IO E FRANCESCO


Si può avere per amico un maschietto ed essere trattata allo stesso modo, anzi peggio? Con Francesco, compagno d’infanzia, delle elementari, delle scuole medie e infine del liceo, è accaduto proprio questo: un’amicizia di lunga data, intima e necessaria, che ha contrassegnato buona parte della mia vita fino a condizionarla, orientarla, plasmarla come si fa con un oggetto di cui si vuole modellare a proprio piacimento la forma, lo spessore, la sostanza.

E’ cominciata così, fin dai primi vagiti, gattonate nel corridoio di casa, lunghe corse sui tricicli e risate a non finire nei pomeriggi svogliati in cui passavamo gran parte del tempo insieme. I nostri genitori, vicini di casa, si frequentavano praticamente tutti i giorni e per un certo periodo io e Checco, il mio Francesco, ci siamo sentiti come un fratello e una sorella, figli della stessa famiglia.

Devo dire che fino a quando eravamo bambini questa fratellanza mi stava anche bene. Giocavamo agli indiani, ingaggiavamo lotte estenuanti per misurare la nostra forza, mi sono persino travestita da Zorro per sfidarlo a colpi di spada ma era un modo per fargli piacere, per assecondarlo, lasciarlo vincere qualche volta per compiacermi dei suoi sollazzi.

Invece che preferire le bambole, facevo collezione di soldatini e poi con Francesco passavo ore intere a giocare alla guerra, a inventarmi strategie per abbattere il nemico, a gridare a squarciagola quando vincevo e a godere quando vedevo la faccia del mio compagno mogia e affranta.

Questi giochi d’infanzia, ma soprattutto la mia amicizia con Francesco mi aveva resa un vero e proprio maschiaccio e forse è stato per questo che negli anni successivi il mio amico ha continuato a trattarmi come se fossi davvero come lui, cioè un maschio di sana pianta nonostante nel frattempo stessi diventando una donna con esigenze che sentivo diverse ma che ho dovuto reprimere per stare, come dire?, al suo livello e non deluderlo.

Crescendo, durante l’adolescenza, mi sono sorbita le confidenze di Francesco che mi raccontava di questa o di quella tipa tutta tette e con un fisico da mozzafiato che gli faceva il filo. A volte scendeva in particolari anche imbarazzanti di cui facevo finta di niente per non spezzare quella grande complicità che si era creata tra noi. Eravamo due facce della stessa medaglia, due monellacci che si divertivano a prendere in giro la gente, a correre nei parchi e nei sentieri accidentati con le nostre mountain bike che avevano preso il posto dei nostri tricicli.

Dai racconti piccanti, parolacce proferite senza riserve, Francesco era passato del tutto spontaneamente alla gestualità colorita che non disdegnava di mostrare: una volta ad un fast food, complice anche qualche birra di troppo, si era complimentato per una mia battuta con una sonora pacca sulla spalla che mi aveva fatto andare di traverso la bibita che stavo sorbendo dalla cannuccia.

Insomma due amici per la pelle, un corpo e un’anima come direbbe una famosa canzone degli anni ’70, osmosi di pensieri, stati d’animo, di emozioni che provavamo anche quando eravamo distanti come succede per certe telepatie sensoriali, certi legami invisibili che persistono e sembrano durare in eterno.

Ma tutto questo non mi bastava più. E’ successo quando la mia femminilità, fino a quel momento repressa come una guaina che si tiene ben stretta per comprimere il grasso cutaneo, ha preso il sopravvento e ho cominciato a guardare Francesco con occhi diversi. E’ stato questo sguardo, tipico di una donna che smette di essere una bambina, a far mutare le mie aspettative verso un’amicizia che si stava trasformando, almeno per me, in un amore forte e inconsolabile. Ma non sapevo che da lì a poco avrei decretato la fine della nostra amicizia.

Francesco continuava a trattarmi come un amico, un compagno di giochi e di avventura senza minimamente intuire che stessi cambiando e volessi che anche lui mi guardasse con i miei stessi occhi. Nulla da fare, non mi vedeva che come un maschiaccio grazie anche al mio fisico che, a dispetto della mia femminilità, presentava connotati di virilità: longilineo, un po’ tozzo, seni piatti come una sogliola e ciuffi di peluria sparsi qua e là su di un tessuto cutaneo grezzo e indelicato.

Un giorno ho voluto fare un esperimento. Mi sono detta: se per Francesco non sono altro che un’amica vorrà dire che sarò io ad essere esattamente come lui mi vede, un uomo anche nell’aspetto e nelle fattezze. E’ stato così che sono diventata… Guido, uno sportivo, e precisamente un giocatore di tennis che ha preso a frequentare lo stesso club di Francesco.

La trasformazione, merito anche del mio fisico, è stata semplice: capelli cortissimi, occhiali da sole, peluria sul mento a mo’ di barbetta e un cappellino con una visiera inclinata verso gli occhi giusto per evitare di essere riconosciuta. Ci crederete? Francesco non si è accorto di nulla e ha voluto sfidarmi in lunghe partite di tennis in cui ne uscivo quasi sempre vincitrice. Per lui ero Guido e, fatto ancor più strano, non riusciva ad arrabbiarsi per le sconfitte come invece accadeva con me nei giochi d’infanzia e dell’adolescenza.

Ora Francesco mi guardava con occhi diversi ma questo anziché lusingarmi mi procurava turbamento, instabilità emotiva e soprattutto il sospetto che non fossi per lui quello che io desideravo, ovvero Vania, la sua amica del cuore che nel frattempo si era trasformata per amore e che sperava, quasi per miracolo, di essere riconosciuta e amata allo stesso modo.

Non è andata così. Per Francesco ero Guido, un amico speciale, direi fin troppo. Una volta, dopo l’ennesima partita a tennis, mi ha seguita negli spogliatoi e con una scusa ha cercato di baciarmi. Sono scappata via terrorizzata perché sapevo che non era me che voleva ma la persona in cui mi ero trasformata.

Io ero diventato Francesco.
Francesco era diventato me.

IO E FRANCESCO

Racconto di
Vittoriano Borrelli

(Ogni riferimento a fatti o a persone reali è puramente casuale)

Tutti i diritti riservati

GLI OCCHI DI MIA MADRE


Erano grandi da specchiarmi dentro e trovarci tutto l’amore possibile, sentinelle attente sui miei passi incerti verso la vita. Lacrimanti o gioiosi, parlavano più di quanto le parole, semplici e rudimentali, non riuscissero ad esprimere.  Erano belli gli occhi di mia madre.

Se c’è uno sguardo che ci portiamo dentro fino alla fine dei nostri giorni è quello dei nostri genitori e più ancora di chi ci ha messo al mondo, perché quel cordone ombelicale non si spezza mai, nemmeno quando viene reciso al momento del parto.

Sentiamo questo sguardo anche quando non lo vediamo, a volte ci condiziona, altre ci conforta e ci orienta come una bussola senza la quale ci sentiremmo smarriti, indifferentemente adulti o bambini perché non si smette mai di essere gli uni o gli altri a dispetto dell’età che avanza.

Gli occhi di mia madre sono gli occhi del mondo che ci costruiamo e che ci guarda come un Grande Fratello, perché nessun segreto può essere tenuto nascosto se a captarlo sono gli occhi più importanti del nostro tempo.

Gli occhi di mia madre sono gli occhi dell’amore, voluto, ambìto, desiderato, come quando si ha sete e si cerca acqua dalla sorgente più pura per rigenerarsi. Sono gli occhi che restano vivi nel nostro ricordo, l’immagine che non si cancella e che ci portiamo dentro di noi per sempre.

Gli occhi di mia madre sono gli occhi che ci osservano in silenzio qualunque sia la direzione che imbocchiamo, il luogo in cui ci troviamo, gli affetti o le solitudini da cui siamo circondati. Sono presenze che vanno oltre la percezione delle distanze, il tempo che passa e che cavalca le nostre rughe, il nostro corpo che cambia e che s’inclina per la stanchezza.

Quali parole, all'indomani della festa della mamma, si possono dedicare alla donna più importante della nostra vita? Tante o nessuna perché non c’è parola che possa esprimere veramente tutto l’amore che serbiamo per lei, quell'amore di cui ci nutriamo durante il nostro cammino.

Solo gli occhi, quelli che s’incrociano e si toccano nell’anima possono farlo.

Gli occhi di tutte le madri.

Gli occhi belli di mia madre.


Auguri a tutte le mamme del mondo (e oltre)!




L’INDIFFERENTE


Sono refrattario a qualsiasi dolore, guardo il mondo dall'alto e non mi volto mai indietro. Per la gente sono un mostro insensibile e senza compassione, un concentrato del Male assoluto racchiuso in un essere pensante abietto ed implacabile. Un giudizio tutt'altro che onorevole che tuttavia mi lusinga e mi procura maggiore forza e capacità di propugnare sofferenza ed infelicità.

Da quando sono così? Dai tempi della scuola, esattamente da quando ho studiato che due corpi opposti e di eguale intensità si annullano a vicenda creando un punto di equilibrio fermo ed assoluto. E’ stato allora che ho amato il mio professore di Fisica, un vecchio decadente che è diventato il mio alter ego segnando definitivamente la mia esistenza.

Ho messo in pratica questo principio con dedizione quasi maniacale: ad un’offesa, un dolore, un fatto spiacevole, ho reagito allo stesso modo, ovvero con una contro-offesa, un altro dolore della stessa specie, un’azione uguale e contraria come avveniva con la legge del taglione all’epoca dei Romani. Non mi sono emozionato più e non ho più sofferto, non ho più gioito ma nemmeno pianto. E’ stato così che sono diventato agli occhi degli altri e di me stesso un essere del tutto indifferente.

Ho un’azienda tessile che si occupa di camicie, maglierie e cravatte di seta pura. Sto attento all’andamento della produzione, ai costi e ai ricavi come il più puntiglioso dei ragionieri. Non ammetto nessuna perdita e se all’orizzonte intravedo un possibile disavanzo mi dedico alla mia attività preferita, quella che mi procura sollazzo e sadica soddisfazione: il licenziamento.

I costi del personale incidono non poco nella mia azienda e quando ne ho l’occasione non perdo tempo in inutili piani di stabilizzazione, prestiti bancari a tassi altissimi per mantenere la stessa forza lavoro col rischio di chiudere i battenti e fallire miserevolmente. Guardo con fiducia all’Oriente dove la manodopera è molto più competitiva e come un sarto accorto e meticoloso comincio a tagliare la “stoffa” superflua.

Così convoco nel mio ufficio le teste umane che sono diventate per me inutili e dispendiose, calcolo la buonuscita in misura proporzionale alle perdite stimate e, come la teoria dei corpi respingenti, ricavo l’attivo con lo stesso ammontare.

E’ il turno di Bonifacia, una camiciaia che ho assunto due anni fa, bravina ma un po’ lenta per il target di produzione che mi sono prefissato. Si siede davanti a me pallida ed intimorita, come una donnetta delle pulizie che sa di essere rimproverata per qualche magagna nel suo lavoro.

Bonifacia Tagliavento, è questo il suo nome, vero?
Sì dottor Fermi, perché mi ha fatta chiamare? Ho fatto qualcosa che non va?
Stia tranquilla e si rilassi. Vuole un caffè? Un cappuccino? Una brioche?

Bonifacia fa cenno di no con la testa, un atteggiamento che mi ricorda i terroni di qualche paesino sperduto del Sud Italia e questo m’incoraggia nel discorsetto che sto per fare. Mi alzo e comincio a girare intorno alla scrivania mentre la malcapitata mi segue preoccupata con lo sguardo. Ripeto la solita tiritera dell’azienda in crisi e dei sacrifici che, mio malgrado, sono costretto a chiedere per evitare il fallimento. Annuncio infine la mia decisione di licenziarla per il bene dell’azienda avendo cura di modulare il tono della mia voce come se fossi profondamente dispiaciuto.

Dottor Fermi, la prego, non mi licenzi. Non ho nessuno al mondo e se perdo questo lavoro sono rovinata.”
Purtroppo non posso fare altro. E’ una decisione dolorosa ma inevitabile.”
La prego …”

Bonifacia mi prende la mano e mi guarda con occhi supplichevoli. Penso che tra un po’me la bacerà come se fossi un prete o un uomo di chiesa a cui implorare indulgenza e benevolenza.

Signorina Tagliavento, non faccia così …”
Sono disposta a tutto pur di rimanere in questa azienda.” Con il pollice mi strofina delicatamente la mano e ripete: “A tutto, capisce?

Mi piacciono le donne formose e in carne, forse per un atavico ricordo che mi vede me bambino tra le braccia possenti di mia madre nell’atto di succhiare il latte dalle sue floride mammelle. Bonifacia è mingherlina e senza forme come un encefalogramma piatto, non è il mio tipo.

Signorina Tagliavento, la prego, si ricomponga.”
Ma proprio non le piaccio?

Ci manca pure che adesso si spogli e mi salti addosso, penso preoccupato.

E’ molto carina ma non so come dirglielo. Diciamo che... ho altre preferenze sessuali.”

Fandonia bella e buona ma mi è servita per respingere le avances della donna in maniera definitiva e senza appello. Per Bonifacia è stato come un albero che si abbatte nella tempesta. L’ho vista alzarsi e dirigersi verso la porta, mogia e rassegnata come un animale che si rintana senza aver afferrato la sua preda.

Esco dall'ufficio e vado al parcheggio dove mi attende la mia moto, bella e lucida come uno specchio. Impugno il manubrio e percorro a gran velocità le strade della città con il vento in faccia, caldo e delicato. A cosa penso? A niente, ho rimosso tutto dalla mente: la disperazione di Bonifacia, il mio finto dispiacere, tutto si è annullato con un’azione uguale e contraria.

Imbocco la superstrada e spingo con l’acceleratore. 180, 200, 220, provo a sfidare il vento e penso che non mi succederà niente se riesco a mantenere in equilibrio il rapporto tra la forza eolica e la velocità della mia moto. Tutto si annullerà come sempre, penso convinto, ma stavolta non ho fatto i conti con i particolari.

Ad una curva perdo il controllo e sono scaraventato sul guard rail di una piazzola di emergenza con la moto che vedo frantumarsi come un giocattolo a poche centinaia di metri da me. L’impatto è violentissimo, sento che sto per perdere i sensi.

Qualcuno mi aiuterà”, penso tra me prima di chiudere gli occhi. Sull’asfalto le macchine sfilano a tutta velocità e nessuno si ferma. Come un corteo, proseguono nella loro corsa fin dove il viaggio le porterà.

Impietose, fuggevoli, indifferenti.

L’INDIFFERENTE

Racconto breve
di
Vittoriano Borrelli

(I personaggi e i fatti narrati sono puramente inventati)

IL DIVANO


Se potessi parlare chissà quante storie avresti da raccontare. Tu che troneggi in tutte le case del mondo, sornione e accogliente come una sirena con il suo marinaio. Morbido e imbottito quanto basta per sprofondarci dentro e inebriarsi di tanta goduria che sa di riscatto dopo una giornata stanca e grigia.

Quante separazioni avrai sancito con il tuo inconsapevole richiamo alla pigrizia, alla conformazione delle cose che non cambiano, che restano uguali a se stesse come il decorso del tempo che ricomincia daccapo allo scoccare di un nuovo giorno. Lancette dell’orologio che ripercorrono lo stesso giro di vite, un’agenda sulla quale sono annotati i soliti appuntamenti che quasi ci si affeziona.

E quanti amori fugaci e furtivi avrai favorito nel silenzio della notte o nei pomeriggi afosi di un’estate di città. Preso d’assalto con movimenti acrobatici e spinte più o meno audaci, sarai stato messo a dura prova e avrai atteso l’ultimo sospiro di smaniosi amanti come un viatico propizio e liberatorio.

La quiete dopo la tempesta, la pace dopo una battaglia prendendosi a cuscinate o lanciandosi accuse e risentimenti. E poi smetterla di colpo per dare voce al silenzio, per firmare una tregua o un armistizio fino alla prossima lotta con le parole che voleranno dalla finestra e giungeranno nei cortili e nelle strade senza che nessuno le ascolterà.

Non manca occasione per cercarti, spiarti con lo sguardo e immaginare il momento in cui saremo una cosa sola, l’uno e l’altro complementari, l’uno e l’altro necessari.

E quando giunge quel momento tanto atteso è così bello rilassarsi tra le tue braccia, sentire la tua pelle lucida o vellutata, saggiare la tua morbidezza come una carezza che sa di beatitudine e di rinnovato torpore mentre fuori il mondo grida e si scatena come fa la pioggia sui tetti delle case.

Che importa se fuori piove, basta chiudere gli occhi e non pensare, mettersi al riparo da tutto e da tutti comodamente sdraiato o accovacciato sul tuo giaciglio.

E provare finalmente a sognare.

SPAM SPAM


Sono i nuovi mostri della messaggistica multimediale, da evitare come la peste non appena si palesano con foto ammiccanti, annunci che promettono cambiamenti di vita in un solo clic, prospettive improbabili di paradisi che non esistono. Pronti ad insinuarsi nella nostra privacy che a volte si fa fatica a scansarli, tanto sono perfetti nella loro imperfezione.

Si tratta degli spam declinati a virus o a messaggi falsi e tendenziosi con finalità molteplici: dalla posta indesiderata a scopo commerciale, che generalmente procura solo fastidio e appesantimento della nostra casella elettronica, agli annunci-killer che hanno mire ben peggiori come carpire informazioni personali per accedere, ad esempio, alle nostre carte di credito o a conti correnti, o  bloccare con link micidiali le nostre applicazioni.

Bastimenti “postali” che arrivano a iosa sui nostri profili web, contro i quali s’ingaggia una sorta di battaglia navale per tentare di affondarli a colpi di fucile. “Bang”, il suono onomatopeico dello sparo qui sarebbe nella versione (peggiore) di “Spam”.

Ci vuole attenzione e lucidità continua, basta la minima distrazione che lo spam-killer si propaga nei nostri effetti personali distruggendo ogni cosa che incontra sul suo cammino. L’apertura accidentale di un file sospetto può quindi costare caro, in barba alle nostre intimità nascoste, ai segreti e agli altarini che ci premuniamo di proteggere pur volendo essere cittadini del mondo.

Questa invasione indesiderata avviene spesso in maniera subdola e senza che ce ne accorgiamo. Succede ad esempio quando navighiamo sui vari siti web e diamo il nostro consenso in maniera frettolosa e disattenta all’informativa sui cookie che appare generalmente sulla barra in alto alla pagina visitata.  In realtà questo documento contiene in sé una serie di autorizzazioni, fra le quali quella di utilizzare e trasferire ad altri i nostri dati personali, che sono attratte in automatico dall’icona “Ok” se non vengono espressamente disattivate.

Così la nostra privacy viene servita su un piatto d’argento a chiunque, compresi i malintenzionati pronti a seminare sfaceli e misfatti con conseguenze spiacevoli e non facilmente rimediabili. Il tutto alla vigilia del nuovo regolamento europeo sulla privacy (n. 679/2016) che dal 24 maggio prossimo entrerà in vigore in tutti gli Stati membri con regole più ferree sulla protezione dei dati e sul diritto all’oblio.

Basterà? Forse sì, forse no. L’interfaccia con l’infinito mondo del web presenta tante di quelle variabili che nemmeno le misure più protettive potranno arginare efficacemente le insidie più o meno percettibili e nascoste.

Forse è il prezzo da pagare, il rischio più o meno calcolato, per essere (o voler essere) protagonisti insieme agli altri di una platea virtuale che non conosce limiti in fatto di partecipazione e presenza libera e incondizionata. Quasi un obbligo di visibilità per non restare reclusi e in disparte mentre il mondo si apre a se stesso come una grande casa di vetro.

E’ il prezzo da pagare per essere cittadini del mondo.

DUE SOLITUDINI


Non si è mai soli veramente. C’è sempre una parte di noi che ci fa compagnia in ogni momento della giornata, a volte silente quando i pensieri sono altrove, altre volte rumorosa e incessante come un martello pneumatico che scava nella profondità della nostra anima.

E’ un rapporto che s'instaura con noi stessi fin da quando prendiamo vita nel ventre materno e si sviluppa negli anni, invecchia e muore con noi.

Due solitudini nell'oceano della vita che si appartano per proteggersi, che qualche volta litigano e si fanno dispetti come ...

pagliacci


E ci ritroviamo eterni alleati
di una stessa idea di una stessa odissea
Pagliacci senz’anima
senza sentimento
Pagliacci nel vento.

Ma che odore strano ha il tuo corpo incolore
Profumo di sesso fuori o dentro è lo stesso
Amanti dispersi
per caso ritrovati
Amanti diversi

Tu od io ma che confusione
Tu od io ma che coesione
Pensieri bugiardi troppo vuoti gli sguardi
E si tira avanti senza troppi riguardi

Io mi tormento del mio assurdo momento
e tu stai a guardarmi
Peggio ancora a scrutarmi
Col cuore di ghiaccio sembri proprio un pagliaccio
e non ti piaccio

Quanta ipocrisia c’è nella vita mia
Tra l’adulazione e l’immaginazione
c’è di mezzo un pagliaccio fatto solo di ghiaccio
Tu od io chissà forse tutti e due

E ci ritroviamo un po’soli e distratti
Un po’ consumati
Un po’ tristi e sbagliati
Pagliacci senz’anima
senza sentimento
Pagliacci nel vento.

Tu ed io sempre a litigare
Tu ed io sempre a farci del male
Forse posso salvarmi dalla tua indifferenza
Forse posso sottrarmi alla tua impertinenza

Io mi tormento del mio assurdo momento
e tu stai a guardarmi
Peggio ancora a scrutarmi
Col cuore di ghiaccio sembri proprio un pagliaccio
e non ti piaccio

Quanta ipocrisia c’è nella vita mia
Tra l’adulazione e l’immaginazione
c’è di mezzo un pagliaccio fatto solo di ghiaccio
Tu od io chissà forse tutti e due

(IL TESTO DI “PAGLIACCI” E’ TRATTO DA “LE PAROLE DEL MIO TEMPO”- V. Borrelli)

LA CORTE SI RITIRA


I tuoi occhi sono come due stelle che brillano nel più bel firmamento dell’universo. Se stanotte ti sognerò non vorrei più risvegliarmi. Solo sfiorarti mi procura un brivido su tutta la pelle ed è un’emozione che circola dalla testa ai piedi fino ad arrivare al cuore. E dal cuore ricominciare…

Queste declamazioni di un possibile corteggiamento, un tempo bene accette, oggi sono viste dai più anacronistiche ed improbabili. In un tempo dove ogni secondo è prezioso tutto si consuma velocemente e il consenso strappato con un cenno d’intesa si trasforma ben presto in una crisi di rigetto all'alba del giorno dopo. E’ come trovarsi in un fast food e sentirsi già sazi dopo appena quindici minuti.

Perché perdersi in parole ampollose, estenuanti pedinamenti e complicate tattiche di approccio quando tutto si può avere con facilità e in un batter d’occhio? L’agire precede il pensiero e a nulla valgono proclami che possono distogliere la mente in luogo di più agevoli piaceri.

Queste nuove e più spedite relazioni amorose presuppongono pur sempre un aspetto fisico gradevole; per le persone poco piacenti la questione rimane difficile poiché non basterebbero quattro parole sdolcinate (e forse nemmeno un enciclopedia) per accedere a facili conquiste.

Il linguaggio dei sensi e della scrittura oggi si sono notevolmente abbreviati, basta sbirciare qualche sms che circola tra gli adolescenti per comprenderlo:

tvb (ti voglio bene)
tat (ti amo tanto)
mwa (bacio)
n8 (notte)
xoxo (baci e abbracci)
e via dicendo.

Insomma bisognerebbe girare con un traduttore tascabile per stare al passo coi tempi e anche i meno giovani si stanno ormai attrezzando. Un tempo si diceva che una telefonata allunga la vita, oggi si direbbe che un messaggio accorcia le distanze ma i sentimenti appaiono lontani e slegati dalle parole, pur concise, con cui si manifestano.

Oggi si esce dall'infanzia e si diventa già madri, si smette di giocare troppo presto, si bruciano le tappe per arrivare chissà dove perdendo per strada il gusto e il senso dell’età.

E dalle macchine per noi
i complimenti del playboy
ma non li sentiamo più
se c’è chi non ce li fa più …

Così cantava Fiorella Mannoia nella celebre “Quello che le donne non dicono” del 1987. Sono passati oltre trent’anni e già allora il cambiamento si stava radicando nelle relazioni affettive. Sarà stato l’allineamento dei ruoli ma una parità che non riconosce le (buone) differenze genera conflitti e tensioni. Le coppie scoppiano quasi subito e  così si moltiplicano gli avvicendamenti.

Accade quindi che in questo scenario la Corte si ritira di buon grado ma non per deliberare, perché il verdetto è già scritto nelle storie di oggi (e forse di domani).


Gesù di Nazareth


Tra le tante riproduzioni cinematografiche e televisive sulla storia di Cristo, quella trasmessa dalla RAI nel 1977 fu una delle più riuscite. Con un cast mondiale di primissimo livello, quel Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli ottenne un successo strepitoso con una media di spettatori di oltre ventisei milioni, risultato che nel pluralismo televisivo di oggi sarebbe del tutto improponibile.

Particolarmente azzeccata fu la scelta degli attori, a cominciare da Robert Powell così  straordinariamente somigliante al Messia almeno secondo l’immaginario collettivo, dato che le fattezze del Redentore non sono descritte in nessuno dei testi biblici. Per l’attore inglese questa immedesimazione così perfetta e senza sbavature incise non poco sulla sua carriera che non fu, in seguito, costellata dello stesso successo.

Ma altri personaggi di grido hanno reso questo Kolossal un prodotto di qualità assoluta, come Peter Ustinov nei panni di Erode il Grande, Olivia Hussey in quelli di Maria, Laurence Olivier nel ruolo di Nicodemo e Rod Steiger nelle vesti di Pilato. Nel cast anche attori italiani come la straordinaria Valentina Cortese (Erodiade), Claudia Cardinale (l’adultera) e Renato Rascel (il cieco).

Tante sono state le scene toccanti di questa straordinaria storia biblica, come quella del battesimo di Gesù sul fiume Giordano in cui Giovanni Battista si rivolge al Messia con queste parole: Sono io che dovrei essere battezzato da te e tu vieni da me? O la scena della sinagoga di Nazareth in cui Gesù, al termine della funzione, rivela ai fedeli: Oggi, nelle vostre orecchie, le scritture si sono compiute.

L’annuncio di essere il figlio di Dio susciterà la reazione rabbiosa e diffidente dei presenti ai quali Gesù risponderà:  nemo propheta in patria (nessuno è profeta nella sua patria).

O, ancora, il racconto della parabola del figliol prodigo nella casa dell’esattore Matteo che per questo si convertirà divenendo uno dei suoi più fedeli apostoli: Mio figlio era morto ed è tornato alla vita. Tuo fratello era perduto e l’ho ritrovato. Era morto e ora vive.

Altrettanto commoventi le scene dei miracoli di Gesù, come la guarigione del lebbroso (E’ più facile perdonare i peccati o dire a quest’uomo alzati e cammina?), la liberazione dell’ossesso da Satana (“Esci spirito impuro da quest’uomo”) o la resurrezione di Lazzaro (“Lazzaro, vieni fuori!”).

E che dire delle predicazioni di Cristo delle quali si ricordano “I nemici dell’uomo saranno i membri della stessa famiglia.” – “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio.” – “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei.” (Episodio dell’adultera).

E quella pietra, a distanza di oltre duemila anni è ancora lì.

Tutte rappresentazioni che nel film di Zeffirelli sono ben inscenate grazie anche alla grandezza degli interpreti, alle atmosfere suggestive che hanno accompagnato  le vicende narrate regalando emozione e commozione fino alla scena finale in cui Gesù, dopo la resurrezione, appare agli apostoli con queste parole:

Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo.

Fino alla fine del tempo.


A tutti gli amici e visitatori del blog i miei auguri di Buona Pasqua.


LA PAROLA DI QUESTA SERA


In un mondo artato e velato come quello della televisione e dello spettacolo, Fabrizio Frizzi si ricorderà come l’ultimo anti-divo, l’uomo garbato e generoso che rimarrà per sempre nel cuore di milioni di ammiratori, persone comuni e non, che lo hanno profondamente amato ed apprezzato.

Scompare all’età di sessant’anni dopo un ictus che lo aveva colpito il 23 ottobre 2017, l’amico di tutti, persona perbene, corretta e gentile, qualità che ha saputo coniugare con grande professionalità e luminosi sorrisi. Ci mancherà e mancherà ad un pubblico variegato e trasversale perché Fabrizio è riuscito a farsi amare in maniera spontanea e senza riserve coinvolgendo tutte le generazioni che lo hanno seguito con passione, simpatia ed affetto.

La notizia appresa all’alba di una notte fredda di primavera ha colpito e commosso tutti, a dimostrazione di quanto fosse amato e stimato soprattutto dalla persone semplici, quelle che lo seguivano ogni giorno davanti alla tv alla conduzione de “L’eredità”, il programma pre-serale di Rai uno che proprio grazie a Fabrizio ha raggiunto altissimi indici d’ascolto.

E proprio con “L’eredità” che mi piace ricordarlo emulando il gioco finale, quello della ghigliottina, che stasera recita così:

Buongiorno
Buon pomeriggio                          Ghigliottina: Buongiorno

Arlecchino
Pierrot                                           Ghigliottina: Pierrot

Animo
Platino                                           Ghigliottina: Animo

Senso
Assenso                                          Ghigliottina: Senso

Cielo
Velo                                                Ghigliottina: Velo


La parola di questa sera è: Tristezza

                                                                                                               
                                                                                                                Fabrizio Frizzi
(5 febbraio 1958 -26 marzo 2018)

PAROLE PAROLE


Quante  sono  le  parole  del  mio  tempo?  Quasi trentunomila, esattamente 30.993 quelle che compongono le centosette canzoni inserite nell'omonimo libro e le sessanta del seguito L’aquila non ritorna. 5878 è invece il numero complessivo dei versi. La media è di 185 parole e 35 versi  a canzone.

La  composizione  più  lunga è Napoli  muore (c.a. 6 minuti), quella più  breve è Nascerai  (c.a.  2,3 minuti);  quest’ultima ha anche il testo più breve (93  parole) seguito da Bella più che mai  (106 parole) e da La gioia che vivrò (110 parole).

Evanescenza si aggiudica invece il primato del testo più lungo (378 parole), seguito da Napoli muore (358 parole) e da Chi ti ha detto mai? (347 parole).

Notte annoiami è la canzone che vanta i versi più lunghi (49) seguita da E niente e dalla già citata Napoli muore, entrambe con 48 versi.

Fanalini di coda sono Non mi ricordo più di te, SalvamiUn nuovo amore e Quanto amore che si perde con 20 versi, distaccati di una sola lunghezza da La notte dei ricordiAmarezza con 21 versi.

La canzone più “vecchia” delle due raccolte è Ti amo, scritta nel febbraio del 1979; la più “giovane” è Autografo, composta agli inizi del 2014.

Amore” e “Cuore”, le parole generalmente più usate (e inflazionate) nei testi delle canzoni, qui compaiono rispettivamente per 205 e 47 volte, appena lo 0,6 e 0,15 per cento sul totale.

Un’ultima curiosità: negli ultimi anni la quantità media delle parole per ogni canzone è scesa a 120 con un calo del 35%. Come a voler significare che invecchiando o diventando più "grande" ho avuto sempre meno parole da dire!

L’ASSENZA


Gli assenti hanno sempre torto ma nel mondo interiore sono molto più presenti di quanto non lo siano nella vita reale.  C’è un cordone ombelicale tra noi e le persone che reputiamo importanti che non si spezza mai nemmeno quando pensiamo che siano uscite definitivamente dalla nostra vita.

E’ l’assenza che si fa presenza, a volte inconsolabile quando è l’effetto ultroneo di un amore spezzato, a volte ingombrante quando invece emana flussi negativi contro cui nessun antidoto sembra essere efficace. Sono assenze che derivano da presenze, ancorché sporadiche, che ci procurano molto dolore e che rappresentano una ferita aperta che non si rimargina mai.

Ci sono dunque assenze e assenze, non tutte uguali, non tutte incisive e percettibili in ciascuno di noi. Tutto dipende dalla nostra sensibilità, dalla nostra capacità di sentire, di fermarsi in superficie o di scovare nei particolari dei nostri legami con le cose e con le persone. E l’assenza è tanto più presenza quanto più queste relazioni sono controverse e destabilizzanti.

Ci si abitua all'assenza fin da bambini quando avviene il primo distacco dall'ambiente familiare per affrontare quello nuovo e sconosciuto della scuola. Una finestra sul mondo che si apre o che si tiene chiusa a seconda di come si è stati educati o accompagnati in questo passaggio. Ed è un’assenza che si fa fatica a colmare quando la presenza che l’ha preceduta si è rivelata di pessima qualità.

Si convive con l’assenza anche in mezzo alla gente, fra i rumori della città o nel silenzio di una quiete opprimente che cala impetuosa al percorrere di strade deserte e abbandonate. E’ asincrona, atemporale, anaffettiva come succede tra persone che si parlano ma non comunicano, che si congiungono senza mai toccarsi nell'anima.

E’ la negazione della vita l’assenza, quando si traduce nella mancanza d’amore che dura un attimo o per sempre.

L’assenza dondola nell'aria come un batacchio di ferro
martella il mio viso martella
ne sono stordito
Corro via l’assenza m’insegue
non posso sfuggirle
le gambe si piegano cado
L’assenza non è tempo né strada
l’assenza è un ponte fra noi
più sottile di un capello più affilato di una spada
Più sottile di un capello più affilato di una spada
l’assenza è un ponte fra noi
anche quando
di fronte l’uno all’altra i nostri ginocchi si toccano.

Nazim Hikmet 
(da Mosca 1961, in Poesie d’amore, 1963, traduzione di Joyce Lussu)

NON TI CONOSCO PIU’ AMORE

Capita di svegliarsi e non riconoscere più la persona che ci sta accanto. Con Emilia, mia moglie, è stato proprio così. Una mattina l’ho vista entrare in camera da letto con la colazione sul vassoio e un sorriso cordiale che l’ho scambiata per la donna di servizio.


“Grazie, l’appoggi pure lì”, ho esordito indicando con gli occhi il comodino alla mia destra.
“Che hai Luciano? Mi dai del lei adesso?”
“Sa bene che con le cameriere preferisco mantenere le distanze.”
“Ed io sarei una cameriera? Ma sei impazzito?”
“Perché? Chi sarebbe lei?”
“Come chi sarei? Sono Emilia, tua moglie.”

Così facendo ha appoggiato il vassoio sul comodino, ha preso un cuscino e me l’ha tirato in faccia. Non ho avuto alcuna reazione e ho mantenuto lo stesso sguardo serio e glaciale con cui l’avevo vista piombare nella stanza. A quel punto Emilia ha cominciato a preoccuparsi.

“Luciano, stai bene? Se questo è uno scherzo ti avverto che è di cattivo gusto.”
“Sto bene e non sto scherzando. Non conosco nessuna Emilia e lei, Rosina, non dovrebbe prendersi queste confidenze.”

Si è avvicinata a me e mi ha messo una mano sulla fronte per controllare se avessi la febbre o stessi delirando. Anche questa volta sono stato freddo e impassibile. L’ho vista fare un passo indietro con la bocca semiaperta come a voler lanciare un urlo che non è partito.

“Ma allora davvero non ti ricordi di me?”
“Cosa dovrei ricordare?”
“Te l’ho già detto. Sono tua moglie, siamo sposati da tre anni e ci amiamo molto.”
“Io invece conosco solo una Rosina che fa la cameriera, che poi sarebbe lei.”
“Ancora con questa storia della cameriera! Non ne abbiamo mai avuta una. E poi non ce lo possiamo nemmeno permettere.”

Emilia si è seduta accanto a me e ha preso ad accarezzarmi, prima il viso tastando la barba ruvida e incolta e poi più giù lambendo la camicia del pigiama fino all'apertura dei pantaloni. Sono rimasto immobile e silente mentre osservavo l’ispezione che la mia compagna stava eseguendo con fare chirurgico, quasi a voler stimolare uno strano esemplare che non dava più segni di vita. L’ho vista piangere e mi è sembrato di sentire le sue lacrime inondarmi il corpo inerme come fa una sorgente su specchi d’acqua lacustri che non si spostano dalle proprie sponde.

Amnesia anterograda, questa la diagnosi che lo strizzacervelli incaricato da mia moglie ha sentenziato qualche giorno dopo nel suo studio. Una sorta di black-out  per cui da un certo punto in avanti avrei smesso di ricordare, di immagazzinare luoghi e conoscenze un tempo a me familiari. Per me si è trattato della morte più atroce pur rimanendo in vita con le mie funzioni organiche che, tuttavia, hanno cessato di interagire con tutto ciò che nello scorrere di attimi e di secondi costituisce fatto, emozione, ricordo.

Così la donna che ha dichiarato essere mia moglie è divenuta ai miei occhi una perfetta sconosciuta, la mia casa un luogo spoglio e disabitato, il mondo intorno fotogrammi anonimi e senza alcuna relazione con la mia persona come se tutto avvenisse separatamente da me.

“Così è la morte”, ho pensato tra me ben sapendo che nel giro di qualche secondo avrei dimenticato anche questo e mi sarei allontanato dallo spazio come succede con le cose che non servono più e si disperdono nell'aria, in qualche punto dell’atmosfera, per divenire invisibili all'occhio umano.

“Così è la morte”, penso adesso mentre sono nella vasca da bagno con Emilia che mi aiuta a lavarmi passando la saponetta sulla mia pelle con fare delicato e materno. Sento di tanto in tanto il rumore dell’acqua dato dallo strizzare della spugna ed è come il ritmo scandito di un orologio che segna lo scorrere del tempo. Guardo mia moglie mentre già so che sto per dimenticarla e d’istinto stringo la sua mano per aggrapparmi all’ultimo sussulto di vita.


NON TI CONOSCO PIU’ AMORE

Racconto breve
di
Vittoriano Borrelli

(I personaggi e i fatti narrati sono puramente immaginari)

NON VOTARE ANTONIO


Qualche tempo fa (2013) scrissi un post dal titolo “Vota Antonio” in cui commentavo in chiave tragicomica la disaffezione dei cittadini verso la politica e le Istituzioni. A distanza di cinque anni e all'indomani delle elezioni politiche del prossimo 4 marzo, nulla è cambiato sotto questo cielo.

L’astensione al voto nelle consultazioni elettorali che si sono succedute nell’ultimo quinquennio ha raggiunto proporzioni un tempo inimmaginabili: circa quindici milioni di elettori hanno disertato le urne e questa flessione si è registrata persino in occasione del referendum sulla riforma costituzionale del 4 dicembre 2016, ovvero su un tema che avrebbe dovuto calamitare maggiormente l’interesse dell’elettorato. Allora l’affluenza alle urne del 65% venne battezzata come un successo rispetto alle più desolanti pregresse partecipazioni, ma il 35% dei non votanti resta comunque un dato che fa riflettere.

Eppure il Corpo elettorale è il primo (se non il più importante) organo costituzionale chiamato ad eleggere coloro che dovrebbero mettere in atto i desiderata della volontà popolare. Ma in questo circuito di democrazia rappresentativa c’è sempre qualcosa che lo fa andare in tilt, un relè che si aziona sistematicamente per far venir meno quel nesso di intima causalità tra gli elettori e gli eletti.

Non bisogna essere dei politologi o esperti dei massimi sistemi per capire che il problema risiede soprattutto nella scarsa qualità dell’offerta che non è soltanto impreparazione o incompetenza della classe dirigente. Certo, il divario tra le ideologie politiche e ciò che ne scaturisce sul piano concreto si è ampliato oltremodo, ma alla base manca sempre una ferrea spinta moralizzatrice.

Ne è una riprova il fallimento della legge sull’anticorruzione, varata sei anni orsono, che avrebbe dovuto ridurre drasticamente gli eventi corruttivi. Invece gli episodi di malaffare sono aumentati a dismisura nonostante la redazione di piani di prevenzione mai rivolti, chissà perché, anche, se non soprattutto, all'amministrazione politica.

Ecco quindi che a ridosso degli appuntamenti elettorali ritorna sempre di moda il personaggio di  Antonio la Trippa, che nel film “Gli onorevoli” pubblicizza la sua candidatura alle politiche ripetendo da un imbuto a mo’ di megafono la mitica frase “Vota Antonio”. E sempre di moda ritorna la sublime battuta  di Totò, interprete di quel film : “A proposito di politica, ci sarebbe qualche cosarella da mangiare?

La pellicola si conclude con una presa di coscienza del personaggio la Trippa che ritorna sui suoi passi riconoscendo i valori dell’onestà e della correttezza. L’auspicio è che questo messaggio possa essere tenuto bene a mente nel prossimo appuntamento elettorale.

L’astensione, sia pure comprensibile, non aiuta a cambiare lo stato delle cose.  E’ importante quindi recarsi alle urne ma sarà bene farlo con attenzione e ricordarsi di non votare (ancora) Antonio.