UN ANNO DI ME

Il 2017 sta per chiudere i battenti ed è tempo di bilanci. Come ogni anno mi appresto a tirare le somme di ciò che avvenuto negli ultimi dodici mesi su questo blog. 

"L’anno che sta arrivando tra un anno passerà. Io mi sto preparando, è questa la novità”. Così cantava Lucio Dalla nella sua mitica ed indimenticabile “L’anno che verrà”. Sembra essere questo il rendiconto tipico delle nostre storie che passano inesorabilmente con il tempo senza che ce ne accorgiamo, salvo ricordarcene proprio nell'ultimo giorno dell’anno.

Ma c’è un vissuto che resta e che ci rende più forti o più deboli a seconda di come sono andati gli eventi. Ogni attimo che respiriamo è già passato, sta a noi farlo prolungare o sopravvivere nel futuro prossimo che è già qui.

L’anno che sta arrivando è dietro la porta ma c’è ancora tempo per voltarsi indietro prima di aprirla. Ecco allora il mio calendario 2017 con i post più letti e graditi. Per chi desidera rileggerli basta cliccare sui rispettivi titoli. 

GENNAIO: Pubblico il racconto breve “Lo scapolo di bronzo”, parodia sulla virilità maschile più ostentata che veritiera. Ottiene tante visualizzazioni da aggiudicarsi la palma del più letto del mese .

FEBBRAIO: Altro racconto breve “Il dubbio”, in chiave giallo-moderna, otterrà il gradimento di migliaia di lettori. Piace anche “Bell’Anima”, ritratto della purezza interiore spesso sommersa dalle nefandezze del mondo.

MARZO:Le cose inutili, che affronta il tema del consumismo e dell’anoressia, piace e fa riflettere. Segue subito dopo “La fine di un amore” tentativo (vano) di spiegare l’inspiegabile.

APRILE: Stravince “I fiori spezzati” racconto breve di una Medea dei giorni nostri.

MAGGIO: Quarto potere, quello dell’informazione, che lusinga ed inganna. E’ il tema di “Questo non lo scriva”, racconto sulla manipolazione della realtà che piace tanto ai lettori dall'occhio critico. 

GIUGNO: Pubblico “Non ti dimentico, cronaca sull'esercizio impossibile del diritto all'oblio nell'era multimediale. Sarà il più letto del mese. 

LUGLIO: L’estate afosa entra nel vivo e favorisce l’immaginazione verso esodi improbabili. Un concentrato di pensieri raccolti nel post “Luci di città, il più cliccato dai lettori.

AGOSTO: Ripubblico in forma integrale “La mia donna non esiste, racconto sulla doppia vita che ottiene ancora più consensi della prima uscita.

SETTEMBRE: E’ il mese delle recensioni. Seguitissima quella di “Posizioni compromettenti”, di Susan Isaac, un giallo a luci rosse che ho rispolverato dagli archivi della mia esperienza di lettore. Non sfigura “Anna con tutti”, recensione che ho scritto per le mie colleghe scrittrici Alessandra Alioto e Rosalba Repaci e che ha per tema la violenza in ambito familiare.

OTTOBRE: Esce “Ti sposerò per sempre”, l’eternità in un attimo di una storia coniugale come tante. Segue subito dopo “Gli abbracci mancati”, retaggio sulle carenze affettive.

NOVEMBRE:La madre di Cecilia”, passo de “I Promessi Sposi”, risulterà particolarmente gradito. Piace anche l’intensa “Abituarsi, poesia sulle cose che non ci appartengono più.

DICEMBRE: Boom di visualizzazioni e attestati di gradimento per “L’abbandono”, dedicato alla solitudine degli ultimi. Scalerà la classifica dei post più letti di sempre.

GRAZIE A TUTTI VOI CHE MI AVETE SEGUITO CON L'AUGURIO DI UN BELLISSIMO

2018

IL PIANETA DEGLI ALBERI DI NATALE

Dove sono i bambini che non hanno
l’albero di Natale
con la neve d’argento, i lumini
e i frutti di cioccolata?
Presto, presto adunata, si va
sul Pianeta degli alberi di natale,
io so dove sta.

Che strano, beato Pianeta…
Qui è Natale ogni giorno.
Ma guardatevi attorno:
gli alberi della foresta,
illuminati a festa,
sono carichi di doni.

Crescono sulle siepi i panettoni,
i platani del viale
sono platani di Natale.
Perfino l’ortica,
non punge mica,
ma tiene su ogni foglia
un campanello d’argento
che si dondola al vento.

In piazza c’è il mercato dei balocchi.
Un mercato coi fiocchi,
ad ogni banco lasceresti gli occhi.
E non si paga niente, tutto gratis.
Osservi, scegli, prendi e te ne vai.
Anzi, anzi, il padrone
Ti fa l’inchino e dice: “Grazie assai,
torni ancora domani, per favore:
per me sarà un onore
…”

Che belle le vetrine senza vetri!
Senza vetri, s’intende,
così ciascuno prende
quello che più gli piace: e non si passa
mica alla cassa, perché
la cassa non c’è.

Un bel Pianeta davvero
anche se qualcuno insiste
a dire che non esiste…
Ebbene, se non esiste, esisterà:
che differenza fa?


(GIANNI RODARI)

L’ABBANDONO

In questi giorni che ci avvicinano al Natale il mio cuore è dalla parte delle persone sole, quelle senza conforto e reiette da un mondo distratto ed approssimativo. Piccoli eroi che nessuno vede perché a farcela da soli è un’impresa non da poco.

Chi mi segue su questi schermi sa che non sono un grande fautore delle feste comandate. Sarà per i cattivi ricordi o semplicemente perché il Santo Natale non è più così sentito. Sta diventando sempre più un’altra cosa.

Sarà che le luci festose ed accecanti che si vedono in giro non riescono ad illuminare il buio dell’abbandono, a far luce laddove c’è bisogno nonostante tanti proclami e buone intenzioni. La corsa ai regali brucia tutte le tappe e spesso sotto l’involucro di una bella confezione manca il cuore e la spontaneità di chi ostenta generosità.

Alle persone sbagliate (per gli altri) voglio dedicare una canzone che ho scritto alcuni anni fa e che s’intitola, per l’appunto, “L’abbandono”. Chi si riconoscerà nel testo avrà compiuto metà strada per intravedere alla fine di un certo percorso nuova luce e speranza di riscatto.


L’ABBANDONO
(V. Borrelli)


Hai mai sentito l'abbandono dentro te?
Un grande vuoto che ti lascia fuori e poi
non sai riprenderti vorresti arrenderti
farti più piccolo di quanto già non sei

E all'improvviso non t'importa quasi più
del freddo intenso che ti fa sentire giù
sotto la neve di un giorno breve
e ti domandi se qualcosa ancor succede

L'anima che senti quando ti tormenti
davanti ad un bicchiere e a un grande dispiacere
che ti addolora ma un po’ ti fa piacere

Libera la mente temerariamente
Prova a spiccare il volo per non sentirti solo
oltre le nuvole scoprire un mondo nuovo

Hai mai capito l'abbandono dentro te?
Quando la sera gli altri sono andati via
e le parole del tuo silenzio
altro non sono che le voci dell'inferno

E allora pensi di cambiare strategia
per conquistare gli altri cerchi un'altra via
anche uno sguardo che arrivi al cuore
che dica molto più di mille tue parole

L'anima che senti in questi momenti
è un mondo che si chiude alle tue spalle nude
è un giorno così uguale che non ti fa più male

Libera la mente delicatamente
se chiudi gli occhi adesso ti sembra già diverso
e l'abbandono sai va via con tutto il resto


(Tratto da Le parole del mio tempo”)

LA FORZA DELLA SCRITTURA

L’estate scorsa è stata una delle più belle degli ultimi anni. Non mi sono innamorato, non ho fatto baldoria fino all’alba, né ho partecipato alle classiche sagre paesane banchettando e bevendo vino in quantità (sono astemio) o ballando nelle balere sotto le stelle (sono rigido come un armadio).
Che cosa avrò fatto mai perché l’estate 2017 fosse per me indimenticabile?

Ho finito di scrivere il mio nuovo romanzo che uscirà nel 2018. Niente di trascendentale direte voi, e poi scrivere sotto il solleone anziché andare in qualche paese esotico o nella spiaggetta vicino casa per immergersi nel mare azzurro e cristallino non deve essere stato edificante. Invece per me è stato bello, rigenerante ed appagante occuparmi dei pensieri, quelli liberi ed incontaminati, per finire una storia cominciata qualche anno fa e di cui non mi decidevo a premere nemmeno un tasto del mio computer.

Per chi non ha la passione dello scrivere è difficile comprenderlo. Gli scrittori sono una specie oscura e impenetrabile, sempre con la testa tra le nuvole che quasi la realtà è come un tappeto volante pronto a sospingerli verso mondi nuovi e inesplorati. Gli scrittori hanno il dono (o il vezzo) di vivere cento vite ed è difficile stare al loro passo se non si è sulla stessa lunghezza d’onda.

Nelle mie giornate agostane sono entrato in catarsi. Ho ripreso il romanzo su cui stavo lavorando da due anni e l’ho finito in pochi giorni spinto da un’ispirazione galoppante che mi ha regalato emozioni, pathos e finanche commozione per come si è sviluppato tutto l’intreccio narrativo. Sono ingredienti che solo la forza della scrittura è in grado di regalare.

A lavoro finito sono andato alla ricerca di qualche buon editore disposto a pubblicare l’opera. Con mia sorpresa non ci ho messo molto a trovarlo e agli inizi di novembre ho firmato il contratto di edizione grazie al quale il romanzo sarà in uscita nel 2018.

Per ora non anticipo niente sul titolo e sulla sinossi, lo farò quando apporrò sulla bozza definitiva il c.d. “Visto, si stampi”.  Dico solo che non mancheranno i colpi di scena, come già accaduto per “La prossima vita”, o in tanti altri racconti che avete potuto leggere su questo blog.

Ma soprattutto spero che possa emozionarvi, regalarvi ore di distensione e di riflessione.

Sarebbe per me la più bella soddisfazione.

Porci con le ali

Le inquietudini giovanili si manifestano in misura costante e ciclica in tutte le generazioni. La differenza sta nel modo con cui esse esplodono in un dato contesto storico. E’ quello che accade, ad esempio, nel romanzo “Porci con le ali. Diario sessuo-politico di due adolescenti ” scritto da Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera nel 1976 da cui venne tratto un anno più tardi un film che, tuttavia, non ebbe lo stesso successo.

La storia di Rocco e Antonia raccontata attraverso un diario in cui ciascuno dei protagonisti cerca di dare corpo e sostanza alla loro (effimera) relazione sentimentale, rivela in realtà la frustrazione, tutta giovanile, di trovarsi in bilico in una fase della vita a cavallo tra la fine dell’adolescenza e l’inizio dell’età adulta.

Allora è il sesso che diventa lo strumento (fuorviante) per rimediare ad una condizione esistenziale precaria elevandosi in una sorta di emancipazione apparente che, assieme al linguaggio schietto e postribolare dei due giovani, procura l’illusione di potersi distinguere da un contesto sociale conformista e conservatore.

L’autoerotismo, l’approccio spavaldo verso l’altro (o l’altra) rappresentano la (sola) modalità di contatto con se stessi e il mondo esteriore quasi che la contestazione e la ribellione verso comportamenti stereotipati e convenzionali della società post-sessantottina avessero bisogno, per la loro idealità e ideologicità, di ricevere conferma attraverso una massiccia dose di sesso esplicito e disinibito. Così Rocco (come Antonia) rifiuta qualsiasi etichetta del bravo ragazzo e rifugge da certe manifestazioni sentimentali che giudica borghesi e anti-sinistra come la gelosia o l’innamoramento del tipo “due cuori e una capanna”.

Ad una festa che si trasforma in una piccola orgia, Antonia si lascia sedurre da un professore universitario ma pentitasi, cerca di rimediare con un flirt poco appagante con l’amica Lisa. Rocco ha invece un rapporto omosessuale con il compagno Roberto e tenta di fare lo stesso con Lisa per dimenticare (senza successo) la sua ex fidanzata. Alla fine di questo viaggio travagliato e turbolento, Rocco e Antonia promettono di rivedersi, diversi e rigenerati.

UN PASSO DEL ROMANZO: Il silenzio me lo ricordo come una cosa proprio angosciosa, e anche il mio corpo che incomincia a tendersi. Non proprio un arco, ma certo una corda tesa: ha incominciato a sfuggirmi qualche sospiro. Allora Lisa mi ha abbracciata ed è venuta sopra di me, e si strofinava come un grosso gatto col corpo uguale al mio. Non riesco adesso a ricordare se stavo bene o stavo male, perché queste sensazioni sono impossibili da isolare, da ricordare, da riportare alla mente. Io nei ricordi riesco a salvare solamente la sensazione dominante e quella era come quando si sta per piangere, un misto di tenerezza, paura e rilassamento, quando si piange senza essere molto tristi. Il brutto è venuto quando lei si è staccata da me e mi è rotolata al fianco. Sdraiate nude spalla a spalla e senza il coraggio di guardarci in faccia. Con la vagina pulsante e un odore addosso che era come il mio odore al quadrato.

GLI AUTORI: Marco Lombardo Radice è stato uno scrittore e psichiatra, morto prematuramente nel 1989 all’età di quarant’anni. Porci con le ali è la sua opera più famosa prima di intraprendere la carriera di medico.
Nata a Torino nel 1951, Lidia Ravera è una scrittrice e giornalista molto nota. Copiosa la sua produzione letteraria della quale si ricordano “Ammazzare il tempo” (1979), “Maledetta gioventù” (1999)  e l’ultimo “Terzo tempo” (2017).

GIUDIZIO: Scabroso, anticonformista, “Pasoliniano”, il romanzo colpisce per la sua schiettezza e capacità di fotografare il disagio giovanile nell’era post-sessantottina mettendo a nudo le ipocrisie di un sistema politico-sociale che da lì a poco sarebbe andato alla deriva. Ma non deve scandalizzare il linguaggio scurrile che si rinviene in molte parti dell’opera, quanto piuttosto il finto perbenismo che aleggiò nella critica dell’epoca. Nonostante siano passati oltre quarant’anni dalla sua uscita, il romanzo è ancora oggi godibile e attuale.


ABITUARSI

Al silenzio della sera
così rumoroso e assordante
che non ti fa più dormire
Alle cose che non ti appartengono più
perché il tempo te le ha portate via
o te le ha rubate
in una notte senza luce
Alle spalle della luna

Agli odori soliti del mattino
che quasi non li senti più
agli sguardi che non vedono
alle mani che non si sfiorano
alle parole sottaciute
come lacrime trattenute
che si adagiano sullo stesso dolore
Alle spalle della luna


Ai ricordi che non si dimenticano
al futuro che si accorcia
al vuoto che ti circonda
aspettando chi non ritorna
seduto su una panchina spoglia
del più piccolo conforto
in una notte senza pace
Alle spalle della luna

MARY ALLA STAZIONE

Mary fa l'amore con me senza un motivo
per lei la vita è solo il suo respiro
Mary mi promette pensieri più fedeli
Mary ha gli occhi scuri e così seri
Poi mi lascia solo a morire qui nel letto
ma ritorna ancora a dormire sul mio petto


Mary fa l'indiana è il mio tramonto rosso
noi ci vediamo sempre di nascosto
Nella notte insieme inventiamo prime volte
aggrappati ai fili della nostra sorte
E' una bugia mia è quello che non ho
il nostro incontro è un giorno nel metrò

Nell'aria c'è l'odore di un novembre di città
le strade sono quelle ognuno ha la sua età

Mary alla stazione mi fa ciao con la mano
con sè una valigia e un cappello un po’ strano
Poi mi dice andiamo via da qui
prendiamo insieme il nostro solito tassì
Mary alla stazione...

La televisione non mi va questa sera
uguale anche per lei che è così seria
Guarda che casino ora mi sta vicino
e si rispoglia ma senza più voglia
Io le accarezzo il viso ma sono già pentito
era meglio sai non incontrarci qua

Mary cioccolata Mary un po’ ruffiana
Mary non è più innamorata
Mary ragazzina con lo zucchero filato
poi mi sorride ma so che è un addio
Mary ed i miei conti a fine settimana
Mary con la pioggia e la rugiada

La gente va di fretta con troppa serietà
vorrei tornare indietro ma sono ancora qua

Mary alla stazione mi accarezza i capelli
vorrei stringerle le mani e dirle ancora rimani
Sentimento di amarezza dentro me
mentre tutto si ribella ai miei perché

Mary alla stazione non si volta più indietro
io la guardo sparire in quel misero treno
L'aria è quella di un novembre di città
il vento mi riporta in fretta alla realtà


(TRATTO DA LE PAROLE DEL MIO TEMPO- V. Borrelli)

LA MADRE DI CECILIA

Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo.

La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori.

Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Nè la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sul l’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento.

Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, «no!» disse: «non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete».

Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: «promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così». Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato che per l’inaspettata ricompensa, s’ affaccendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina.

La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: «addio Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri». Poi voltatasi di nuovo al monatto, «voi», disse, «passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola».

Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccio, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato.


(TRATTO DA “I PROMESSI SPOSI” DI A. MANZONI)

IL DELITTO PERFETTO

Per gli amanti del neorealismo, ecco un brano del mio Maestro Alberto Moravia tratto da “Racconti romani” pubblicato per la prima volta nel 1954 dall'editore Valentino Bompiani. Settanta novelle che raccontano l'Italia del dopoguerra in una Roma desolata alle prese con la difficile ricostruzione di se stessa. Vicende forse lontane dal nostro tempo ma con molti tratti caratteristici e comportamenti sociali che si rinvengono ancora oggi sia pure sotto... mentite spoglie.


Era più forte di me, ogni volta che conoscevo una ragazza, la presentavo a Rigamonti e lui, regolarmente, me la soffiava. Forse lo facevo per dimostrargli che anch’io avevo fortuna con le donne, o forse perché non riuscivo a pensar male di lui e, ogni volta, nonostante il tradimento precedente, ci ricascavo a considerarlo un amico. E pazienza se avesse fatto le cose con un po’ di delicatezza, un po’ di educazione; ma si comportava proprio da prepotente, come se io non ci fossi stato.

Arrivava a corteggiare la ragazza in mia presenza, a darle degli appuntamenti sotto i miei occhi. In questi casi, si sa, chi ci rimette, è la persona educata: mentre lui non si faceva scrupolo di fare i suoi comodi, io invece tacevo per il timore, provocando una discussione, di mancar di riguardo alla signorina.

Una volta o due protestai, ma timidamente, perché non so esprimere i miei sentimenti e quando dentro sono tutto fuoco, di fuori rimango freddo che nessuno penserebbe che sono in collera. Sapete cosa rispose? “Dà la colpa a te stesso e non a me se la ragazza ha preferito me, è segno che io ci so fare meglio di te”. Era vero: come era vero che lui, fisicamente, era meglio di me. Ma un amico si riconosce appunto dal fatto che lascia stare le donne dell’amico.

Insomma, dopo che mi ebbe rifatto quello scherzo quattro o cinque volte, presi a odiarlo con tanta passione che al bar dove lavoravamo, pur stando dietro al banco con lui e servendo con lui gli stessi clienti, procuravo sempre di mettermi di profilo o di spalla per non vederlo. Ormai non pensavo quasi più ai torti che mi aveva fatto, ma proprio a lui, a come era, e mi accorgevo di non potere più soffrirlo.

Odiavo quella sua faccia robusta e stupida, con la fronte bassa, gli occhi piccoli, il naso grosso e ricurvo, le labbra fiorite e leggermente baffute. Odiavo i suoi capelli che gli facevano come un casco, neri e lucidi, con due ciocche lunghe che partendo dalle tempie gli arrivavano fino alla nuca.

Odiavo le sue braccia pelose che ostentava manovrando in piedi la macchina del caffè. Soprattutto il naso mi affascinava: largo alle narici, arcuato, grosso, pallido nel mezzo del viso rubizzo, come se la forza dell'osso ne avesse tesa la pelle. Pensavo spesso di sferrargli un pugno in pieno su quel naso e di udire l'osso, crac, schiantarsi sotto il pugno. Sogni, perché sono piccolo e mingherlino e Rigamonti, con un dito solo, avrebbe potuto atterrarmi.

Non saprei dire come fu che pensai di ammazzarlo; forse una sera che andammo insieme a vedere un film americano che si chiamava: "Un delitto perfetto". Io, veramente, da principio non volevo veramente ammazzarlo ma soltanto immaginare come mi sarei regolato per farlo. Mi piaceva pensarci la sera prima di addormentarmi, la mattina prima di levarmi dal letto e, magari, anche di giorno quando al bar non c'era nulla da fare e Rigamonti seduto sopra uno sgabello, dietro il banco, leggeva il giornale, chinando sulla pagina quella sua testa impomatata. Pensavo: "Ora prendo il pestello col quale rompiamo il ghiaccio e glielo do in testa"; ma così, per gioco.

Era insomma come quando si è innamorati e tutto il giorno si pensa alla donna e si fantastica che le si farebbe questo e le si direbbe quest'altro. Soltanto che io avevo per innamorata Rigamonti e quel piacere che altri prende a immaginare baci e carezze, io lo trovavo nel sognare la sua morte.

Sempre per gioco e perché ci trovavo tanto piacere, immaginai un piano in tutti i particolari. Ma poi, una volta formulato questo piano, mi venne la tentazione di applicarlo e questa tentazione era così forte che non resistetti più e decisi di passare all'azione. Ma forse non decisi nulla e mi ritrovai nell'azione quando credevo ancora di fantasticare. Questo per dire che, proprio come in amore, feci ogni cosa naturalmente, senza sforzo, senza volontа, quasi senza rendermene conto.

Incominciai, dunque, a dirgli, tra una tazza di caffè e l'altra, che conoscevo una ragazza tanto bella, che questa volta non si trattava di una delle solite ragazze che piacevano a me e poi lui me le soffiava, ma proprio di una ragazza che aveva messo gli occhi addosso a lui e voleva lui e nessun altro.

Questo glielo ripetei giorno per giorno, una settimana di seguito, sempre aggiungendo nuovi particolari su quell'amore così ardente e fingendo di mostrarmi geloso. Lui dapprima faceva l'indifferente, e diceva: "Se mi ama, venga al bar... le offrirò un caffè", ma poi cominciò a snervarsi. Ogni tanto, fingendo di scherzare, mi domandava: "Di' un po'... e quella ragazza... mi ama sempre?" Io rispondevo:
"E come."
"E che dice?"
"Dice che le piaci tanto."
"Ma come?... Che cosa gli piace in me?"
"Tutto, il naso, i capelli, gli occhi, la bocca, il modo come manovri la macchina del caffè... tutto, ti dico..."

Insomma proprio le cose che odiavo in lui, e l'avrei ammazzato soltanto per quelle, io fingevo che avessero fatto girare la testa a quella ragazza di mia invenzione. Lui sorrideva e si gonfiava perché era vanitoso oltremodo e si credeva non so quanto. Si vedeva che in quel suo cervellaccio non faceva che pensarci e che voleva conoscere la ragazza e l'orgoglio soltanto gli impediva di chiedermelo. Finché, un giorno, disse stizzito: "O senti... o tu me la fai conoscere... oppure è meglio che non me ne parli più."

Io aspettavo queste parole; e subito gli fissai un appuntamento per la sera dopo. Il mio piano era semplice. Alle dieci staccavamo, ma al bar, fino alle dieci e mezzo, restava il padrone a fare i conti. Io portavo Rigamonti sotto il terrapieno della ferrovia di Viterbo, lì accanto, dicendogli che la ragazza ci aspettava in quel luogo. Alle dieci e un quarto passava il treno e io, approfittando del rumore, sparavo a Rigamonti con una "Beretta" che avevo comprato qualche tempo prima a piazza Vittorio. Alle dieci e venti tornavo al bar a riprendere un pacchetto che ci avevo dimenticato e così il padrone mi vedeva. Alle dieci e mezzo, al massimo, stavo giа a letto nella portineria dello stabile, dove il portiere mi affittava una branda per la notte.

Questo piano l'avevo in parte copiato dal film, soprattutto per quanto riguardava la combinazione dell'ora e il treno. Poteva anche non riuscire, nel senso che mi scoprissero. Ma allora restava la soddisfazione di aver sfogato la mia passione. E io per quella soddisfazione me la sentivo anche di andare in galera.

Il giorno dopo avemmo da lavorare parecchio perché era sabato e fu bene perché, così, lui non mi parlò della ragazza e io non ci pensai. Alle dieci, al solito, ci togliemmo le giubbe di tela e, salutato il padrone, ce ne uscimmo da sotto la saracinesca mezzo abbassata.

Il bar si trovava sul viale che porta all'Acqua Acetosa, proprio a un passo dalla ferrovia di Viterbo. A quell'ora le ultime coppie avevano lasciato la montagnola del parco della Rimembranza e per il viale buio, sotto gli alberi, non ci passava più nessuno. Era aprile, con l'aria giа dolce e un cielo che si andava pian piano schiarendo, sebbene la luna ancora non si vedesse.

Ci avviammo per il viale, Rigamonti tutto allegro che mi dava le solite manate protettive sulle spalle, e io rigido, la mano al petto, sulla pistola che tenevo nella tasca interna della giacca a vento. Al bivio, lasciammo il viale e ci inoltrammo per un sentiero erboso, a ridosso del terrapieno della ferrovia. Lì, per via del terrapieno, faceva più buio che altrove, e anche questo l'avevo calcolato. Rigamonti camminava avanti e io dietro. Giunti al luogo designato, poco lontano da un lampione, dissi: "Ha detto di aspettarla qui... vedrai che tra un momento viene." Lui si fermò, accese una sigaretta e rispose: "Come barista sei discreto... ma come ruffiano sei insuperabile." Insomma, continuava ad offendermi.

Era una localitа veramente solitaria e la luna, sorgendo alle nostre spalle, illuminava tutta la pianura sotto di noi, annebbiata da una guazza bianca, sparsa di macchioni bruni e di mucchi di detriti, con il Tevere che vi serpeggiava, svolta dopo svolta, e pareva d'argento. Mi parve di rabbrividire per la guazza e dissi a Rigamonti, più per me che per lui: "Sai, minuto più minuto meno... sta a servizio e deve aspettare che i padroni siano usciti." Ma lui di rimando: "Ma no, eccola." Allora mi voltai e vidi venirci incontro per il sentiero una figura nera di donna. Poi me lo dissero che quello era un luogo frequentato da quelle donne per incontrarci i loro clienti; ma io non lo sapevo e, lì per lì, quasi pensai che quella ragazza non me l'ero inventata ed esisteva davvero.

Intanto Rigamonti, sicuro di sé, le andava incontro e io lo seguii macchinalmente. A pochi passi, lei uscì dall'ombra, nella luce del fanale, e allora la vidi. E quasi mi fece paura. Avrà avuto sessant'anni, con certi occhi spiritati dipinti intorno di nero, il viso infarinato, la bocca rossa, i capelli svolazzanti e un nastro nero intorno il collo.

Era proprio una di quelle che cercano i luoghi più bui per non farsi vedere e veramente non si capisce, da tanto sono vecchie e malandate, come facciano a trovare ancora dei clienti. Rigamonti, però, prim'ancora di vederla, le aveva giа chiesto, con la solita sfacciataggine: "Signorina, aspettava noi?"; e lei, non meno sfacciata, gli aveva risposto: "Sicuro." Poi lui la scorse finalmente e comprese l'errore. Mosse un passo indietro, disse, incerto: "Beh, mi dispiace, stasera proprio non posso... ma c'è qui l'amico mio", fece un salto da parte e scomparve giù per il terrapieno.

Capii che Rigamonti aveva pensato che io avessi voluto vendicarmi presentandogli, dopo tante belle ragazze, un mostro di quel genere; e capii pure che il mio delitto sfumava. Guardai la donna che mi diceva, poveretta, con un sorriso che pareva la smorfia di una maschera di carnevale: "Bel biondino, me la dai una sigaretta?"; e mi venne compassione di lei, di me e magari anche di Rigamonti.

Avevo provato tanto odio e adesso, non so come, l'odio si era scaricato; e mi vennero le lagrime agli occhi e pensai che grazie a quella donna non ero diventato un assassino. Le dissi: "Non ho la sigaretta, ma prendi questa... se la rivendi ci fai sempre un migliaio di lire;" e le misi in mano la "Beretta". Poi saltai anch'io giù per il terrapieno, correndo verso il viale. In quel momento passò il treno di Viterbo, vagone dopo vagone, con tutti i finestrini illuminati, spargendo faville rosse nella notte. Mi fermai a guardarlo che si allontanava; e poi ascoltai il rumore finché non si fu spento; e finalmente me ne tornai a casa.

Il giorno dopo, al bar, Rigamonti mi disse: "Sai l'avevo capito che sotto c'era qualche cosa... ma non importa... come scherzo è riuscito." Io lo guardai e mi accorsi che non lo odiavo più, sebbene fosse sempre lo stesso, con la stessa fronte, gli stessi occhi, lo stesso naso, gli stessi capelli; le stesse braccia pelose che ostentava sempre nello stesso modo manovrando la macchina del caffè.

Tutto ad un tratto mi sentii più leggero, come se il vento di aprile, che gonfiava la tenda davanti la porta del bar, mi avesse soffiato dentro. Rigamonti mi diede due tazzine di caffè da portare a due clienti che si erano seduti al sole, al tavolo di fuori, e io, pur prendendole, gli dissi, sottovoce: "Stasera ci vediamo?... ho invitato l'Amelia." Lui sbatté sotto il banco il caffè sfruttato, riempì i misurini di polvere di caffè fresca, fece sprigionare un po' di vapore e quindi rispose semplicemente, senza rancore: "Mi dispiace, ma stasera non posso." Uscii con le tazzine; e mi accorsi che ero deluso che lui quella sera non venisse e non mi rubasse l'Amelia come tutte le altre.


(TRATTO DA “RACCONTI ROMANI” DI ALBERTO MORAVIA)

GLI ABBRACCI MANCATI

Sono cresciuto sotto il tuo sguardo vigile e severo che mi ha incupito anche quando fuori c’era una bella giornata di sole. Mi sono portato dietro questo sguardo negli anni a seguire ed è stato come rivedermi tutte le volte allo specchio senza avere la voglia di sorridere, di lasciarmi andare nella spensieratezza della mia gioventù o nella serenità, composta ed essenziale, della mia età più matura.

Cammino per strada con le mani nascoste nel mio fedele cappotto grigio e mi sembra di essere una figura in bianco e nero rispetto a quelle colorate e variegate che mi girano intorno e che fanno da contrasto al paesaggio asettico e malinconico di questo inizio autunno.

Dove sto andando? Per fortuna c’è Diomira che me lo ricorda con un sms squillante come le campane di una chiesa: “ Sei andato dalla fioraia? Ricordati di prendere i gladioli bianchi che tanto piacevano alla mia povera mamma.”  Rispondo con un ok e mi reco da donna Luisa che anche quest’anno ha addobbato la bancarella con tanti fiori sparsi che quasi faccio fatica a vederla mentre se ne sta rannicchiata, piccola e minuta, sul suo sgabello.

“Buon giorno Giovanni. E la signora Diomira? Non è con lei?”
“Ha la febbre, ma niente di preoccupante. Quest’anno farò il giro da solo.”
“Poveretta! Anch'io sto poco bene, ma cosa vuole? In questi giorni c’è tanto da fare che non potevo certo mancare.”

Mi racconta dei suoi acciacchi, del suo sentirsi ormai prossima a passare a miglior vita ma è un ritornello che ho già sentito tante volte che non ci faccio più caso.

Prendo il mazzo di gladioli e varco l’ingresso del viale alberato che mi conduce dopo pochi passi da mia suocera. La foto è un po’ sbiadita ma l’immagine che ne è raffigurata è bella come mia moglie, così somigliante a lei che a volte penso che non ci abbia mai lasciati, che sia sempre presente nei gesti, nelle parole, nelle espressioni austere e filiali di Diomira quando mi raccomanda, ad esempio, di non fare tardi al lavoro, di portare il cane fuori o di usare le pattine per non sporcare la casa.

 C’è un legame indissolubile con chi non è più tra noi, nel bene e nel male. E il sorriso di mia suocera sembra confermarlo con quegli occhi sornioni e beffardi come a voler dire di essere ancora presente nella nostra vita.

Giungo a te che te ne stai sotto una lapide fredda e spoglia senza nemmeno un fiore o un lumino acceso. Ti hanno lasciato solo, anche quelli che nella tua disgraziata vita ti giravano intorno per interessi personali o per tornaconto. Per loro quel legame indissolubile si è interrotto non appena hai emesso l’ultimo respiro, ma per me non è stato così.

Ho ereditato il tuo sguardo al punto da sentirmelo dentro come l’occhio di una telecamera nascosta che ha registrato ogni cosa di me, ogni respiro, ogni ansia, ogni incertezza e preoccupazione facendomi precipitare nel baratro delle occasioni perdute, delle parole non dette, dei passi incompiuti e delle strade mai percorse.

Dovrei odiarti e ti ho odiato molto, lasciarti di nuovo solo come hanno fatto gli altri con te, ma c’è qualcosa che mi trattiene ed è un maledetto indugio. Tiro dalla tasca il cero che ho acquistato da Luisa, lo accendo e lo appoggio vicino alla tua fotografia.

Il tuo sguardo si fa luminoso, intenso e splendente che sembra sorridermi per la prima volta.

E per la prima volta mi lascio andare in un pianto liberatorio senza riserve che mi fa dimenticare per un momento, eterno od effimero, di tutti i tuoi abbracci mancati.


GLI ABBRACCI MANCATI

Racconto breve
di
Vittoriano Borrelli


(Ogni riferimento a fatti o a persone reali è puramente casuale)

GIOVENTÙ DIFFICILE

Difficile è stare legati ai rimpianti
difficile è vivere come viandanti
è mettersi al centro di un'incomprensione
per poi distaccarsi da ogni illusione

In questa povertà di amore e poesia
si arriva alla realtà con molta nostalgia

Difficile è vivere questo rapporto
che hai con la gente che vedi ogni giorno
Per fare l'amore hai bisogno di un corpo
che dopo l'orgasmo conti ancora molto

Scaraventata qua in fondo alla città
chi si ricorderà di questa umanità?

E' difficile
ma fra tanto dolore che è nostro
è possibile
che ci sia un amore nascosto
Per noi

Difficile è scritto con l'inchiostro nero
sui muri di un mondo che piange davvero
Ci manca da sempre un amico paziente
che ci dia ascolto e un po’ di conforto

Difficile per noi che non viviamo più
che siamo soli e poi non ci parliamo più

E' difficile
ma fra tanto dolore che è nostro
è possibile
che ci sia un amore nascosto
Per noi


Gioventù difficile

Testo e musica
di
Vittoriano Borrelli


Tratto da “Le parole del mio tempo”

TI SPOSERÒ PER SEMPRE

E’ bello sentire il tuo respiro alle mie spalle, soprattutto d’inverno quando fa freddo e si ha bisogno di avvertire quel calore umano che è presenza e ragione di vita. Ci sono amori che sono fatti per durare per sempre, come sarebbe il nostro se solo tutto fosse possibile.

Ti avrò incontrata chissà quante volte nella mia vita disordinata, forse ci siamo persino sfiorati, amati, congiunti in una persona sola come accade quando ci si abbandona in quel piacevolissimo gioco dei sensi in cui l’uno esiste semplicemente perché c’è l’altro.

Ti avrò teso la mano e aiutata a rialzarti come hai fatto tu con me in un tempo indefinito e per questo lontano dai ricordi e dalla nostra stessa immaginazione.  Mi avrai compreso quando c’era da mandarmi via e avrò tollerato le tue disattenzioni archiviandole come piccoli peccati veniali che non lasciano strascichi.

Ti avrò inseguita come si fa con i pensieri irraggiungibili alimentando il mio rammarico per non essere riuscito ad afferrarti, ad abbracciarti e a farti sentire tutto il mio calore. E tu avrai fatto altrettanto quando sarò stato sfuggente, scontroso e mi sarò chiuso a riccio per non far trapelare di me nemmeno il respiro.

Ci saremo scambiati promesse e giurato eterna fedeltà in quel giorno di primavera in cui i nostri occhi si sono incrociati senza più distaccarsi perché tutto intorno a noi sembrava non contare niente. Sarà stato allora che ciascuno di noi avrà voluto suggellare l’incantesimo di un momento con queste parole solenni e rassicuranti: Ti sposerò perché sia per sempre.

E sarà stato così per sempre, perché il tempo dell’amore non si misura con il tempo del vivere ma con l’intensità dei sentimenti che possono sopravvivere anche quando tutto passa e si distrugge.

Questo è il destino degli amori che nascono per durare per sempre.

Come sarebbe il nostro.

Se solo fosse possibile.

PENSIERI DA OSCAR

E’ uno dei miei scrittori preferiti a cui ho dedicato un capitolo del mio nuovo romanzo in corso di programmazione. Non solo il genio del celebre ritratto di Dorian Gray ma anche l’autore di pregiatissimi aforismi, perle di saggezza e di acuta ironia che lo hanno contraddistinto da tutti gli altri rendendolo unico ed inimitabile.

Quando si parla di Oscar Wilde, si parla di genio e sregolatezza, di intuizione e tecnica sopraffina del pensiero. E i suoi pensieri sono patrimonio eccellente di una memoria storica in cui risiedono le analisi più piccanti del piacere e dell’insofferenza del vivere.

Ecco alcuni dei suoi innumerevoli aforismi:

Ho dei gusti semplicissimi, mi accontento del meglio.

Il Paradiso lo preferisco per il clima, l’Inferno per la compagnia.

La bigamia è avere una moglie di troppo. La monogamia lo stesso.

Un amico è qualcuno che ti conosce molto bene e, nonostante questo, continua a frequentarti.

L’ottimista pensa che questo sia il migliore dei mondi possibili. Il pessimista sa che è vero.

La moda è una forma di bruttezza così intollerabile che siamo costretti a cambiarla ogni sei mesi.

Il vero mistero del mondo è ciò che si vede, non l’invisibile.

E’meglio essere belli che essere buoni. Però è meglio essere buoni che essere brutti.

L’indifferenza è la vendetta che i mondo si prende sui mediocri.

Non esiste il marito ideale. Il marito ideale rimane celebre.

L’uomo ha abbastanza memoria per ricordare centinaia di aneddoti, ma non ha abbastanza memoria per ricordare a chi li ha già raccontati.

La via dei paradossi è la via della verità. Per mettere la realtà alla prova bisogna farla camminare su una corda tesa e la si può giudicare solo quando è diventata acrobatica.

I giornalisti si scusano sempre con noi in privato per quello che hanno scritto contro di noi in pubblico.

Londra abbonda troppo di nebbie e di gente seria. Se siano le nebbie che producono la gente seria o se sia la gente seria che produce le nebbie non saprei dire.

Una sigaretta è il prototipo perfetto di un perfetto piacere. E’ squisita e lascia insoddisfatti. Che cosa si può volere di più?

A volte è meglio tacere e sembrare stupidi che aprir bocca e togliere ogni dubbio.

L’esperienza è il tipo di insegnante più difficile. Prima ti fa l’esame, poi ti spiega la lezione.

La felicità non è avere quello che si desidera, ma desiderare quello che si ha.

Il peccato è l’unica nota di colore che sussiste nella vita moderna.

POSIZIONI COMPROMETTENTI

Judith Singer, casalinga disperata, è alle prese con un delitto commesso nella tranquilla cittadina di Shorehaven, dove vive con il marito Bob, avvocato di successo, e due figli piccoli. Il dentista del paese, Bruce Fleckstein, viene trovato morto nel suo studio medico con la testa fracassata. La notizia diffusa alla televisione con un comunicato scarno, spinge Judith ad appassionarsi al caso scoprendo scandali e altarini che sconvolgeranno non poco la piccola comunità nordamericana.

Pubblicato nel 1978, questo giallo gradevole e ben scritto da Susan Isaacs ebbe all’epoca un discreto successo, tanto da essere riprodotto qualche anno più tardi (1985) in un film con attori di spicco quali una splendida Susan Sarandon, nei panni della protagonista Judith Singer, Joe Mantenga, in quelli del defunto Bruce Fleckstein, ed Edward Hermann nel ruolo del marito Bob.

Il film fu un mezzo flop a dispetto del libro che invece è scorrevole e a tratti anche avvincente, a dimostrazione del fatto che quasi mai sussiste equazione perfetta tra riproduzione cinematografica e opera letteraria alla quale è ispirata.

Forse colpisce la pluralità dei temi trattati, come la frustrazione di Judith per il suo ruolo di casalinga insoddisfatta che la porterà ad allontanarsi dal marito per assumere le vesti di detective in incognito alla ricerca della soluzione del caso.  Lo farà assieme al tenente Sharpe con il quale vivrà una breve e intensa relazione affettiva facendole rimpiangere una vita di rinunce e di asservimento ad una posizione sociale tranquilla ma monotona e senza sussulti.

Le capacità investigative di Judith metteranno sottosopra la soporifera cittadina di Shorehaven che si spoglierà delle sue sembianze puritane per mostrare quelle più piccanti e trasgressive derivate da relazioni a luci rosse. Judith infatti scoprirà che quasi tutte le sue amiche hanno avuto una storia con l’affascinante Bruce il quale amava fotografarle in posizioni compromettenti.

Saranno proprio queste foto la chiave per la soluzione del delitto e, a cascata, della crisi coniugale tra Judith e suo marito Bob che li porterà a rivedere le proprie aspettative nel menage familiare.

(Se vuoi leggere il finale della storia clicca qui)

L’AUTRICE: Susan Isaacs, americana di Brooklyn (New York), oggi 73 anni, è scrittrice e sceneggiatrice. Tra le opere da lei scritte di cui ha curato la sceneggiatura si citano oltre a Posizioni compromettenti (1985), Hello Again (1987),  Dopo tutti questi anni (2013). Nel 2015 il suo ultimo romanzo Un suggerimento di stranezza.

GIUDIZIO: Meno rigido rispetto a certi detrattori della carta stampata. Il libro è ben scritto, curato nei particolari, scorrevolissimo e a tratti ironico e riflessivo. La tecnica narrativa è efficace come pure i dialoghi ben articolati e mai banali. Peccato che la fiction cinematografica non ha retto il confronto con un’opera tutt’altro che mediocre.


LA CURA DI TE

Non c’è amore autentico e duraturo che non passi prima al setaccio della nostra anima ripulendola come si fa con le cose impolverate dal tempo, specie se questo tempo è stato mal vissuto per colpa di cattivi ricordi che stentano ad essere dimenticati.

C’è un sano egoismo che è la cura di te, la voglia di prendersi per mano, abbracciarsi e coccolarsi fino a commuoversi per essere stato per troppo tempo trascurato, messo in un angolo e oscurato dalle cose che si credevano prioritarie e giuste. Quello con noi stessi è il primo amore che dovrebbe nascere, che dovrebbe fare da apripista alle emozioni e ai sentimenti verso gli altri.

Chi non si ama o non si ama abbastanza è come un’anima vagante che non si sente mai al sicuro nel proprio territorio e migra in altri lidi senza mai trovare la propria identità. Ed è un vagabondaggio che rischia di essere inarrestabile se non si colmano le distanze e ci si riconcilia con se stessi.

Trasbordano tra bastimenti che navigano in mari sconosciuti le solitudini del mondo in cerca dell’approdo più sicuro, di questi tempi se ne vedono tanti all’orizzonte ma molti sprofondano prima ancora di partire perché hanno già toccato il fondo poco lontano dalle loro isole.

C’è bisogno di “umanizzare” l’amore, in primo luogo verso se stessi esplorando dentro e fuori ogni aspetto del proprio corpo come un’operazione chirurgica minuziosa e terapeutica che mira a ritrovare, dopo tante cose da scartare, quel benessere interiore sicuro e confortante.

Tutto però diventa complicato se non si hanno gli stimoli giusti, se dall'esterno non arrivano gli impulsi più appropriati per agevolare questo processo intimo e personale che in realtà è meno individuale di quanto possa apparire: se si sta bene con se stessi è lo stesso contesto in cui si vive a beneficiarne e a trarne vantaggi per migliorare a ruota il mondo delle relazioni.
 
La cura di te dovrebbe essere una materia scolastica per insegnare fin da bambini che l’igiene personale non consiste soltanto nella pulizia fisica, puntuale e giornaliera, ma anche se non soprattutto quella dello spirito per preservare e custodire nel tempo le cose migliori di te.