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Se apro quella porta so già che sarà la fine e non mi volterò più indietro. Quante volte ho avuto la tentazione di varcare la soglia di casa e compiere quella deviazione decisiva per dare un taglio netto al passato, a quello che sono stato e che non avrei voluto essere.
Ho
così disegnato la fine ma tutte le volte è stato l’inizio di qualcosa che non
ho interrotto e che non si è interrotto, concatenazione di remore ataviche che
mi hanno impedito di volare e di raggiungere in un punto qualsiasi dell’orizzonte
la pace interiore. Il riposo del guerriero non c’è stato e non ci sarà per uno
come me che ha sempre lottato per farsi largo nella giungla di una disumana
umanità.
Mi
sono perso nella fine guardando i tuoi occhi scuri e impenetrabili che mi hanno
spiato nell’assenza prima ancora di una presenza, vera e palpabile, che non c’è
stata. Una fine interminabile che non è mai stata la fine, come il circuito di
un autodromo tracciato apposta per me affinché non potessi uscirne e provare
finalmente a viaggiare da solo.
La
fine non è la fine quando non sei pronto a ricominciare, come un bambino che
non vuole diventare grande, un fiore che non vuole sbocciare, un prato che non
vuole rinverdire, il buio che non si fa luce o l’alba di un nuovo giorno che tarda
ad arrivare. Storie senza fine, ferme al primo capitolo, che non si sviluppano
e restano impresse sulla stessa pagina.
Ma
ogni cosa prima o poi finisce, è scritto nel destino di ciascuno di noi, perché
è il tempo metafisico a segnare la fine.
Cadranno
tutte le resistenze, i dubbi, le esitazioni e tutto ciò che è irrisolto si
risolverà e si dissolverà come neve al sole, la pioggia che spazzerà via la
polvere e un’altra porta si aprirà per un nuovo domani.
Ora
che si avvicina la fine quasi mi commuovo della mia fine, come la terra
bruciata dai bombardamenti su Hiroshima. Allora per un lungo istante scese il
silenzio, domani sarà lo stesso ma nessuno si accorgerà di questa fine.
Scrive
Alberto Moravia ne “La vita interiore” (Bompiani, 1978):
“A
Hiroshima, dopo l’esplosione della bomba atomica, è rimasta su un muro
l’impronta di un corpo umano, come rimane sulla sabbia l’orma di un piede;
cioè, un’ombra un po’ più scura dell’intonaco, con una testa, un busto, delle
gambe. Il corpo che ha lasciato quest’impronta è stato divorato, annientato
dalla vampa. Così io. La tua immaginazione mi ha bruciata, consumata. Alla fine
non esisterò più, se non nella tua scrittura, come impronta, come personaggio.”
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