QUANDO DIO ERA MORTO


In occasione della giornata della memoria, che si celebra il 27 gennaio di ogni anno ai sensi della legge 20 luglio 2000 n. 211, riporto alcune testimonianze delle vittime di Auschwitz raccolte da Paolo Mordechai Sciunnach, dottore in Storia-Filosofia, Studi Ebraici Collegio Rabbinico e membro Assemblea dei Rabbini d'Italia. Storie toccanti da non dimenticare che hanno segnato una brutta pagina della Storia dell’umanità. Un momento storico in cui, forse, Dio era veramente morto. 

Quello che sto per scrivere è tratto e basato su tutte le testimonianze che mi sono personalmente state raccontate da due ex deportati sopravvissuti al campo di sterminio di Auschwitz 2 Birkenau, Shlomo Venezia e Luigi Fagi

Fummo arrestati una mattina presto, quando ancora faceva buio in modo da nascondere ai cittadini la deportazione di massa. Ci caricarono subito su un grosso vagone di un treno merci, ci spingevano a calci se uno camminava piano, avevano cani e manganelli. 

Rimanemmo stipati nel vagone per tutto il viaggio ci fu concesso di scendere una sola volta. I bisogni corporali venivano soddisfatti nel mezzo del vagone. Ci furono dati viveri in quantità assolutamente insufficiente. Ci dissetammo con la neve. 

Trascorremmo tutto il viaggio al buio senza poterci neanche coricare per deficienza di spazio. Tentativi di fuga dal nostro vagone furono frustrati dalla vigilanza della scorta, dai contrasti tra i prigionieri, alcuni dei quali, per paura delle conseguenze, ostacolavano i tentativi dei compagni, e dalla delazione. 

Stalattiti di ghiaccio si formavano dalle aperture del vagone. Per tutta la durata del viaggio udimmo numerosi bombardamenti aerei che facevano vibrare il vagone. 

Arrivati a Auschwitz 2 Birkenau fummo incolonnati a fianco del treno nella rampa principale al centro del campo, c'era una grande confusione poi un grande silenzio; sotto la neve, gli ufficiali e i soldati delle SS ci misero perfettamente in fila con i cani poliziotto. Dalla ciminiera dei crematori usciva un odore terribile e uno strano pulviscolo vagava nell'aria. 

I tedeschi, muniti di manganelli, picchiarono alcuni nostri compagni per futili motivi. Ci furono quindi tolti gli abiti e le valigie, la valuta e tutti gli oggetti personali. 

Poco dopo iniziarono la selezione: i vecchi e i bambini che non potevano lavorare venivano a forza trasportati alle camere a gas, chi invece era ritenuto idoneo al lavoro veniva portato alla zauna dove avveniva la doccia, la rasatura e la marchiatura. 

Rimasti in possesso solo della cintura dei pantaloni ci vennero forniti una camicia, pantaloni, un cappello e un paio di zoccoli. Al momento della marchiatura e della rasatura la pelle era ricoperta di sangue, il numero sul braccio era una tortura. 

Usciti bagnati dalla doccia ci rivestimmo, fummo cacciati all'aperto nella neve con un freddo polare, ci costrinsero per divertimento a rotolarci nella neve e chi non lo faceva veniva picchiato a sangue. Dopo una lunga permanenza all'aperto fummo avviati alle baracche. 

Il campo era ed e' formato da: doccia, cucina, crematorio, camera a gas, caserma di tolleranza per i tedeschi, e le baracche di alloggiamento per i prigionieri. Nelle baracche si dormiva su pagliericci che erano stesi sui bancali a tre piani e cosiddetti letti a castello. A volte si dormiva addirittura in 5 su un letto solo. Ogni baracca (block) era inquadrata da un capo-blocco, che provvedeva alla disciplina nel blocco. 

Nelle baracche non c'erano nè gabinetti nè lavabi: questi erano raggruppati in baracche apposite. 

Il vitto giornaliero consisteva in caffè senza zucchero al mattino e un litro di zuppa di rape in cui raramente qualche fortunato trovava una briciola di carne; ognuno di noi disponeva di una gamella che utilizzava per i più svariati usi oltre che per mangiarci; alla sera 300 grammi di pane e surrogato di caffè, brodaglia che usavamo per lavare la gamella. Questo vitto poteva bastare a tenerci in vita malamente; di giorno si lavorava e basta. Di giorno e di notte le bastonature e i maltrattamenti erano molto frequenti anche per stupidaggini. 

Fra i prigionieri la vita media era di 4-5 mesi dopodiché per malattia, per fame, per torture o per le camere a gas morivi: non c'era speranza di salvezza nel modo più assoluto. 

Di giorno alcuni degli haftlinge (prigionieri) lavoravano, come noi, al sonder kommando altri all'arbeits kommando: il sonder kommando consisteva nel trasportare i selezionati alle camere a gas, gassarli e successivamente sgombrare le camere a gas, togliere tutto il recuperabile dai cadaveri nudi e deformati: denti d'oro, capelli, ecc.., successivamente bruciare i cadaveri nei forni, trasportarne le ceneri, il tutto essendo consapevoli che prima o poi quella sarebbe stata la propria fine. 

L'arbeits kommando consisteva in un altro tipo di lavoro forzato: attività di vario genere, costruzione di baracche, torture, lavori di vario genere, organizzazione del revier del lager (una specie di lazzaretto dove venivano ricoverati i soggetti cavia). Lavoravamo tutto il giorno nelle camere a gas e nei crematori. La mortalità era altissima. 

Periodicamente venivano, assieme ai nuovi arrivati, effettuate delle nuove selezioni anche tra di noi: chi non le superava, era morto; ogni volta che c'era la selezione era per noi il panico, pensavamo di non poterla superare. La fame, unita alle epidemie di tifo e di diarrea, era ossessionante: difficile era scacciare l'idea del cibo dalla mente, che minacciava di sommergere ogni altro pensiero. 

Molti occupavano tutta la giornata in trattative per racimolare qualche pezzo di pane in più, alcuni genitori rubavano il pane ai figli e viceversa, c'erano continue risse per un pezzo di pane. 

La tortura della fame non dava tregua neppure nel sonno. 

Una mattina, invece di recarci come al solito al sonder kommando, ci portarono al revier dove fummo vittime di un esperimento farmacologico per conto della Bayer: tutto quello che ricordo e' una siringa, e poi di essermi svegliato con 40 di febbre. 

Ricordo che un giorno, mentre sgombravamo le camere a gas sentimmo tra i cadaveri un piccolo gemito: scoprimmo che era un lattante che si era salvato e che non trovava più la mammella della madre stesa a terra; lo prendemmo e cercammo di nasconderlo ma un SS lo trovò e lo uccise subito. 

Le esecuzioni dimostrative sulle forche e nelle celle della fame aumentarono vertiginosamente, soltanto per stupidaggini; le torture e gli esperimenti chirurgici accelerarono la distruzione. I trattamenti speciali: fucilazioni e isolamento a vita, aumentarono, le camere a gas raddoppiarono la loro produzione 25000 gassati al giorno (solo gassati, senza contare il resto). 

Si avvertiva qualcosa nell'aria, c'era tensione, gli alleati avanzavano verso di noi, c'era una speranza, ma lo sterminio accelerava. 

La distribuzione del vitto diminuiva paurosamente, il ritmo di lavoro del sonder kommando aumentava con il numero dei morti, non c'era nessuna pietà. I campi più piccoli venivano evacuati e uomini scheletrici, dai tedeschi considerati pezzi, affluivano nel campo in massa: 20000, 30000, sempre di più. 

La vita media dei prigionieri si era accorciata a 3 mesi, solitamente variava tra 1 e 2 e 1/2. 

Il numero di persone nei blok era raddoppiato, triplicato: si dormiva in 7 in un letto. malattie di ogni genere uccidevano dappertutto, il vitto era quasi totalmente assente, non c'era più pulizia nel modo più assoluto. 

Dopo alcune settimane ci trasferirono in 3000 a Mauthausen dove rimanemmo per altri 3 mesi poi in un altro campo (di cui io, Paolo, non ricordo il nome), dove rimanemmo per un po', prima di essere liberati. 

Ricordo però che prima di essere trasferiti a Mauthausen fummo selezionati per il gas, ma una rivolta del sonder kommando risparmiò il nostro turno; poi fummo trasferiti, come ho già detto: un lungo viaggio a piedi sulla neve mezzi nudi, dormivamo all'aperto e al freddo; alcuni (i più debilitati), naturalmente, sono morti, camminavamo picchiati dai fucili di ferro delle SS e chi andava a stento veniva ucciso. Restammo nel lager per circa una settimana. Finalmente un giorno verso le ore 12 comparve una staffetta degli alleati. 

La voce si sparse, accorremmo tutti fuori dai reticolati, l'alta tensione era stata staccata, correvamo: sani, ammalati. Questi ultimi balzarono dai letti e, seminudi, barcollando e cadendo si fecero con gli altri incontro ai liberatori. 

Fu un momento di grande commozione: i volti di tutti erano rigati di lacrime; e mentre le voci si levavano in coro a cantare gli inni della resistenza di tutta Europa ci stringemmo in un fraterno abbraccio. Si cantò l'Ani-Mamin, e si recitò il Kaddisch. Ormai il campo era in mano nostra e degli alleati. 

Al lager furono giustiziati un'ottantina di SS: il conto che essi pagarono fu ben esiguo rispetto alle colpe di cui si erano macchiati (tra di essi c'era un capo blocco colpevole di numerosi stermini e massacri). Gli alleati arrivarono con il grosso delle loro forze e un reparto di carristi prese possesso del campo. Iniziò per noi un periodo di libertà, poiché non eravamo più schiavi ma i reticolati e le sentinelle non ci consentivano ancora di essere completamente liberi. Giunsero ufficiali, fotografi, medici, una commissione sovietica, tutti ad ammirare le bestie rare. 

Ci venne dato da mangiare, ma questo era troppo e così iniziarono le prime indigestioni e diarree: i nostri stomaci non erano più abituati al cibo. Ricordo che noi e i nostri amici dovemmo lottare a sangue per impossessarci di un sacco militare su un camion russo, ci barricammo in una baracca e lì tirammo a sorte il cibo da spartirci. Il padrone del camion allontanatosi per un istante si ritrovò saccheggiato di tutto. 

Una mattina in due uscimmo dal lager e per caso trovammo un gallo in un cortile, facemmo di tutto per non farlo strillare, il padrone se ne accorse ma ci permise di catturarlo; portatolo nel lager non sapevamo come ammazzarlo: lo torturammo un poco, e alla fine cessò di strillare, facemmo uscire il sangue dal collo e poi lo spennammo e lo pulimmo, lo cuocemmo sul fuoco e alla fine, nonostante fosse un po' duro, lo mangiammo festeggiando con un bel Lehaim con acqua. dopo mangiato un bel Hazzak ve matz e am Israel hai non ce lo vietava nessuno. Nonostante la libertà, le malattie erano sempre in agguato, si moriva ancora di grosse epidemie, l'igiene era scarsa come prima, non e' che la situazione fosse molto migliorata. L'indomani ci caricarono su camion alleati e ci trasportarono attraverso il Tirolo e l'Alto Adige in Italia. 

Finalmente eravamo in Italia. Eravamo liberi. Col passare degli anni siamo tornati alla vita normale, mettemmo su famiglia, ma dentro di noi abita sempre la morte. Soltanto nel 1990 trovammo il coraggio di parlare con gli altri della tragedia dei lager di sterminio, neppure ai nostri figli era stato raccontato nulla da parte nostra. 

Ma oggi tutti devono sapere e prima di morire dobbiamo far sapere tutto al maggior numero di persone, per ricordare e non dimenticare mai. Tutti, nessuno escluso, sia ebrei che goim si devono sentire coinvolti in prima persona nella shoah. Ricordare e nulla dimenticare. Vi ringrazio molto ragazzi, voi siete ebrei e dovete sapere e ricordare per dare il buon esempio agli altri popoli. Voi siate Kedoschim (santi) come Kadosch (santo) sono io, siate eletti, osservando i miei comandamenti. Questo disse il santo e benedetto egli sia, al popolo di Israele (dal Pentateuco). ricordate, voi darete l'esempio... grazie ragazzi, grazie di cuore a chi ci ha ascoltato fino qui. 

Questo è tutto quello che mi hanno raccontato i sopravvissuti ai campi di sterminio di Auschwitz 2 Birkenau durante il mio viaggio in Polonia, questo è quello che ora so e che tutti dovrebbero sapere, anche se questa è solo una briciola in confronto a quello che si dovrebbe sapere sulla shoah. Spero di avere dato a coloro che hanno letto questo piccolo giornale qualche cosa in più per iniziare a documentarsi sulla shoah. 

E con questo concludo sperando di essere riuscito a trasmettere il mio messaggio. 

 Paolo Mordechai Sciunnach

LE CAREZZE DEL DOLORE


Il dolore chiama il dolore che quasi non lo senti più. Ci si abitua alla sofferenza e ai dispiaceri molto più in fretta dei momenti di sparuta felicità o serenità. Ci sono stigmate che ti porti dentro che non puoi cancellare, nemmeno a volerlo. Il dolore da dentro si somatizza in ogni strato della pelle divenendo una sola cosa con una fisicità che si fa prematuramente decadente.

Non c’è miglior terapia del dolore che il dolore stesso, come un’arancia che si spreme per far uscire ogni goccia dalla sua buccia fino a farla divenire sottile da sembrare invisibile. Se pensiamo a certe pratiche terapeutiche di origine orientale come l’agopuntura, si prova a debellare il dolore con un’azione dello stesso segno: l’iniezione di aghi in determinati punti del corpo per procurare il benessere fisico e spirituale.

Il dolore appartiene soltanto a chi ce l’ha, inutile girarci intorno. È inviso, reietto, qualcosa che  porta sfortuna, da tenere a debita distanza. Per non esserne attratti o influenzati, ci si ripara dal dolore come si fa quando s’indossa una mascherina per tenersi immuni dai suoi germi.

Il dolore è isolamento, voluto o forzato da qualcosa che non ti appartiene, a cui tu stesso non appartieni più.

Il dolore è il giorno che si fa sera in un attimo. È un cielo buio senza stelle in cui ci s’infila nell'infinita oscurità che avanza verso la notte.

Il dolore è l’insonnia che non ti fa dormire, il silenzio che è un rumore sordo che senti soltanto tu. Malefica compagnia che ti sta accanto e non vuole abbandonarti. Lo senti in ogni parte del corpo, lo accarezzi e ti accarezza fino alle prime luci dell’alba.

E allora speri che finalmente sopraggiunga Morfeo a chiuderti gli occhi per non sentirlo più.

Fino al prossimo risveglio, alla prossima carezza.

L’INTERVISTA SUL FUTURO IMPERFETTO


Alcuni lettori mi hanno scritto di avere avuto problemi di audio durante la mia intervista di presentazione de “Il futuro imperfetto” andata in onda su STAPARADIO il 15 gennaio scorso. 

Ecco allora la trascrizione di quell'intervista curata da Simone Colaiacomo che ringrazio. 

Ho adattato in qualche caso il linguaggio verbale a quello scritto per rendere più scorrevole la lettura. 

SIMONE COLAIACOMO: Buona sera. Oggi mercoledì 15 gennaio 2020, apriamo questa puntata dedicata alla letteratura e in particolare al libro di Vittoriano Borrelli, “Il futuro imperfetto”, che focalizza l'attenzione sull'esistenzialismo, tema caro allo scrittore. È un libro che si colloca esattamente in quel gruppo di testi che cercano proprio di evidenziare l’agire delle persone. L'obiettivo che si pone è quello di dimostrare che l’imperfezione sta proprio nelle azioni degli esseri umani, a differenza della Natura che invece è considerata di per sé perfetta, è considerata incontaminata anche se purtroppo è proprio l'uomo a danneggiarla. È un viaggio introspettivo, un viaggio che potremmo compiere tutti quanti noi. È ciò che ci rappresenta, ciò che ci caratterizza e attraverso le parole di questo libro potrete conoscere le caratteristiche dei personaggi, di uno in particolare, e di immedesimarsi in dinamiche e viverle attraverso un viaggio dell'immaginazione, alla ricerca di un finale che potrebbe trovarsi in una delle prossime fermate. 
Ma adesso ascoltiamo un brano e tra poco avremo al telefono Vittoriano Borrelli per una bellissima intervista. 
Ecco sono qui al telefono con Vittoriano Borrelli Ciao Vittoriano. 

VITTORIANO BORRELLI: Ciao. Ciao a tutti gli ascoltatori. 

SIMONE COLAIACOMO: Ciao. Partiamo dal titolo di questo romanzo “Il futuro imperfetto”, Perfezione e imperfezione fanno parte della nostra quotidianità, quindi la ricerca della perfezione fa parte del desiderio di un artista ma anche di quelle persone meticolose e precise. Eppure spesso si dice che è nell'imperfezione che si trova la bellezza, magari se pensiamo alla mitologia , non so lo strabismo di Venere, la dea della bellezza, è uno degli esempi classici. Come è nato questo titolo? 

VITTORIANO BORRELLI: È nato da un gioco di parole. Ho pensato ai tempi verbali: c’è il futuro semplice e il futuro anteriore, mettiamoci anche il futuro imperfetto, un tempo che evidentemente non esiste ma che nel libro ha un significato ben preciso. Il romanzo ha un messaggio ben preciso: si può essere forti, gagliardi, audaci quanto si vuole, ma ognuno di noi ha le proprie debolezze. E sono proprio queste debolezze di cui dobbiamo prenderci cura per renderci migliori. Sembra un paradosso ma la vera perfezione è la vita imperfetta. Questo è il messaggio di fondo del libro che mi ha ispirato per intessere tutta la storia. 

SIMONE COLAIACOMO: Ed è un bel messaggio. Senti, la critica lo sta considerando un romanzo che si rifà ad un personaggio della letteratura molto famoso. Lo chiamiamo infatti il moderno Dorian Gray. Ecco, qual è il collegamento con il capolavoro di Oscar Wilde? Abbiamo una sorta di ritratto, oppure si tratta di un collegamento derivante dalle attitudini del personaggio? 

VITTORIANO BORRELLI: Sì, diciamo che ci sono diversi personaggi storici che mi hanno ispirato: Giacomo Leopardi che cito con la sua bellissima Infinito, lo sguardo sul mondo libero ostacolato dalla siepe, Narciso, personaggio mitologico che s’innamora di se stesso vedendo la sua immagine riflessa nell'acqua e infine Dorian Gray, del celebre ritratto di Oscar Wilde. Si può definire “Il futuro imperfetto” come il Dorian Gray dei tempi moderni. Il personaggio principale, Edo, è un uomo straordinariamente bello come Dorian ma a differenza di quest’ultimo non fa un patto con il diavolo per l’eterna giovinezza, bensì per avere sicurezza nell'agire senza mai fallire in tutte le tappe della vita. Questo è un po’ il canovaccio e il riferimento al ritratto di Dorian Gray ha un suo significato ben preciso. Il libro si compone di due parti: nella prima, Rosental, il protagonista vive la sua esperienza in un collegio svizzero dove conosce Schoengen, professore di letteratura e con lui impara a conoscere il Ritratto di Dorian Gray per dei motivi ben precisi che si scopriranno nella storia. Quindi il riferimento a Dorian Gray c’è ma è un Dorian Gray dei tempi moderni per i motivi che ho spiegato prima. 

SIMONE COLAIACOMO: Chiaro, chiaro. Non scopriamo troppe cose del libro. Mi hai citato la bellezza, quanto pesa la bellezza in questo romanzo? È una sorta di arma che apre tutte le porte? È un’arma a doppio taglio la bellezza? Qualcosa che ti dà prima e poi si riprende tutto con gli interessi come il patto con il diavolo che tu hai citato? 

VITTORIANO BORRELLI: Diciamo che il tema della bellezza evoca quello delle apparenze ed è molto attuale nelle società moderne sempre più proiettate a valorizzare i canoni estetici rispetto a quelli intrinseci. È una tendenza preoccupante ma ben reale nella società di oggi. Ci si guarda di più allo specchio ma sempre meno nell'animo. Quindi il messaggio che ho voluto dare è proprio questo: la bellezza attrae, può essere un buon viatico ma bisogna saperla gestire. Se ci si basa tutto sulla bellezza poi il fallimento è sempre dietro l’angolo. 

SIMONE COLAIACOMO: Mi viene quasi da pensare ad Instagram e a quanto il selfie oggi è diventato importante per i giovani e non solo. 

VITTORIANO BORRELLI: Giusto, è proprio così. L’attualità sta proprio in questo: si parte da evocazioni antiche, Narciso, Dorian Gray ecc., ma il tema è molto attuale. La bellezza è sempre più enfatizzata nella società di oggi che cura molto l’immagine, favorita anche dall'evoluzione tecnologica di strumenti come i social, Instagram eccetera, i quali, se non si sanno usare con la giusta attenzione e consapevolezza, procurano problemi di crescita personale e di relazione con le persone. 

SIMONE COLAIACOMO: Certo, ed è anche preoccupante perché si generano tutte quelle insicurezze nel momento in cui devi relazionarti di persona. L’immagine è solamente un filtro che mostri ma che non è reale. Alla fine è tutto fittizio. 

VITTORIANO BORRELLI: E’ proprio così. L’uomo è per definizione imperfetto ed è questa la direttrice del romanzo che si sviluppa in maniera dinamica, mai statica con tanti colpi di scena che attirano l’attenzione del lettore fino all'ultima pagina. Leggendo il libro non è mai niente di scontato: il lettore legge e scopre sempre delle cose nuove sia nella prima che nella seconda parte dove il tema della bellezza viene affrontato in maniera più prorompente. Nella seconda parte, che s’intitola “Il giardino delle donne”, troviamo il personaggio di Edo cresciuto che mette in pratica gli insegnamenti ricevuti durante la sua esperienza in collegio. 

SIMONE COLAIACOMO: Chiaro. Un bellissimo messaggio con il quale cerchi di sensibilizzare proprio questo aspetto delle persone. Ascoltami. Questa è una trasmissione radiofonica che si focalizza su due tematiche principali molto collegate tra loro: la letteratura e la musica. So che sei anche un musicista che ha avuto un passato molto forte, presente nella musica come compositore. Vuoi raccontarci come vivi questa doppia forma d’arte? 

VITTORIANO BORRELLI: Diciamo che la musica è stata la mia prima passione. Sono cresciuto in una famiglia molto rigida con canoni educativi precostituiti per cui la musica è stata lo sfogo quasi naturale per evadere da una certa condizione familiare che non mi piaceva. Ho scritto tante canzoni, ho conseguito la qualifica di paroliere e di compositore superando gli esami alla SIAE. Negli anni di gioventù, con un amico di Milano, maestro di musica, ho tentato questa strada. Sognavamo di ripetere le gesta del duo Mogol-Battista. Non è andata bene. E’ stato un sogno durato pochissimo ma fa niente. Nel 2012 ho pubblicato un libro sulle principali canzoni che ho scritto, “Le parole del mio tempo” e fondato un blog culturale che ha lo stesso titolo. che tratta di musica, di cultura, di recensioni, di racconti miei personali con pagine dedicate agli autori emergenti. E’ un blog che mi dà molte soddisfazioni perché mi ha permesso di continuare con questa passione che è sempre viva nel mio cuore nonostante gli anni siano passati. 

SIMONE COLAIACOMO: Uno spazio bellissimo questo de “Le parole del mio tempo”. Sei riuscito a trasformare la passione musicale in carta. 

VITTORIANO BORRELLI: Poi è arrivata la letteratura ma ti dico che non sono uno scrittore molto prolifico perché mi reputo un perfezionista esagerato. Quando scrivo curo ogni aspetto del libro. A livello di pubblicazioni ho pubblicato nel 2012, oltre alle “parole del mio tempo”, un romanzo “La prossima vita” edito da Meligrana, che si è classificato terzo al premio letterario per gli scrittori emergenti, poi "L’aquila non ritorna” , il seguito de "Le parole del mio tempo” con una seconda tranche di canzoni e, infine, un saggio “Spunti dal mio lavoro” che tratta della mia attività professionale. Sono segretario comunale e con questo saggio fornisco quaranta pareri giuridici su tutta l’attività della pubblica amministrazione, con particolare riferimento agli enti locali, ai comuni, ai sindaci, al funzionamento dei consigli comunali, ai rapporti dei cittadini con la pubblica amministrazione e ad altro. Questi sono i 4 libri che ho pubblicato ed il quinto è proprio “Il futuro imperfetto” da poco in uscita, che spero possa procurarmi le stesse soddisfazioni come per le altre opere Io spero che venga letto ed apprezzato. Tra l’altro, ho voluto inserire nel libro un ringraziamento specifico proprio ai lettori: “ringrazio i lettori che leggeranno questo libro e lo porteranno nel cuore, vorrà dire che avrò lasciato qualcosa.” Per me sarebbe il più bel successo se una volta letto il libro riuscissi a ricevere degli apprezzamenti dai lettori. 

SIMONE COLAIACOMO: Ti capisco. È importante ricevere dei feedback da parte di chi legge, soprattutto perché lo fai per loro e non per te stesso. 

VITTORIANO BORRELLI: Certo. Un paio di settimane fa, a Domenica In, Mara Venier ha intervistato un autore al quale gli stata rivolta la domanda “Perché scrivi?” E lui ha risposto con una parola che è anche la mia: per la condivisione. Per me è importante scrivere per condividere emozioni, esperienze. Scrivere per se stessi non serve a niente, ecco perché ho tentato la strada della pubblicazione proprio per trasferire agli altri le emozioni delle storie che racconto. Per me la condivisione è fondamentale per uno scrittore. 

SIMONE COLAIACOMO: L’arte deve essere condivisione. Mi trovi pienamente d’accordo. E poi un artista come te che spazia, da un argomento a un altro, da un campo a un altro. Complimenti davvero perché ci vuole tanta capacità. 

VITTORIANO BORRELLI: E ci vuole del tempo. Il lavoro che faccio è molto impegnativo e bisogna saper conciliare il tutto. Come ho detto, sono segretario comunale, massimo dirigente del comune con tante responsabilità. Ma ti confesso che la cosa che mi piace di più è quando smetto i panni del segretario comunale e comincio a fantasticare con la tastiera del computer, a scrivere, ed è questa la mia vera vita, la vita che vale di più. 

SIMONE COLAIACOMO: Bellissimo. Senti, voglio farti una domanda: so che c’è uno scrittore che conta molto nella tua vita, che ha un peso significativo. Sto parlando di Alberto Moravia. 

VITTORIANO BORRELLI: Alberto Moravia è il mio Mentore. A me piace tanto perché sa scrivere molto bene. Purtroppo è morto da quasi un ventennio ma ho letto quasi tutte le sue opere. Da “Gli Indifferenti”, suo romanzo d’esordio, a “La Noia”, da “La Ciociara” (da cui è stato prodotto un film cinematografico con Sophia Loren che ha vinto l’Oscar), a “La vita interiore” o ai “Racconti romani” che evoca i sonetti del Belli, libro bellissimo che parla dei racconti di questi personaggi romaneschi di una Roma degli anni cinquanta che non c’è più, che a rileggerlo mi fa sempre emozionare. Ho forse ereditato il suo modo di scrivere, Moravia scrive quasi sempre in prima persona, racconta la società in cui ha vissuto come faccio io. I miei libri non si distaccano mai dalla realtà, dal contesto sociale in cui s’inseriscono. Credo di aver preso un po’ il linguaggio letterario di Moravia ed è per questo che lo definisco il mio Mentore. 

SIMONE COLAIACOMO: Ti auguro di seguire le sue orme. 

VITTORIANO BORRELLI: Non credo proprio di arrivare al suo livello. Tra l’altro è stato candidato per ben quindici volte al Premio Nobel per la Letteratura. Peccato, perché lo avrebbe meritato. 

SIMONE COLAIACOMO: Peccato sul serio. Penso comunque che ogni persona, continuando a coltivare quelle che sono le vere passioni, migliora. Mai dire mai. 

VITTORIANO BORRELLI: Tutto può essere. Penso che per scrivere, oltre al talento, bisogna leggere tanto perché è importante confrontarsi non soltanto con gli scrittori famosi ma anche con gli scrittori emergenti. Nella mia esperienza di blogger ho conosciuto tanti scrittori emergenti che scrivono davvero bene e meriterebbero molta più visibilità. Poi lo so che è difficile. C’è tanta competizione. Siamo un popolo più di scrittori che di lettori e le nuove tecnologie forse non aiutano. Oggi con gli strumenti che mette a disposizione Internet si spazia in un mondo infinito e variegato e non è facile scovare lo scrittore che scrive bene. Però ti assicuro che ci sono tanti esordienti che scrivono davvero bene e non ho alcuna difficoltà a riconoscere i loro meriti. Però non è facile emergere… 

SIMONE COLAIACOMO: Il mare magnum delle pubblicazioni… 

VITTORIANO BORRELLI: Vero. L’importante è non abbandonare mai queste passioni anche se non si diventa qualcuno. Poi le cose se succedono, succedono. Altrimenti devi trovare delle compensazioni. Non diventerai uno scrittore come Moravia ma l’importante è continuare a fare cose per la cultura che ti possono dare ugualmente delle soddisfazioni. Credo che sia importante leggere perché eleva la persona e rende più qualitative le relazioni umane. Questo è il mio pensiero e quindi al di là del mio “futuro imperfetto”, spero che gli ascoltatori colgano questo mio messaggio che è un’esortazione alla lettura. 

(Qui per problemi tecnici il collegamento con l’autore s’interrompe). 

SIMONE COLAIACOMO: Eccoci scusateci c’è stato un problema di linea ed è saltata la comunicazione. Ringraziamo comunque Vittoriano Borrelli per la sua disponibilità, per l’intervento che ha fatto, lo ringraziamo ancora, e vi invito a leggere “Il futuro imperfetto”, un libro edito Writers Editor , uscito da poco, che potete trovare sugli store della casa editrice e nelle librerie. Grazie ancora Vittoriano per la bellissima intervista.

IL FUTURO IMPERFETTO - Vittoriano Borrelli- Edito Writers Editor

IN TUTTE LE LIBRERIE E 

IL TEMPO DI CAPIRE


Non capivo
Abbassavo gli occhi e poi pregavo
Per la via guardavo stelle ma inciampavo
Senza storia nascondevo nella mia memoria
un  ricordo in fondo a un portafoglio

Il tempo di capire l'ho lasciato lì a morire
tra le spoglie di un misero amore
tra le braccia sue senza parole

Il tempo di capire è fuggito e mi ha lasciato la fine
nascondendomi dietro il confine
non  ho avuto niente da dire

Dove sta la mia grande libertà?
Ora che mi hanno ammazzato senza pietà?
Dove sta quel tempo di capire in due soli?
Senza ipocrisie e senza dividersi gli amori?

Io l'ho cercata questa mia strada
ma non  ho soldi e vivo ancora di ricordi

Il tempo di capire si è fermato lì a dormire
arrendendosi davanti al mistero
e coprendosi la faccia con un velo

Il tempo di capire mi ha ingannato con le sue promesse
con le solite poesie mai dette
con le piogge lunghe e maledette

E passo il tempo ad aspettare
che questa vita mia
non mi faccia più male

Il tempo di capire l'ho lasciato lì a morire
tra le spoglie di un misero amore
tra le mani sue senza parole

Ma il vento è amico mio
e mi è stato sempre vicino
soffiandomi senza farmi del male
non lasciandomi solo nel mare

(Tratto da Le parole del mio tempo”)


A ME NON CAPITA


Donne al volante, pericolo costante. Non c’è proverbio più vero di questo. Prima le vedevi rimirarsi allo specchietto retrovisore per controllare quanto fossero belle e attraenti, ora te le ritrovi con il cellulare incollato all'orecchio con l’aria sempre indaffarata. Certo, accade anche a noi maschietti, ma loro sono maestre a fare cento cose nello stesso tempo che non si rendono conto che ogni minima distrazione può essere fatale.

Qualche giorno fa, imboccando via dei Platani, mi sono imbattuto in una smart con una bionda alla guida che chattava al telefonino mentre si dava contemporaneamente una controllatina al rossetto. È stato per poco che non mi tagliasse la strada e mi facesse impattare contro una fila di macchine posteggiate. “Cretina!”, le ho gridato dal finestrino, “Guarda la strada invece di specchiarti come una reginetta e stare attaccata a quel coso.”

Sapete come mi ha risposto? Ha continuato imperterrita a parlare con quell'aggeggio mentre dallo specchietto mi ha fatto il gesto delle corna.

Inaudito!

E che dire degli automobilisti della domenica? Io che faccio il rappresentante e la strada è la mia casa, li riconosco come le mie tasche. Tutti perfettini, pensano che la carreggiata sia una passerella per dare sfoggio alle loro auto lucide e brillanti dopo averle tenute una settimana in garage per andare al lavoro in bus o in treno. Con il naso quasi schiacciato sul volante, si guardano a destra e a sinistra come se temessero sbucare da qualche parte chissà quale minaccia. Sono lenti come lumache e si muovono in blocco formando lunghe code ai semafori.

Ad un tizio che non sapeva se girare a destra o a sinistra e metteva la freccia ora nell’uno, ora nell’altro verso, gli ho gridato con il mio accento romanesco: “Ahoo! Stamattina c’hai le vertigini? Perché non sei rimasto a casa a nanna?”

Sapete come mi ha risposto? Mi ha fatto il gesto del dito verso l’alto. Stavo per cantargliene quattro ma c’era la partita della Roma e non volevo arrivare tardi allo stadio.

Inaudito!

A me non capita. Sono cose dell’altro mondo e non le capisco. Riesco a districarmi bene in questa giungla d’asfalto popolata da pivelli e da principianti. Sono attento a tutto, ho occhi dappertutto, ne avrò un paio persino dietro la testa per guardare quello che succede alle mie spalle, così che mi sento sicuro di schivare qualsiasi pericolo, reale o potenziale.

A me non capita perché sono quello che si dice di una persona assennata e scrupolosa che si trova a suo agio sia nel traffico di Roma che, mettiamo, in quello di Tokyo, tanto sono bravo a scansarmi da ogni genere di insidia e ad arrivare dappertutto senza intoppi.

A me non capita perché viaggio sereno e qualche volta riesco persino a fischiettare tanto sono  tranquillo di me. Non temo nessuno, nemmeno la volante della polizia che adesso m’invita ad accostarmi per i controlli di rito.

“Patente e libretto, prego.” È un omaccione col pancione che mi ricorda il sergente Garcia, acerrimo nemico di Zorro della popolare serie televisiva. Mi trattengo dal ridere ma obbedisco come il più ligio degli automobilisti. Con il suo collega mingherlino comincia a ispezionare la mia macchina a partire dalle ruote che ho sostituito proprio l’altro giorno e perciò sono nuove di zecca.

Batto le dita sul volante e aspetto che i controlli vadano, come sono sicuro, a buon fine. Intanto, per far passare il tempo, canticchio “Guido piano”, la canzone di Fabio Concato:

Viene voglia di cantare
Questa sera
te lo voglio raccontare
Son sereno
come se fosse Natale…”

Vengo interrotto da “Garcia” che ritorna da me e con una mano appoggiata al finestrino mi mostra un sorriso che scambio come un segno di approvazione. “Visto, agente? Ho cura della mia macchina come se fosse una bella donna. Tutto a posto, vero?”

Sapete cosa mi ha risposto? “Tutto a posto un corno. Ha la patente scaduta da tre mesi, non se n’è accorto?”

Sono diventato più bianco della neve del Monte Rosa. Ho cominciato a balbettare qualcosa, gli ho detto che forse si stava sbagliando e cose del genere.

“Nessun errore. Una bella multa non gliela toglie nessuno.” Poi, con la mia patente in mano, ha sentenziato: “Questa intanto la tengo io. Parcheggi qui che le faccio il verbale. Per tornare a casa prenda l’autobus, la fermata è proprio lì di fronte.”

Sono rimasto di sasso e ho solo esclamato:

“Inaudito!”

A ME NON CAPITA

Racconto breve
di
Vittoriano Borrelli

(Ogni riferimento alla realtà è puramente casuale)


IL RITRATTO


Il vecchio aveva nascosto il ritratto
tra le cose che aveva lasciato
e intorno al fuoco spento della vita
provò per gioco a farsi un'autocritica

Ma quanti incontri perduti per strada
quante parole dette senza senso
e quanti appuntamenti mancati
e quanti fili d'erba calpestati

E c'era anche il senso della paura
la solitudine di poche avventure
la rabbia fragile grandi e piccole scuse
ed un segreto mai svelato a nessuno

Poi l'autocritica si fece più critica
all'orizzonte di una luna romantica
il volto di una donna bagnato
che la sua mano non aveva asciugato

La prima volta senza una parola
I primi tempi con una sporca infanzia
Amori belli sopra grattacieli
Le prime rughe sotto cento veli

Il sole stanco nella sua chiarezza
Il vento forte nella sua freschezza
Nel cuore l'odio verso i traditori
La pace l'ansia ed anni di dolore

Peccati e tanti abbracci incatenati
e poi spezzati da ipocriti abbandoni
la voglia di riuscire disperata
il caffè caldo della solita giornata

Fuori la porta gioca nel suo giardino
un bimbo che vuole sfidare il destino
coi suoi sorrisi e col suo istinto di speranza
coi suoi colori e con la sua resistenza

E per finire questa stupida canzone
il vecchio apre finalmente il cassetto
e stringe forte a sé quel ritratto
mentre nel cielo adesso il sole è già alto

(Tratto da Le parole del mio tempo”)