice e ai lettori sensibili e attenti su questo tema, pubblicare una delle tante lettere che compongono l’opera. Per non dimenticare, non solo nel giorno della memoria che si celebra il 27 gennaio, ma in tutti quelli che si susseguono nel calendario, presente e futuro.


Volevo girare il mondo

La vallata di Stazzema era bellissima in tutte le stagioni, e io passavo ore a guardare oltre, verso quel mare che mi sembrava così lontano e che non avevo visto mai.
Col mio temperino intagliavo i pezzi di legno che trovavo nei boschi e creavo da quei ceppi strane forme che, a volte, sembravano animali sconosciuti che mi facevano quasi paura.
Avevo la fantasia e la voglia grande di vedere cosa ci fosse oltre quella valle, oltre le nuvole e oltre il mio cielo.
La sera tutta la famiglia si riuniva attorno alla grande tavola della cucina, la mamma accendeva il fuoco nel camino e nella stufa con la legna raccolta nel bosco, e io sbirciavo se, per caso, un qualche legnetto poteva servirmi per le mie sculture, mentre lei, con uno strano aggeggio fatto di piume d’uccello, sventagliava davanti alle fiamme, che si animavano e scoppiettavano.
Poi, sopra quella grande stufa di ghisa dal cuore palpitante di fuoco, la mamma ci cucinava la minestra di fagioli, quella che a me piaceva tanto, poiché era così fitta, a causa del pane secco aggiunto al brodo, che il cucchiaio restava ritto come un alberello.

Quel pane secco era squisito ed io non lo sapevo il simbolo della nostra povertà durante quegli anni di guerra.
La mamma ci ripeteva –eravamo io, mio fratello Carlo, mia sorella Marcella e la mia sorellina Zara–, che eravamo molto fortunati a vivere lassù, lontano dal fuoco della guerra e dagli urli dei soldati tedeschi.
Mio padre era restato a casa, poiché lavorava, con altri del paese, su alla miniera, ed io pensavo che la guerra sarebbe finita, prima o poi, e che tutto sarebbe ritornato alla normalità quotidiana.
Io non potevo capire che niente ritorna mai com’era prima e che tutto si muove e cambia, se non viene distrutto.
Io ascoltavo mia madre, che era dolce e saggia e non si arrabbiava quando le facevo sparire i pezzi di legno che mi servivano per i miei intagli.
Lei sapeva che quello era il mio gioco preferito, ora che non c’era più nulla con cui poter giocare. La guerra, piano piano, mi aveva tolto anche quei pochi giocattoli che avrei potuto desiderare, Gesù Bambino era povero, anche lui, e non poteva più farmi trovare balocchi la sera di Natale, ma solo qualche pezzetto di legno.
A noi bambini restava il girotondo che facevamo davanti alla chiesa, ridenti e spensierati, nonostante le brutte cose che accadevano laggiù, oltre la valle.
Potevo ancora fantasticare però, non contava niente, e mi divertivo sognare i paesi lontani che avrei un giorno visitato, da grande sarei andato in capo al mondo, per vedere com’era fatto lontano da Sant’Anna.
Andavo anche a scuola, nonostante la guerra, si cercava di vivere normalmente e a me piaceva tanto la geografia; quelle lezioni che parlavano di sperduti continenti mi lasciavano la mente piena di tante curiosità.

Avrei studiato anche le lingue per poter comunicare con gli altri popoli della Terra, quando fossi diventato grande.
Don Innocenzo, il nostro parroco, mi aveva regalato un dizionario di italiano-tedesco… ma quella era una lingua che mi faceva un po’ paura, come anche i tedeschi.
Ascoltavo i discorsi che si facevano in casa, il babbo bisbigliava, per non farsi sentire da noi bimbi, che avevano incendiato tutte le case, non lontano dalla nostra valle.
I fascisti come i tedeschi cercano i partigiani dappertutto, in paese noi si temeva il Ciro, che era uno sporco traditore – diceva sempre il babbo – bisbigliando:
“Uno sporco traditore e un fanatico!”, ecco cosa diceva, sottovoce, pensando che io non sentissi.
Quando la mamma incontrava il Ciro in piazza, lo salutava però con un sorriso, ma io sapevo che in quel momento, non era sincera, ma aveva solo paura.

Ci hanno uccisi tutti, quel sabato mattina del 12 agosto, così non ho più potuto vedere il mondo e, durante la notte, con gli altri bambini, torniamo qualche volta quassù, a fare il nostro girotondo, davanti alla chiesa: ma non siamo più sorridenti e spensierati.

(Tratto da “L’ultimo girotondo” di Laura Pellegrini)

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