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I tablet
e gli smartphone dell’ultima generazione fanno ormai parte delle
nostre abitudini quotidiane e sono accessori irrinunciabili di ciò che
indossiamo. Se ci capita di osservare le persone che ci girano intorno, scopriamo che sono sempre di più quelle intente a parlare al cellulare,
a messaggiare o a seguire l’ultima moda del selfie, ovvero
l’autoscatto fotografico.
Voglia
di visibilità, di sentirsi qualcuno in mezzo a tanta anonimia,
sembra essere questa la molla che ha fatto scattare una tendenza sociale
sicuramente innovativa e intrigante che ha stimolato non poco l’interesse di sociologi e psicologi,
veri o presunti, del nostro tempo.
Ma
qual è il prezzo da pagare e, soprattutto, l’effetto di cotanto protagonismo?
Chi
mi segue sa che ho trattato questo argomento in diversi articoli con
accenti quasi sempre negativi. Le
infinite strade comunicative rese possibili dalle tecnologie del momento,
se da un lato hanno accorciato, e di molto, certe distanze un tempo impensabili
e irraggiungibili, dall’altro hanno virtualizzato le relazioni
sociali creando più solitudine che appartenenza al contesto, più
esclusione che inclusione, in una parola, più emarginazione.
Certo,
se il progresso tecnologico venisse utilizzato a piccole dosi e con
sapiente oculatezza si potrebbero apprezzarne anche gli aspetti positivi
come l’immediatezza e la facilità di reperire le informazioni, la
possibilità di entrare in contatto con un mondo dalle mille sfaccettature capace
di pungolare le curiosità più esplorative.
Ma,
come si dice, non è oro tutto quello che luccica. In primis l’autenticità
di chi è al centro delle nostre attenzioni mediali è messa a dura prova da
una realtà che latita nei sentimenti e nel coinvolgimento emotivo. Quanto più
le cose o le persone con cui entriamo in contatto quotidianamente ci disturbano
o, peggio, ci sono indifferenti, tanto più il rigurgito verso più comode
trasposizioni virtuali del nostro essere è dirompente.
E’
un po’ come stare continuamente in bilico tra la nostra incapacità di
relazionarci e la nostra fertilità ideologica
nel ricercare in ciò che non esiste -se non come fotografia o messaggio
virtuale- quello di cui siamo carenti: affetto e attenzione.
Dubbio
amletico del nostro tempo. Ecco
che allora il selfie, l’attesa di un commento o di un “mi piace”, tanto
agognati ed effimeri, assumono sostanza in un mondo reale che di
concreto ha ben poco.
E
poco importa se il mio nome è nessuno quando per pochi istanti le
luci di una ribalta immaginaria possono regalarci un brevissimo sorriso.
Perché,
come cantava il grande Renato Zero, “è meglio fingersi acrobati che
sentirsi dei nani …”
BLOG RETRO:
08.04.2016
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