UN ANNO DI PAROLE


Prima di dare il benvenuto al nuovo anno ci sono ancora spiccioli di tempo per salutare il 2018 con un viaggio a ritroso delle cose che sono successe negli ultimi dodici mesi. I bilanci, si sa, sono un momento di riflessione per valutare quello che è stato fatto, nel bene e nel male, una sorta di sospensione del tempo prima di riprendere la vita e ricominciare con nuovi propositi ed obiettivi. 

Forse è una cosa ovvia, ma noi siamo quello che siamo stati e il futuro non è altro che la proiezione del nostro vissuto, il raccolto di quello che si è seminato lungo il cammino perché nulla è lasciato al caso senza la responsabilità delle nostre azioni. 

Allora, prima di riporlo nel cassetto dei ricordi, c’è ancora tempo per sfogliare il calendario 2018 partendo dall'inizio con i post più letti e graditi di questo blog. Cliccando sui titoli i lettori, se vorranno, potranno riprovare il gusto di rileggerli. 

GENNAIO: Il post più letto del mese è “Il sole tra i fili spinati”, dedicato al giorno della memoria con un racconto sulle gesta eroiche di un segretario comunale durante il massacro della Shoah. 

FEBBRAIO: Stravince il racconto breve “Zucchero amaro” incentrato sull'importanza della vita proprio quando stai per perderla. Otterrà migliaia di visualizzazioni e attestati di gradimento. 

MARZO: “Non ti conosco più amore”, altro racconto breve, piace tantissimo, forse anche per il tema struggente dell'Alzheimer. A seguire: “La parola di questa sera”, dedicato alla prematura scomparsa del bravo presentatore bolognese Fabrizio Frizzi. Buon piazzamento per il "Gesù di Nazareth", recensione della produzione televisiva di maggior successo sulla storia di Cristo.

APRILE: Piace “La Corte si ritira”, riflessioni sulla crisi del corteggiamento in un’epoca imperversata dal virtualismo delle relazioni personali. Sarà il post più letto del mese. 

MAGGIO: Chi la fa l’aspetti. E’ il tema del racconto breve “L'indifferente”, ispirato al materialismo moderno, crudele ed implacabile. Si aggiudicherà la palma del post più cliccato del mese. Al secondo posto un altro racconto breve, “Io e Francesco”, che ha come tema l’interposizione della personalità. Al terzo, "Gli occhi di mia madre", pensieri dedicati alle mamme del mondo (e alla mia).

GIUGNO: Pubblico “Amarsi nello stesso tempo”, considerazioni con citazioni storico-letterari sui grandi amori che sono tali quando sono coevi e reciproci. 

LUGLIO: Il più cliccato è “Nessuno lo deve sapere”, dialogo tra due amici che si confidano un segreto imbarazzante. 

AGOSTO: È il mese dei blog retro, una sorta del Techetechetè letterario. Vince “La nausea, il capolavoro di Jean-Paul Sartre, ma piace anche “La solitudine dei numeri primi”, di Paolo Giordano. 

SETTEMBRE: “L'idiota”, di Fedor Mihailovic Dostoevskij, altro capolavoro della letteratura mondiale, sarà la recensione più gradita. 

OTTOBRE: Continua la scia delle recensioni e ad essere più cliccata è “Un uomo”, di Oriana Fallaci, ancora oggi un best seller della letteratura italiana. Bene anche “La voglia di niente”, racconto breve sull'indolenza della pigrizia. 

NOVEMBRE: Piace “Alla fine del giorno” e, a seguire, “L’emozione delle parole”, due riflessioni sulla concentrazione del tempo e sulla bellezza delle parole. 

DICEMBRE: Stravince “La vita è un attimo, post dedicato alle occasioni che si perdono per rincorrere obiettivi che non hanno grande importanza. 

BUON 2019 A TUTTI I LETTORI!

IL MAGO DI NATALE


S'io fossi il mago di Natale
farei spuntare un albero di Natale
in ogni casa, in ogni appartamento
dalle piastrelle del pavimento,
ma non l'alberello finto,
di plastica, dipinto
che vendono adesso all'Upim:
un vero abete, un pino di montagna,
con un po' di vento vero
impigliato tra i rami,
che mandi profumo di resina
in tutte le camere,
e sui rami i magici frutti: regali per tutti.
Poi con la mia bacchetta me ne andrei
a fare magie per tutte le vie.

In via Nazionale
farei crescere un albero di Natale
carico di bambole d'ogni qualità,
che chiudono gli occhi e chiamano papà,
camminano da sole,
ballano il rock an'roll
e fanno le capriole.
Chi le vuole, le prende:
gratis, s'intende.

In piazza San Cosimato
faccio crescere l'albero del cioccolato;
in via del Tritone
l'albero del panettone
in viale Buozzi
l'albero dei maritozzi,
e in largo di Santa Susanna
quello dei maritozzi con la panna.

Continuiamo la passeggiata?
La magia è appena cominciata:
dobbiamo scegliere il posto
all'albero dei trenini:
va bene piazza Mazzini?
Quello degli aeroplani
lo faccio in via dei Campani.
Ogni strada avrà un albero speciale
e il giorno di Natale
i bimbi faranno
il giro di Roma
a prendersi quel che vorranno.
Per ogni giocattolo
colto dal suo ramo
ne spunterà un altro
dello stesso modello
o anche più bello.
Per i grandi invece ci sarà
magari in via Condotti
l'albero delle scarpe e dei cappotti.
Tutto questo farei se fossi un mago.
Però non lo sono
che posso fare?
Non ho che auguri da regalare:
di auguri ne ho tanti,
scegliete quelli che volete,
prendeteli tutti quanti.

(GIANNI RODARI) 

I MIEI AUGURI DI UN SERENO NATALE A TUTTI VOI

ALBERO O PRESEPE?


In questi giorni che ci avvicinano al Santo Natale, tiene banco il vecchio sondaggio sulle preferenze degli italiani in ordine alle due usanze tipiche di questa festa. Albero o presepe? Tendenzialmente al Nord  si predilige l’albero di Natale mentre al Sud il presepe è quasi un appuntamento irrinunciabile, una tradizione popolare molto seguita e ben radicata.

Certo, se si vuole essere fedeli al significato religioso del Natale, il presepe è quello che esprime meglio la natività del Signore in quanto ci fa ricordare, in tutte le sue rappresentazioni possibili, un evento che ha segnato la Storia dell’umanità. Il presepe inoltre ha in sé il dono della fantasia, aguzza l’ingegno di ciascuno di noi nel ricreare le antiche atmosfere della notte di Betlemme, una sorta di serbatoio che si riempie di una gioia atavica ma sempre nuova e attuale.

La costruzione di un presepe è forse il momento più bello, ancor più del suo compimento. Ci s’improvvisa progettisti con tanto di cartongesso, scatole riciclate e quant'altro per realizzare la struttura che meglio si adatti agli spazi della nostra casa. E poi di corsa per le bancarelle a comprare tutto l’occorrente: pastori, pecorelle, muschio e casette innevate, senza dimenticare i personaggi tipici come i Re Magi, il macellaio, il fabbro, la lavandaia, l’uomo ubriaco o complementi come il pozzetto, il ruscello, il ponticello e la stella cometa sulla capanna di Gesù bambino.

Quando si parla del presepe non si può non ricordare la meravigliosa opera teatrale di Eduardo De Filippo: quel Natale in casa Cupiello con la celeberrima domanda che il personaggio Luca rivolge al figlio Tommasino (detto Nennillo) fino a strappargli in punto di morte il sospirato sì: “Te piace ‘o presepe?”.
Non è Natale se non si rivede almeno in questa occasione un capolavoro assoluto della nostra letteratura.

Se il presepe desta tante emozioni, anche l’albero di Natale non è da meno. Grande o piccolo che sia, ben esposto davanti alle finestre delle case, l’abete colorato di luci, festoni, palline e quant’altro, esprime l’aspetto più gioioso della festa e, sotto il profilo prettamente cristiano, la vita e il perdono dell’umanità che si riconcilia, dopo il peccato di Adamo ed Eva, con la nascita del Cristo Redentore.

Bambino ero l’addetto all’albero di Natale. Mi piaceva occuparmi di ogni piccolo particolare, a cominciare dalle luci che trovavo fantastiche nelle svariate forme a stella o a lampioncino. Stavo ore intere a guardare il mio albero colorato e in cuor mio speravo che la gioia che provavo potesse essere condivisa con tutti i miei cari. Ho tramandato questa tradizione ai miei figli con la variante dello scambio dei doni nella notte di Natale (ai miei tempi non si faceva), quale momento di mutua generosità e vicinanza.

Al di là delle preferenze per l’una o l’altra usanza, penso che non si debba mai perdere di vista il vero significato del Natale: la generosità allo stato puro che si rinnova in ogni altro giorno dell’anno. 

Albero o presepe che sia, è Natale se si fa festa col cuore. 

LA VITA È UN ATTIMO


Passa la vita ma tu non ritorni. La vita è un attimo, basta un clic, lo scatto di una fotografia che tutto è già passato, compiuto, incollato nell'album dei ricordi. La vita è un attimo ma te ne accorgi sempre troppo tardi, come il sole che si nasconde improvvisamente tra le nuvole, la luce che si affievolisce, il buio che s’infittisce.

La vita è un attimo, non fai in tempo a girarti che già ti ritrovi invecchiato con la faccia stampata sulla vetrina di un negozio dove sfoggiano solo oggetti usati. È un attimo, come il caffè bevuto in fretta per scappare via e accumulare tanti attimi di vita che vanno via al calare della sera.

La vita è un attimo, come il bacio che ti ho dato senza morderti le labbra, lo sguardo che si è perso nei tuoi occhi che non hanno visto, le mani che non hanno accarezzato, le lacrime che non sono scese perché inghiottite da un altro dispiacere. È un attimo in quel sorriso che non ho capito, la festa che non è cominciata, il gioco che si è interrotto come un trenino che non vuole più ripartire.

Così passa la vita ma tu non ritorni. La vita è un attimo, come l’ultima ruga che è spuntata sul viso tracciando un solco profondo sulla pelle che ti affretti a nascondere con una maschera di vetro. È un attimo in tante altre facce che sembrano la stessa faccia così che niente hai guardato e niente ti è rimasto tra la folla che si spopola, le piazze che si svuotano e i cortei che si sfilano come tanti gomitoli di lana.

La vita è un attimo, come i colori dell’autunno che risucchiano gli ultimi bagliori dell’estate, l’inverno che avanza e un altro Natale che arriva, che sembra non essere mai passato, come una tavola apparecchiata con gli avanzi del giorno prima e i soliti invitati con lo stesso sorriso truccato, i calici alzati per brindare al nuovo che è già vecchio al sorgere del mattino.

La vita è un attimo, come un treno che parte dalla stazione e sfreccia via per ritornare al capolinea così che sembra che non sei mai partito. E ti ritrovi con le valige in mano che non hai il coraggio di disfare. Pronto ad affrontare un altro viaggio. 

L’ultimo viaggio.   

L’EMOZIONE DELLE PAROLE


Scrivere soltanto per se stessi non è mai appagante quanto il buon riscontro dei lettori. Qualunque cosa si scriva si ha sempre bisogno di sapere se l’emozione delle parole giunga a destinazione. Può essere banale ma sono le parole che aggiungono sale e condimento alle relazioni, le fanno crescere o decrescere a seconda della loro intensità, importanza e forza comunicativa.

Forse per gli scrittori è un po’ diverso perché è la loro anima a parlare, a manifestarsi in tutte le sue sfaccettature, a elevarsi (o a regredire) nello spirito sicché la condivisione, il gradimento, la capacità o disponibilità a recepire sono essenziali almeno quanto il messaggio che si vuole trasmettere. 

Vero anche che i lettori reali o potenziali di uno scrittore rappresentano un pubblico particolare, difficile da trovare nella vita quotidiana se non si decide di frequentare circoli culturali, persone accomunate dallo stesso interesse, insomma se non si percorrono canali ad hoc. Nella vita di tutti i giorni uno scrittore o un poeta vengono spesso associati a gente con la testa tra le nuvole, poco pratica e concreta da guardare con sospetto se non addirittura da tenere alla larga.

Dalle parti in cui sono nato (provincia di Napoli), chi è provvisto di vena poetica viene spesso apostrofato con ‘O poeta, in senso chiaramente ironico come a sottolineare di persona illusa, strana, avulsa dalla realtà. Forse è proprio così: uno scrittore è un essere speciale, anomalo, fuori dal contesto in cui vive, che ha bisogno di nutrirsi di parole ma nello stesso tempo di ricevere conferma e accettazione da chi riesce a sentirle ed apprezzarle. Perché le parole non sono mai di chi le scrive ma di chi le fa proprie nel cuore e nell'anima.

Innamorarsi delle parole è un esercizio difficile, richiede impegno, disponibilità, capacità di ascolto. Se ad esempio si recita una preghiera senza convinzione quelle parole non giungeranno mai a colui al quale sono rivolte. Dal sacro al profano il passo è breve: se si fa l’amore nel più totale mutismo tutto diventa meccanico e ripetitivo. Ecco che allora certe paroline sussurrate nell'orecchio possono fare miracoli, suscitare (o far resuscitare) emozioni forti ed indicibili.

Pur vero che la bellezza delle parole è tale solo se si riesce a vederla, se dalla parte di chi le ascolta c’è interesse, attenzione, curiosità. Richiede quindi qualità (intesa come particolarità) degli uditori e dei lettori. Nel mondo dei social, ad esempio, c’è una caccia sfrenata alle parole: si cercano anche quelle più banali per conquistare un mi piace, una condivisione, un emoticon che ti rallegri anche solo per pochi minuti. Si dà importanza alle parole per un’emozione che il più delle volte è solo effimera e illusoria.

Ma non tutte le parole riescono… con il buco. Ce ne sono tante, infinite, che volano via quasi senza accorgersene e non procurano alcuna emozione. Così che fra le tante è difficile trovare le tue, quelle che hai scritto con tanto pathos ed entusiasmo e che diventano invisibili nell'ampio panorama di chi le sciorina con rapidità e improprietà di linguaggio.

Il protagonismo delle parole ormai imperversa dappertutto in maniera diffusa e capillare e la concorrenza è così agguerrita che ci si emoziona sempre di meno. 

Così che le tue restano solo… le parole del tuo (piccolo) tempo.

MI ADDORMENTERO’


Mi addormenterò con il rumore del vento
che soffierà su di me impetuoso e leggero
Come una foglia che si stacca dal ramo
per volare libera e orgogliosa lontano

Mi addormenterò per sentire il tuo abbraccio
in una notte qualunque quando tutto intorno si fa silenzio
e l’ultima luce delle case si spegnerà
nel manto celeste dell’oscurità

Mi addormenterò e mi farai l’amore
col tuo debole respiro sul mio corpo inerme
in cerca di un brivido a lungo assopito
dai segni profondi di un dolore antico

Mi addormenterò per ritornare bambino
col cuore in gola e la testa sotto il cuscino
La porta che si apre dalla buia stanza
passi che avanzano sulla mia perduta infanzia

Mi addormenterò e scoprirò la tua mano
accarezzarmi la fronte come una madre premurosa
con il seno scoperto dalla vestaglia rosa
e le orecchie tese sul nostalgico richiamo

Mi addormenterò come un guerriero a riposo
che ha gettato le armi per abbracciare la pace
nei giardini d’inverno che nessuno ha varcato
sotto un cielo indecente di fuliggine e peccato

Mi addormenterò e nemmeno lo saprai
nel tuo giaciglio ti addormenterai
E mi dimenticherai
Come hai già fatto
Come già farai

ALLA FINE DEL GIORNO


Se la vita fosse concentrata in un solo giorno forse riusciremmo ad apprezzarla di più in ogni attimo del suo tempo. Mattino-Pomeriggio-Sera-Notte, le quattro fasi tipiche della giornata, potrebbero offrirci lo spunto per una meditazione più profonda sul significato delle cose che facciamo e che a volte distrattamente trascuriamo.

Il mattino è il momento in cui generalmente esprimiamo più vitalità e voglia di programmare ciò che ci proponiamo di fare. Si abbina alla luce del giorno, alla chiarezza, alla massima visibilità ed è paragonabile alla nostra infanzia ed adolescenza, quando tutto è ancora in costruzione e in continuo divenire.  Le speranze, i sogni e gli ideali di una vita fantastica appartengono al mattino perché sono preparatori di qualcosa che ci auguriamo possa accadere ed hanno bisogno di forza e di energia per essere sempre vivi e rigogliosi.

Il pomeriggio è invece il momento in cui combaciano la riflessione e la ripresa delle attività; si raccoglie quello che si è seminato durante il mattino ed è paragonabile alla nostra età più matura, quando l’applicazione delle nostre scelte entra nel vivo fino a divenire esperienza, manifestazione di ciò che vogliamo o desideriamo essere. Il pomeriggio è il cammino che abbiamo intrapreso, la sperimentazione di ciò che si fa vissuto, fatto, evento, una concatenazione di azioni e reazioni, di causa ed effetto che perdura fino alle prime luci del tramonto.

La sera segna la fine del giorno, il declino della luce, del chiarore, delle cose che imbruniscono fino a divenire indistinguibili nella fitta nebbia della prima oscurità. La sera accoglie la nostra vecchiaia che si veste di ricordi, di rimpianti o di una gioia antica fissa sull’immagine di una fotografia che non ha più lo stesso sapore. Passi senili che s’incamminano verso la notte, teneri, incerti, barcollanti.

E infine la notte che scende impetuosa e si posa sui nostri occhi stanchi mentre tutto intorno si fa silenzio. È il momento del raccoglimento, di una solitudine muta ed inespressa, quasi un ritorno alla nascita e al nulla prenatale. La notte è il passaggio a qualcosa di sconosciuto che genera timore ed incertezza fino a quando non si fa di nuovo giorno.

Se il ciclo della vita fosse perfettamente uguale a quello del giorno, allora non ci sarebbe alcun mistero da svelare e il momento stesso della morte non dovrebbe farci più paura. La morte sarebbe solo la fine di qualcosa che abbiamo vissuto e l’inizio di un’altra vita in una nuova dimensione.

Alla fine del giorno c’è sempre un altro giorno.

QUESTA VITA



Dall'album "La notte dei ricordi", questa canzone del 1982 racconta le varie sfaccettature della vita in un intercalare di sillogismi che è un viaggio del sentire prima ancora dell’osservare le cose che accadono quotidianamente. Un’esplosione di sentimenti che si aprono o si chiudono alla vita, meravigliosa o inquietante ma pur sempre nostra per come decidiamo di viverla.

Il testo rompe gli argini della tradizionale impostazione strofica a favore di una versione anarchica della metrica poetica, mentre la musica segue gli intercalari delle parole con sei melodie diverse che fanno di “Questa vita” la canzone più atipica di tutta la raccolta de “Le parole del mio tempo”.

QUESTA VITA
(V. Borrelli)

Quante facce ha questa vita da poco
vita di caffè nel solito ritrovo
di spremuta d'arancia con la tua compagna
Questa vita …

Questa vita di discorsi chiacchierati
di canzoni e ritornelli improvvisati
di fumetti e desideri intrappolati
Questa vita …

Giorni stanchi di pochezza e delusione
giorni chiusi o aperti alla masturbazione
piazze vuote o marciapiedi di persone
cuori in crisi da una vita senza amore

Questa vita è un'attesa
è la radio sempre accesa

E poi la notte su di noi
ci porta per i vizi suoi
e muore dentro gli occhi tuoi
che vivi poco e più ti annoi

Vita di partite e di figure ambigue
vita di erotismo e di menefreghismo
vita di passioni e di consolazioni
vita senza vita con i nostri errori

Questa vita ti somiglia
È un'amica
È tua figlia
Questa vita è una vita
come tante
da cantante

Quante facce ha questa vita da poco
vita di concorsi e di problemi grossi
di rimpianti e di chissà quali rimorsi
Questa vita …

Vita di fermate e lunghe passeggiate
Vita al cinema tra lacrime e risate
al capolinea della tua banalità
a pochi passi dalla tua assurdità
Questa vita …

È tutto quello che non vuoi
È l'incertezza che c'è in noi
È stare chiuso dentro me
È ubriacarmi ancor di te

Vita di tramonti rossi e cartoline
pornografiche visioni e manie
sesso a colazione e fiumi di parole
vita come una interpretazione

Questa vita ti somiglia
È un'amica
È tua figlia
Questa vita è una vita
come tante
da cantante

(TRATTO DA “LE PAROLE DEL MIO TEMPO”)

‘A LIVELLA


Per celebrare la ricorrenza del 2 novembre ecco questa straordinaria poesia di Totò, un capolavoro assoluto nel panorama della letteratura mondiale. Il tema trattato, l’uguaglianza nel mondo dei più (‘a livella) a dispetto delle disuguaglianze sociali che appartengono al mondo dei vivi, è sviluppato in maniera magistrale dalla penna sapiente e pungente del grande artista partenopeo.

Non è solo una poesia, ma molto di più. Un racconto di vita, la riproduzione fedele di una realtà che è figlia di se stessa ed è destinata a rigenerarsi ad ogni epoca senza mai snaturarsi. Incontrovertibile, spietata e così... tremendamente umana.

‘A livella si colloca a pieno titolo tra le opere che costituiscono la massima espressione della Cultura, un insegnamento continuo da custodire e tramandare ai posteri come si fa con le cose più preziose del nostro vivere.
  
Ogn'anno, il due novembre, c'è l'usanza
per i defunti andare al Cimitero.
Ognuno ll'adda fà chesta crianza;
ognuno adda tené chistu penziero.

Ogn'anno, puntualmente, in questo giorno,
di questa triste e mesta ricorrenza,
anch'io ci vado, e con dei fiori adorno
il loculo marmoreo 'e zi' Vicenza.

 St'anno m'é capitato 'navventura...
dopo di aver compiuto il triste omaggio
(Madonna!) si ce penzo, che paura!
ma po' facette un'anema e curaggio.

 'O fatto è chisto, statemi a sentire:
s'avvicinava ll'ora d'à chiusura:
io, tomo tomo, stavo per uscire
buttando un occhio a qualche sepoltura.
 
"Qui dorme in pace il nobile marchese
signore di Rovigo e di Belluno
ardimentoso eroe di mille imprese
morto l'11 maggio del '31".

'O stemma cu 'a curona 'ncoppa a tutto...
...sotto 'na croce fatta 'e lampadine;
tre mazze 'e rose cu 'na lista 'e lutto:
cannele, cannelotte e sei lumine.
 
Proprio azzeccata 'a tomba 'e 'stu signore
nce stava 'n 'ata tomba piccerella,
abbandunata, senza manco un fiore;
pe' segno, sulamente 'na crucella.

E ncoppa 'a croce appena se liggeva:
"Esposito Gennaro - netturbino":
guardannola, che ppena me faceva
stu muorto senza manco nu lumino!

Questa è la vita! 'ncapo a me penzavo...
chi ha avuto tanto e chi nun ave niente!
Stu povero maronna s'aspettava
ca pur all'atu munno era pezzente?

Mentre fantasticavo 'stu penziero,
s'era ggià fatta quase mezanotte,
e i 'rimanette 'nchiuso priggiuniero,
muorto 'e paura... nnanze 'e cannelotte.

Tutto a 'nu tratto, che veco 'a luntano?
Ddoje ombre avvicenarse 'a parte mia...
Penzaje: stu fatto a me mme pare strano...
Stongo scetato... dormo, o è fantasia?

Ate che fantasia; era 'o Marchese:
c'o' tubbo, 'a caramella e c'o' pastrano;
chill'ato apriesso a isso un brutto arnese;
tutto fetente e cu 'na scopa mmano.

 E chillo certamente è don Gennaro...
'omuorto puveriello...'o scupatore.
'Int 'a stu fatto i' nun ce veco chiaro:
so' muorte e se ritirano a chest'ora?

 Putevano sta' 'a me quase 'nu palmo,
quanno 'o Marchese se fermaje 'e botto,
s'avota e tomo tomo... calmo calmo,
dicette a don Gennaro: "Giovanotto!

Da Voi vorrei saper, vile carogna,
con quale ardire e come avete osato
di farvi seppellir, per mia vergogna,
accanto a me che sono blasonato!

La casta è casta e va, sì, rispettata,
ma Voi perdeste il senso e la misura;
la Vostra salma andava, sì, inumata;
ma seppellita nella spazzatura!

Ancora oltre sopportar non posso
la Vostra vicinanza puzzolente,
fa d'uopo, quindi, che cerchiate un fosso
tra i vostri pari, tra la vostra gente".

"Signor Marchese, nun è colpa mia,
i'nun v'avesse fatto chistu tuorto;
mia moglie è stata a ffa' sta fesseria,
i' che putevo fa' si ero muorto?

Si fosse vivo ve farrei cuntento,
pigliasse 'a casciulella cu 'e qquatt'osse
e proprio mo, obbj'... 'nd'a stu mumento
mme ne trasesse dinto a n'ata fossa".

"E cosa aspetti, oh turpe malcreato,
che l'ira mia raggiunga l'eccedenza?
Se io non fossi stato un titolato
avrei già dato piglio alla violenza!"

"Famme vedé... piglia 'sta violenza...
'A verità, Marché, mme so' scucciato
'e te senti; e si perdo 'a pacienza,
mme scordo ca so' muorto e so mazzate!...

Ma chi te cride d'essere... nu ddio?
 Ccà dinto, 'o vvuo capi, ca simmo eguale?...
...Muorto si' tu e muorto so' pur'io;
ognuno comme a 'na'ato è tale e qquale".

"Lurido porco!... Come ti permetti
paragonarti a me ch'ebbi natali
illustri, nobilissimi e perfetti,
da fare invidia a Principi Reali?".

"Tu qua' Natale... Pasca e Ppifania!!!
T''o vvuo' mettere 'ncapo... 'int'a cervella
che staje malato ancora È fantasia?...
'A morte 'o ssaje ched''e?... è una livella.

'Nu rre, 'nu maggistrato, 'nu grand'ommo,
trasenno stu canciello ha fatt'o punto
c'ha perzo tutto, 'a vita e pure 'o nomme:
tu nu t'hè fatto ancora chistu cunto?

Perciò,  stamme a ssenti... nun fa' 'o restivo,
suppuorteme vicino - che te 'mporta?
Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive:
nuje simmo serie... appartenimmo â morte!".

(‘A LIVELLA, DI ANTONIO DE CURTIS, IN ARTE TOTO’)

LA VOGLIA DI NIENTE


Mi guardo allo specchio. Ho la barba di due giorni e mi chiedo se sia il caso di tagliarla. Accarezzo una guancia e poi l’altra tastando tutta la ruvidezza di quella peluria ostinata e rigogliosa. Penso che dovrei tirare fuori il pennello, la schiuma da barba e la lametta per mettermi all'opera ma oggi non  ho proprio voglia.

Desisto.

Subito mi assale un altro interrogativo: mi faccio la doccia o mi lavo a pezzi? ben sapendo che in quest’ultimo caso dovrei compiere più azioni: sciacquarmi il viso, insaponarmi le ascelle, accovacciarmi sul bidet per rinfrescare le parti intime e infine lavarmi i piedi. Guardo l’accappatoio che ieri ho tirato fuori dalla biancheria pulita e penso che sarebbe un peccato usarlo.
Anche il pavimento del bagno è lindo e gli asciugamani sono ben sistemati al loro posto. Perché dovrei sconvolgere questo scenario così asettico e perfetto? Decido quindi di non fare né l’una né l’altra cosa.

Desisto.

Vado in soggiorno e sento lo squillo del mio cellulare che mi annuncia un messaggio. Mi avvicino controvoglia all'aggeggio che sta sul tavolo e leggo quello che c’è scritto. È Adalgisa, la mia ultima fiamma: “Ciao torello, quando vieni a trovarmi? L’altra sera sei stato fantastico. Tvb.”

Adalgisa mi ricorda quello che sono per lei da due mesi a questa parte: un concentrato di sfrenata lussuria che adesso rivendica a pieno titolo con un altro invito a luci rosse. Dovrei sentirmi lusingato e rispondere al messaggio con la fierezza del maschio latino ma anche stavolta desisto.
Quando faccio l’amore sono più lucido di un computer. Devo registrare ogni cosa della mia partner, avere il pieno controllo della situazione. Così che il piacere lo traggo non già dai miei movimenti attivi e scrupolosi, ma dalla reazione che riesco a suscitare nella mia amante. Accettando l’invito di Adalgisa dovrei rifare tutte queste cose che adesso mi appaiono troppo impegnative e laboriose.

Desisto.

Suona il citofono e sorrido pensando alle persone che in un modo o nell'altro cercano un contatto con me quando invece preferisco isolarmi completamente da loro. Dal video dell’apparecchio vedo due uomini in giacca e cravatta, l’uno con una valigetta, l’altro con un libricino in mano che mi fa pensare ad un breviario. Saranno i Testimoni di Geova.

Nel quartiere sono l’unico che li fa entrare in casa anche se non credo ad una sola parola di quello che predicano. Ma mi piace assecondarli, far finta di seguire il loro insegnamento pur sapendo che non lo metterò mai in pratica. Ho imparato non so da quanto tempo a sentire senza ascoltare, a fare le cose nell’ordine inverso in cui si presentano per il semplice gusto di ribellarmi ai prototipi della vita. Penso che la menzogna sia più reale di qualsiasi verità ma adesso non ho voglia di recitare la parte del fedele discepolo, ci vuole impegno e disinvoltura anche per fingere.

Desisto.

Mi sdraio sul divano e decido di liberare la mente di tutti questi pensieri e incombenze. Penso al niente e il niente in questo momento ha molto più senso della pienezza delle cose, ma forse sarebbe meglio dire di ciò che solo in apparenza equivale a compiutezza, completezza e logicità.

Il niente mi riporta bambino quando mi piaceva perdermi nella mia spensieratezza, inseguire il sogno di una giovinezza acerba che da lì a poco mi avrebbe fatto conoscere un mondo diverso, come poi è stato. Sento le palpebre che si fanno pesanti come se un grosso macigno si fosse posato sopra i miei occhi. Ma forse è il mio corpo che sta diventando leggero che se una formica dovesse passarci sopra avrebbe il peso di un elefante.

Con la coda dell’occhio osservo la pentola sul fornello della cucina dalla quale trabocca l’acqua in ebollizione che fa spegnere la fiamma. L’odore del gas si propaga nell'aria prima delicatamente e poi sempre più intensamente. Dovrei alzarmi e chiudere la chiavetta ma sono rapito dal mio niente che mi fa sentire sempre più leggero. Mi addormento e so che sarà per sempre.



LA VOGLIA DI NIENTE

Racconto breve
di
Vittoriano Borrelli

(I fatti e i personaggi narrati sono puramente inventati)

UN UOMO


Pubblicato nel 1979, il romanzo “Un uomo” di Oriana Fallaci ebbe un enorme successo (c.a. tre milioni e mezzo di copie vendute)  raccogliendo consensi da parte dei migliori esponenti della critica letteraria.

Il romanzo racconta la storia del rivoluzionario greco Alekos Panagulis, compagno nella vita della scrittrice, che tenta in tutti i modi di sovvertire il regime dittatoriale di Georgios Papadopoulos, leader della Grecia. Ma il golpe fallisce e Panagulis viene rinchiuso in carcere e condannato a morte.

La sentenza non viene eseguita e Panagulis ottiene la grazia. Uscito dal carcere incontra la Fallaci che lo intervista e s’innamora di lui. Inizia tra i due una tormentata storia d’amore che li porterà a fuggire in Italia cercando aiuto negli esponenti della politica nostrana per liberare la Grecia dal tiranno Papadopoulos.

Il rientro in Patria avviene poco dopo la caduta del dittatore e Panagulis si iscrive all’Unione di Centro- Nuove forze, diventa deputato ma non accetta le logiche del partito.

Dedicherà gli ultimi anni della sua vita nel tentativo di sovvertire il nuovo Papadopoulos identificato nel ministro della difesa Evangelos Averoff che verrà ucciso da dei sicari in un incidente stradale.

Chiede e ottiene dalla sua compagna la stesura di un libro sulla sua vita per essere ricordato ai posteri.

Bellissima e di pregevole stile letterario la parte del racconto in cui il protagonista, rinchiuso in una cella di due metri quadrati di spazio, intesse l’unica relazione possibile con uno scarafaggio:

A uno scarafaggio si può dire qualsiasi cosa ci venga in mente, perfino che il coraggio è fatto di paura, che in questi mesi avevi avuto spesso paura, che soprattutto ne avevi avuta quando era giunto il plotone di esecuzione. Loro non se n’erano accorti, ma obbligarti a quella calma e quella spavalderia era stata una fatica terribile: sulla motovedetta non ne potevi più. Anche un’ora fa non ne potevi più. E mezz'ora fa, e un minuto fa.”

Il romanzo della bravissima e compianta scrittrice fiorentina è di ottima fattura ma oggi appare anacronistico per il depauperamento dei valori e degli ideali della politica, miseramente sommersi dai ripetuti scandali degli ultimi tempi.

L’uomo della Fallaci è l’eroe che combatte per gli ideali della Giustizia e della Libertà; l’uomo di oggi vive per se stesso e non ha punti di riferimento. Esercita il potere dell’immagine in una solitudine mediatica nella quale la moltitudine è la semplice equazione di tante individualità che non comunicano e che sono distanti tra loro.

E’ un libro da consigliare per gli amanti della raffinatezza letteraria e soprattutto per coloro che desiderano scoprire e identificarsi in valori autentici in grado di elevare e rivalutare quello che dovrebbe essere … un uomo!

ORIANA FALLACI: UN UOMO

IL MONDO CHE NON MI PIACE


C’è un mondo che non mi piace nei tuoi occhi scuri e indifferenti che mi guardano senza vedermi, che sono già proiettati verso altre attenzioni che saranno a loro volta disattenzioni, cose inutili e ingombranti da dimenticare in fretta con un altro fuggevole sguardo. Tutto scorre così con l’avanzare impetuoso delle immagini che alla fine nulla resta.

Sono gli occhi la spia più autorevole della nostra personalità, del resto non si dice che gli occhi sono lo specchio dell’anima? Basta saper guardare per scoprire quanto di buono o di cattivo ci sia negli occhi di chi ci osserva.

Dubitare di certi occhi, dubitare di certi sguardi. Quelli che ti scrutano per carpire certe informazioni da utilizzare a proprio uso e consumo sono i più subdoli, meglio starne alla larga se non si vogliono avere brutte sorprese. Sono occhi “professionali”, quasi da detective, indagatori e truffaldini per scoprire qualche traccia di te da manipolare a proprio piacimento.

E che dire degli occhi assassini? Quelli che ti osservano incessantemente che te li senti addosso anche quando non li vedi. Sono gli occhi della morte che ti perseguitano fino ad infragilirti, annullarti, diventare preda del loro sguardo omicida. La cronaca è piena di persone, soprattutto donne, che sono vittime di queste morbose attenzioni che preludono alla violenza fisica e letale.

Ci vuole fortuna a non incrociare (o ad essere incrociati) da certi occhi.

 Occhi, miliardi di occhi e fra tanti ci sono quelli che ti hanno cercato senza mai trovarti. Uno sguardo sul mondo che non ti piace, una finestra che si apre su una desolante umanità che ti osserva senza vederti, senza capire chi sei veramente e quanto amore potresti dare.

Meglio volgere lo sguardo altrove, sulle cose anziché sulle persone. Come ad esempio il mare che ti regala l’infinito senza chiederti niente in cambio, senza giudicarti e che ti accoglie così come sei tra le sue onde forti e confortevoli.

E poi chiudere finalmente gli occhi perché hai già guardato abbastanza. Riposare in pace.
Come Leopardi nella sua indimenticabile “Infinito”:

E il naufragar m’è dolce in questo mare”.


LA VITA INTERIORE


Scritto da Alberto Moravia e pubblicato nel 1978 dall'editore Bompiani, l’uscita del romanzo venne preceduta da sette stesure in altrettanti anni nei quali l’Italia precipitava nel baratro del terrorismo e della contestazione sociale. Come racconta lo scrittore, l’opera “…era un enorme groviglio di fili. Così prima ho dovuto fare il gomitolo e poi sfilarlo.” 

Il romanzo è una lunga intervista che il personaggio principale Desideria, concede al narratore ed ha come tema conduttore la ribellione verso una classe sociale, la borghesia, che Moravia definisce “decadente” e “corrotta”. 

Attraverso il simbolismo della vita interiore (“nella vita pratica si agisce realmente, ma nella vita interiore tutto avviene simbolicamente”.), per mano della “Voce” apparsa come a Giovanna D’Arco, Desideria racconta, in una sorta di viaggio introspettivo, la sua repulsione alla borghesia “pariolina” rappresentata dalla madre adottiva, Viola, verso la quale nutre sentimenti contrastanti di odio e di amore, mai del tutto risolti. 

Così, da ragazzina grassa e insignificante, simile ad un’oloturia, Desideria diventa bella e desiderabile mettendo in atto un piano strategico che la porterà, con una serie di azioni simboliche, a dissacrare il linguaggio, la cultura, la religione, la famiglia, il denaro, la vita umana e infine l’amore. In questa ribellione sarà guidata dalla “Voce” che le chiederà di votare la sua verginità in nome di un certo avvenimento... 

Il linguaggio forte e immediato, talvolta scurrile e postribolare, contribuisce ad assegnare al personaggio Desideria i connotati tipici della contestazione giovanile culminata, sul piano effettuale, nell'azione omicida che, tuttavia, le farà toccare con mano, il fallimento di una rivoluzione ideologica agognata e inattuabile. 

-Il mio nome è Desideria. E ho avuto una Voce.- 

-Una Voce? Quale Voce?- 

-Ti risponderò con il passaggio di un libro.- 

-Quale libro?- 

-La vita di Giovanna D’Arco. Anche lei aveva una Voce. Ecco il passaggio: “Arrivò questa Voce verso l’ora di mezzodì, un giorno d’estate, nell'orto di mio padre. La vigilia avevo digiunato. Raramente la udivo senza vedere il chiarore dalla parte da dove la Voce si fa sentire. La prima volta che udii la Voce, votai la mia verginità finché fosse a Dio piaciuto.”- 

-Perché Giovanna D’Arco? Cos'ha a che fare Giovanna D’Arco con te?- 

-In questo passaggio si parla di due cose che ho avuto in comune con Giovanna D’Arco: la Voce e la verginità. Per alcuni anni una Voce mi ha parlato, mi ha guidato, mi ha comandato. E, al tempo stesso, ho voluto, come Giovanna D’Arco, votare la mia verginità finché non fosse accaduto un certo avvenimento. Insomma, come Giovanna D’Arco, in me Voce e verginità erano collegate, l’una giustificava l’altra, l’una c’era perché c’era l’altra.- 

E’ il romanzo più terribile e nel contempo più dirompente del grande scrittore romano, che ha il merito di segnare uno spartiacque fra l’impostazione tradizionale del racconto letterario e quella più dirompente e sregolata del periodo post-sessantottino. 

Avverso agli inizi dalla critica, “La vita interiore” ottenne un buon riscontro nei lettori ed è ancora oggi uno dei romanzi più ricercati ed apprezzati.



ALBERTO MORAVIA - LA VITA INTERIORE

LA NOSTRA SOLITUDINE


E noi siamo in una canzone
così come tante persone
anche noi siamo facce che non hanno nome
Noi qui vagabondi da sempre
con chi vuol tornare nel ventre
perché più nessuno lo sente


Città impastata di sguardi
e di età calpestata per strada
noi qui siamo schiavi di un’ansia infinita
Per noi non rimane più niente
perché fuori completamente
da noi e dal nostro presente

Colpa della nostra solitudine
che ci fa viver di nascosto
l’inquietudine
che ci portiamo sempre addosso
solitudine
è un male che purtroppo è nostro

Che ha questa nostra follia?
Che ha? Non ragiona e va via
e no non si piega all'eterna poesia

Poesia che racconta la storia di noi
Poesia sotto i tetti di noi
che non siamo protetti

Colpa della nostra solitudine
che ci fa viver di nascosto
l’inquietudine
che ci portiamo sempre addosso
solitudine
è un male che purtroppo è nostro

Per noi non rimane più niente perché
fuori completamente da noi
e dal nostro presente

(TRATTO DA "L'AQUILA NON RITORNA"-V. Borrelli)

L’IDIOTA


La bontà non paga (quasi) mai. Spesso scambiata per ingenuità, antitesi della furbizia, della capacità di imporsi su tutto e su tutti, finanche per l’idiozia come il celebre romanzo di Dostoevskij diffuso tra il 1868 e il 1869. Oltre un secolo fa ma terribilmente attuale, l’opera del celebre autore russo sarebbe oggi una fiction di successo che farebbe un baffo alle più seguite del momento. 

Il romanzo, di matrice psicologica e per certi versi fiabesco ma con una morale capovolta (i buoni sono condannati all’inferno), ruota intorno alle vicende del protagonista, il giovane principe Myskin, che dopo essere stato in Svizzera per curarsi da una grave malattia nervosa, ritorna a Pietroburgo. Qui intreccia una tormentata relazione con la bella Natasja Filippovna, contesa dall’amico Rogozin, follemente innamorato della donna, e dal segretario Ganja le cui mire sono tutt’altro che disinteressate dopo aver appreso di un ingente lascito che la Filoppovna ha ricevuto da un benefattore. 

Myskin si offre di sposare Natasja per salvarla da questa sorta di corteggiamento trilaterale che la pone come merce di scambio, ma la donna non si sente all’altezza del nobile decaduto e decide di unirsi all’irruente Rogozin. Quest’ultimo tuttavia non accetta che Natasja provi dei sentimenti per Myskin e preso dalla gelosia la ucciderà condannando l’amico ad una follia senza appello. 

L’inadeguatezza sembra essere il filo conduttore del romanzo, più che la bontà del protagonista che pure il grande scrittore ritiene centrale per dimostrare quanto essa sia effimera, ideale e non cristallizzata nella realtà. 

Ciascuno dei personaggi si sente inadeguato quando si rapporta all’altro: Natasja verso il bel principe in termini di inferiorità sociale, Rogozin verso l’amico per incapacità di competere con la sua superiorità morale, e lo stesso Myskin che sente il fallimento dei propri principi nei confronti dell’uno e dell’altro che lo farà alfine sprofondare nel dolore più acuto ed irreparabile. 

“… il dolore essenziale, quello più forte, forse, non è quello delle ferite, è il sapere con certezza che fra un’ora, poi fra dieci minuti, poi fra mezzo minuto, poi adesso, ecco, proprio ora, l’anima vola via dal corpo, e tu come persona non esisterai più, e questo ormai con certezza. 
La cosa più importante, ecco, è questa certezza.” 

Romanzo di rara architettura psicologica, L’Idiota si colloca a pieno a titolo tra i migliori della letteratura mondiale, risultando ancora oggi uno dei più pregevoli nel suo genere e uno dei più terribili sotto il profilo della contrapposizione tra ciò che assurge a valore ideale e ciò che nella realtà rappresenta esattamente il suo contrario. 

L’IDIOTA- Fedor Mihailovic Dostoevskij

LE CANZONI CHE DIMENTICHEREMO


Quest’estate, come le altre che l’hanno preceduta, sta volando via portandosi via sprazzi di spensieratezza e qualche amore sbocciato troppo in fretta. Con la bella stagione anche le canzoni che hanno scritto la sua colonna sonora svaniranno con l’intiepidirsi del sole e le prime giornate piovose dell’autunno.

Ti scrivo tu mi scrivi, poi torna tutto come prima”, cantava Renato Zero nella bellissima Spiagge di qualche anno fa. Come non dargli ragione? L’estate ti dà e ti toglie tutto in una manciata di tempo che sembra non sia mai arrivato né passato, perché l’attimo è così, neutro e fuggente.

Tutto arriva e passa come un bel carrozzone sul quale sfilano le canzonette del momento che saranno ben presto dimenticate senza eccezione alcuna, nemmeno per quelle che abbiamo ascoltato durante questa stagione.

Come di consueto ho compilato le mie pagelle delle hit italiane più gettonate, giudizi complessivamente poco lusinghieri per un nostalgico come me delle belle canzoni di un tempo. Forse i giovani di oggi diranno la stessa cosa tra qualche anno perché il rimpianto affiora più facilmente quando i ricordi passano e si sbiadiscono.

Ma ecco i miei voti:

THEGIORNALISTI: Felicità puttana. Forse la più gradevole ed orecchiabile. Niente di trascendentale ma almeno si canticchia facilmente ed è perfettamente in linea con lo spirito avventuriero e un po’superficiale con cui si vivono le vacanze.  Voto 8.

LUCA CARBONI: Una grande festa. Non male anche se non ripete i fasti di un tempo. Carboni c’è in qualità e professionalità.  Voto 7.

J-AX&FEDEZ: Italiana. Per chi ha problemi di emicrania è bene stare alla larga da questa canzone sciocca e monotona. Il refrain è insopportabile e, per l’appunto, da mal di testa. I due rapper concludono male un sodalizio che in passato ha sfornato canzoni migliori.  Voto 3-.

BOOMDABASH-LOREDANA BERTÈ: Non ti dico no. Merito del successo è tutto della Bertè, tornata in gran forma. Il ritmo ricorda la più celebre “E la luna bussò” ma piace e trascina le vecchie e nuove generazioni.  Voto 7+.

ERMAL META: Dall’alba al tramonto. Meglio della più insipida e ruffiana “Non mi avete fatto niente” con la quale, in coppia con Moro, ha vinto l’ultimo Sanremo. Il ritmo c’è, le qualità canore pure. Voto 7.

ANNALISA: Bye Bye. Meglio un addio. Canzonetta che si dimenticherà facilmente. Voto 5,5.

LAURA PAUSINI: E.Sta.A.te. Il giochetto del titolo che è una sorta di spelling della parola estate non vale… la candela. Laura ci ha regalato momenti migliori. Voto 5-.

FABIO ROVAZZI (con EMMA, NEK e ALBANO): Faccio quello che voglio. L’unione fa la forza e la partecipazione di altri artisti ha garantito una maggiore visibilità a questo brano non proprio eccelso ma tutto sommato accettabile. Voto 6,5.

JOVANOTTI: Viva la Libertà. Canzone dal sapore sessantottino o che evoca i partigiani della seconda guerra mondiale. Melensa. Voto 4.

LE VIBRAZIONI (con JACK LA FURIA): Amore Zen. Il brano è proprio una furia (dalle buone intenzioni) ma non sfigura in mezzo a tanto niente. Voto 6.

CESARE CREMONINI: Kashmir-Kashmir. Ci vorrebbe qualcos’altro per riscaldare gli animi sensibili della buona musica. Voto 5.

TAKAGI & KETRA (CON GIUSY FERRERI & SEAN KINGSTON): Amore e Capoeira.  Interpreti dal nome impronunciabile o di difficile memoria, a parte la Ferreri che ha successo solo con queste canzoncine che mettono allegria e…niente più. Voto 6.

BABY K.: Da zero a cento.  Altra canzoncina dal sapore esotico, ben costruita per far breccia nel cuore di ragazzine sognanti. La coreografia del ballo che si vede nel video promozionale del disco ne è una chiara dimostrazione. Voto 5,5.

ELODIE-MICHELE BRAVI-GUÈ PEQUENO: Nero Bali. Vedi giudizio sopra, praticamente identico. Non è il caso di aggiungere altro. Voto 5,5.

RIKI (feat CNCO): Dolor De Cabeza. Il bel Riki piace tanto alle ragazzine e questo basta e avanza. Brano già sentito e scopiazzato qua e là. Ma è un dettaglio. Voto 5+.

IRAMA: Nera. Sull’onda della sua vittoria ad “Amici 2018”, Irama sfodera una ballata uguale a milioni di altre come il suo predecessore Riki. Commerciale, strategica e destinata a sparire non appena si chiuderanno gli ombrelloni. Voto 5.

"L'inverno passerà
tra la noia e le piogge
Ma una speranza c'è
che ci siano nuove spiagge ..."
(R. Zero)

IL VUOTO


Ci sono vuoti che pesano come macigni e non si riempiono mai. Pensate agli organi del corpo umano come il cervello, il cuore, lo stomaco. Se fossero vuoti come sarebbero? Una testa vuota, la negazione del ragionamento e dell’intelligenza; un cuore vuoto, l’anaffettività allo stato puro; uno stomaco vuoto, un deterrente per chi vuole dimagrire ma a lungo andare potrebbe rivelare malattie ben più serie.

C’è una funzione organica e una funzione emotiva del vuoto; ciascuna agisce in maniera apparentemente autonoma dall'altra ma spesso s’intersecano in uno stato di reciproca dipendenza. Succede, ad esempio, che si ha fame non per appetito ma per rabbia, delusione, frustrazione. Allora ci si rimpinza ben bene senza tuttavia provare alcuna sazietà sicché il vuoto resta come se nulla fosse entrato nello stomaco.

Ma può accadere che per le stesse ragioni di uno stato d’animo cupo e doloroso non si riesca a mandare giù nemmeno un briciolo di pane. Qui è la funzione emotiva del vuoto a prendere il sopravvento e a condizionare l’altra, quella organica, che non si alimenta di alcunché finendo con l’essere la stessa cosa, ovvero vuoto assoluto.

Quante sfaccettature ha il vuoto! Dallo stomaco al cervello, il passo è breve. Qui a farla da padrona sono i pensieri o meglio l’assenza dei pensieri. Un corto circuito che non fa ragionare e nemmeno intessere con se stessi il benché minimo dialogo. Ma lo stesso senso di vuoto si prova anche quando c’è un sovraffollamento di pensieri, disordinati e illogici, che sembrano riempire la mente e invece la svuotano di ogni facoltà di ragionamento chiaro e lineare.

Senza dimenticare che ci sono i vuoti a perdere, quelli che anche se provi a soffiarci dentro rimangono flosci come un otre riverso per terra che nemmeno il dio dei venti riuscirebbe a gonfiare. Vuoti a perdere che nessuno vorrebbe ricevere in cambio perché non si alimentano mai di nessuna sostanza, né organica, né emotiva.

E un cuore vuoto? Forse la forma di assenza più grave e preoccupante. La funziona organica opera perfettamente ma quella emotiva non dà alcun segno di vita. E’ la morte sostanziale, la fine di ogni ardire generoso e propositivo. Un cuore vuoto è peggio di una testa vuota, di uno stomaco senza cibo.

Un cuore vuoto è una giornata senza sole, una notte senza stelle, un mattino che è già tramonto, l’infinito che è già finito, un albero spoglio di foglie morte, il bianco e nero che prende il posto dei colori più belli e splendenti, un fiore che appassisce prima ancora di sbocciare.

La fine.

Come quando nel silenzio lanci un urlo ma è solo un sussurro. Nessuno ti ascolta e la tua voce si disperde nel vuoto.

Nel tuo vuoto.