LE PAROLE NEI RICORDI


Manca poco al countdown più atteso dell’anno, ma c’è ancora tempo per sfogliare l’album dei ricordi di questo 2019 che sta per andare in soffitta insieme agli altri che lo hanno preceduto. Riavvolgiamo il nastro come un film già visto, bello o brutto che sia, fortunato o funesto per tanti, pochi o per nessuno. Qualcuno ci ha lasciato, qualcun altro è rimasto a farci compagnia, il vecchio albergo della Terra si spopola e si ripopola nel solito ciclo della vita.

Come ogni anno, ecco il calendario 2019 de “Le parole del mio tempo”, con i post più letti ed apprezzati, di mese in mese in una carrellata di parole nei ricordi.

GENNAIO: “La neve di gennaio” si aggiudica la palma del post del mese. Riflessioni allegoriche sulla neve che imbianca e purifica i cuori dalle scorie dell’inverno.

FEBBRAIO: Il mese di Sanremo con “La musica che cambia” che decreta a sorpresa la vittoria di Mahmood con “Soldi”. Ma il post più letto sarà “Volevo solo essere amato”, racconto breve sulle persone dimenticate.

MARZO: “Ti presento Vittoriano”, l’intervista riproposta dopo qualche anno, piace ancora. A seguire “Storie di tutti i giorni”, raccolta di aneddoti di alcuni segretari comunali pubblicata su Amazon ottenendo un buon piazzamento nella classifica delle vendite.

APRILE: Ripropongo il racconto breve “Zucchero amaro”, che sale in vetta dei post più letti di questo mese. Piace anche “Prima di firmare, pensa”, consigli per chi intende intraprendere la carriera di scrittore.

MAGGIO: Ancora un racconto breve “La seconda volta”, che piace per la sua originalità ed ironia.

GIUGNO: Piace “L’anaffettivo”, racconto breve sull'anoressia dei sentimenti. A seguire “La solitudine dello stare insieme”, la peggiore che si possa vivere con le persone sbagliate.

LUGLIO: Comincia il techetechetè de “Le parole del mio tempo”, una rilettura dei post più letti negli anni passati che si protrarrà fino ad agosto. Vince “Le mani su di me”, racconto sulla violenza femminile.

AGOSTO: Stravince “Il dubbio”, racconto su un delitto immaginato o realmente accaduto che è presente anche nella classifica dei post più letti di sempre.

SETTEMBRE: “Amore mio”, riflessioni sulle tecniche dell’inganno in amore, sarà il più letto.

OTTOBRE: “Vestito in nero”, brano de “Le parole del mio tempo, piace ai più. A seguire, quasi a pari merito, “Niente sesso siamo obesi”, racconto sugli inconvenienti delle rotondità, e “La percezione del niente”, forse la riflessione più terribile dei nostri tempi.

NOVEMBRE: Dopo una lunga gestazione, annuncio l’uscita del mio nuovo libro “Il futuro imperfetto” che spero possa riempire, nel “venti-venti”, la libreria di tanti lettori.

DICEMBRE: Piace “La letterina di Natale”, monologo del grande e indimenticato Massimo Troisi.

A TUTTI I LETTORI DE “Le parole del mio tempo
I MIEI PIÙ FERVIDI AUGURI DI UNO SPLENDIDO

2020


SOLO UN ABBRACCIO


Non c’è gesto più affettuoso di un abbraccio. Ti fa sciogliere il sangue nelle vene e a volte può essere terapeutico, salutare, pieno di quel calore umano che non può essere compensato da nient’altro in natura. Nemmeno da una bella giornata di sole, dal fuoco ardente di un camino acceso, da un piumone imbottito nelle notti d’inverno.

Un abbraccio. È la cosa più semplice che si possa fare, il dono più bello che si possa ricevere, la generosità che passa in secondo piano nella memoria delle nostre azioni fino ad essere dimenticata troppo facilmente. Si pensa a tanto altro ma quel “tanto” a volte vale poco o niente.

Un abbraccio vale molto di più di quel tanto altro.

Ecco, se dovessi scegliere un modo di fare gli auguri di Natale ai lettori e agli amici de “Le parole del mio tempo” esprimerei questo desiderio: che ad una certa ora, ad un certo istante di questo Santo giorno, ciascuno si unisse all'altro in un grande abbraccio per sentire dentro il vero calore che manca.

Un abbraccio.

Solo un abbraccio.

I miei auguri a tutti voi di un felice Natale.

Vittoriano Borrelli



LA LETTERINA DI NATALE


Natale, tornano alla memoria le letterine. Quanti di noi, da bambini, non hanno provato l’emozione di scriverne una ai propri genitori con tanto di busta nascosta sotto il piatto del papà? Oggi i tempi son cambiati e queste cose non si usano più. Magari si mandano poesie e messaggi direttamente dal cellulare, tutto è veloce ed immediato ma forse le emozioni non sono le stesse.

Per questo Natale ho voluto ricordare uno splendido monologo del grande Massimo Troisi recitato nel 1982 che aveva a che fare con la letterina di Natale. A dire il vero il tema principale era la preghiera rivolta a Gesù per il cibo ai bambini buoni, ma ci sono diversi spunti e correlazioni con la letterina che la maestra ci insegnava a scrivere in occasione del Natale.

Riporto questo monologo tradotto in italiano anche se so di fare un torto alla maestria di Troisi che con il suo impeccabile e inconfondibile dialetto napoletano lo aveva reso stuzzicante e ineguagliabile.

È un omaggio al genio di San Giorgio a Cremano (paese vicino alla mia città d'origine, Portici), a 25 anni dalla sua prematura scomparsa.

Eccolo:


Con mia madre, guai se uno cominciava a mangiare senza fare la preghiera.

“Gesù ti ringrazio per il cibo che mi hai mandato e mandalo a tutti i bambini buoni.”

 E ogni volta arrivavo a scuola con una fame. Niente, dovevamo fermarci là.

“Gesù grazie del cibo che mi hai mandato…”

E a me, io ero proprio piccolo, a me questa cosa suonava un po’, cioè… mi dicevo tante volte:

“Già questo fatto di mandare il cibo solo ai bambini buoni …. se uno è Gesù ma che, fa queste cose? Se uno era un figlio  un po’ più vivace moriva di fame? “Diglielo pure a quello.” 

E invece no, sempre questa cosa di mandarlo solo ai bambini buoni…Io però mi facevo i fatti miei, non si può mai sapere, adesso me lo leva pure a me. Non era per vigliaccheria, era che avevo fame. Allora dicevo è meglio che stia zitto. Poi andai a scuola e a Natale stavamo qua e facemmo la letterina:

“Cari genitori , vi ringrazio per avermi messo al mondo…” Adesso non me la ricordo la letterina…

“Caro papà, ti ringrazio per il cibo che mi mandi…”  Allora io bloccai tutto.

“Cara maestra, qua ci sta una cosa che non va, forse lei non è al corrente, a me il mangiare me lo manda Gesù!”

MASSIMO TROISI

L’ALBERO PIÙ GRANDE


Voglio un albero il più grande che c’è
Che arrivi al cielo fino a toccare le nuvole
per sprigionare pioggia e bagnare la terra
a lungo divelta dalla ignobile guerra

Voglio un albero che sia il più verdeggiante
Che mi faccia da bastone per le mie membra stanche
E mi conduca sulle strade che non ho mai percorso
fino ad addormentarmi nell'ultimo scorcio

Voglio un albero che giunga alle stelle
Per farle cadere e regalare un sogno
a chi non ce l’ha perché gli è stato strappato
in un giorno sbagliato nel giaciglio violato

Voglio un albero il più luccicante
Che illumini ogni cuore soffuso e rabbuiante
Radioso e brillante un vero diamante
Così raro e prezioso il tuo abito più importante

Voglio un albero il più ramificato
Rigoglioso e avvolgente per tutta la gente
Che ha voglia di stringersi pur restando all'addiaccio
In questa notte magica con un unico abbraccio







L'ABITO NON FA IL MONACO


Preti e suore che si sposano tra loro, timorate di Dio che rimangono incinte prima di qualsiasi conversione, pedofili mascherati da pastori alla guida di fanciulli indifesi. Un quadro orripilante che è un insulto alla Fede religiosa, qualunque essa sia. Se i tempi sono cambiati in nome di una capziosa modernità dalle “larghe vedute”, meglio essere atavici, matusalemmi, retrogradi.

In questi giorni notizie del genere sono spuntate come funghi alimentando discussioni contrapposte tra assoluzionisti e acerrimi censori ma, fatto più preoccupante, propugnando il dubbio in quelle che sembravano essere convinzioni ben salde e incontrovertibili.

Se c’è una cosa che invece non ammette dubbi e ripensamenti è proprio la Fede. Il rapporto con Dio è di intima e immacolata matrice ma per coloro che scelgono la vita clericale o monastica questa relazione dovrebbe essere immune da qualsiasi condizionamento esterno che potrebbe renderla meno assoluta ed esclusiva.

Di questi tempi si parla molto di un'apertura al matrimonio degli appartenenti alla Chiesa perché, si dice, non ci sarebbe alcuna incompatibilità nel servire il Signore e fondare nello stesso tempo una famiglia a cui concedere uguale dedizione. Non so se è giusto, qui si tratta di mettere in correlazione l’Amore assoluto e l’Amore relativo che invece poggiano su basi ispiratrici diverse.

D’altronde se gli uomini e le donne del Clero hanno gli stessi impulsi e desideri delle persone “comuni”, tanto vale espungerli da una casta che invece li etichetta con finalità e aspirazioni ben precise. Tanto vale affermare che la Chiesa è la casa di tutti e che ciascuno possa celebrare messa, fare omelie o dedicarsi a missioni umanitarie senza la necessità di essere consacrato, di vestire l’abito talare come indicatore di una certa appartenenza.

C’è in gioco qualcosa di molto importante e di prezioso: la fiducia e il suo contrario, ovvero l’inganno, l’affidarsi nelle mani di chi, in veste di intermediario, dovrebbe purificarci di tutti i nostri peccati. Ma il peccato e il peccatore si mescolano nei ruoli e nelle interposizioni generando confusione, sgomento, disincanto.

La crisi dei valori passa anche da qui. È un problema di autenticità della vocazione, della perdurante dicotomia dell’essere rispetto all’apparire, così che l’abito non fa il monaco e non c’è vestito che tenga per nascondere quello che si è o si vuole essere.

Oggi, più di ieri, è più facile la trasposizione, l’interposizione, la riconoscibilità dell’irriconoscibile e si viaggia inseguendo ideali divini che si scoprono essere pezzi di carta che volano nei cieli infiniti per bruciarsi al primo sole del mattino.



IL PICCHE NICCHE


Natale, Capodanno, Befana, quando verso il quindici di dicembre comincio a sentire parlare di feste, tremo, come a sentir parlare di debiti da pagare e per i quali non ci sono soldi. Natale, Capodanno, Befana, chissà perché le hanno messe tutte in fila, così vicine, queste feste. Così in fila, non sono feste, ma, per un poveraccio come me, sono un macello.

E qui non si dice che uno non vorrebbe festeggiare il Santo Natale, il primo dell’anno, l’Epifania, qui si vuol dire che i commercianti di roba da mangiare si appostano in quelle tre giornate come tanti briganti all’angolo della strada, così che, alle feste, uno ci arriva vestito e ne esce nudo.

Forse ai tempi che Berta filava, Natale, Capodanno e Befana erano feste sul serio, modeste ma sincere: ancora non c’erano l’organizzazione, la propaganda, lo sfruttamento. Ma dagli, dagli e dagli, anche i più sciocchi si sono accorti che con le feste si poteva fare la speculazione; e così, adesso, la fanno.

Feste per i furbi, dunque, che vendono roba da mangiare; non per i poveretti che la comprano. E tante volte ho pensato che per il pasticciere, per il pollaiolo, per il macellaio, quelle sono feste davvero, anzi feste doppie: feste perché feste e poi feste perché in quelle feste loro vendono dieci volte tanto quanto nei giorni che non c’è festa. E così, mentre il disgraziato festeggia le feste a mezza bocca, con la borsa vuota e la tavola scarsa, quelli le festeggiano sul serio, con la borsa piena e la tavola traboccante.

Del resto, per farvi capace che ho detto la verità, guardate la strada dove ho la mia bottega di cartolaio. In fila, uno dopo l’altro, ci sono Tolomei il pizzicagnolo, De Santis il pollarolo, De Angelis che ha il vapoforno, e Crociani che ha la fiaschetteria. Fateci caso, che vedete? Montagne di formaggi e di prosciutti, stragi di polli e gallinacci, sacchi pieni di tortellini, piramidi di fiaschi e di bottiglie, luce e splendore, gente che va e gente che viene, dalla mattina alla sera, senza interruzione, come in un porto di mare, nelle prime quattro botteghe.

Nella mia cartolibreria, invece, silenzio, ombra, calma, la polvere sul banco, e, sì e no, qualche ragazzino che viene a comprarsi il quaderno, qualche donna che entra a prendersi la boccetta d’inchiostro per fare i conti della spesa. E io rassomiglio alla mia bottega, vestito di uno zinale nero, magro, affamato, con addosso l’odore della polvere e della carta, sempre acido, sempre pensieroso; e loro, invece, De Angelis, Tolomei, Crociani, De Santis, sono tutto il ritratto dei loro affari che vanno tanto bene, belli, rossi, grassi, con la voce sicura, sempre allegri, sempre strafottenti. Eh, ho sbagliato mestiere; e con la carta stampata o bianca, c’è poco da fare; e ne consumano più loro per involtare pacchi che io per far leggere o scrivere.

Basta, qualche giorno prima di Capodanno, mia moglie, una mattina, mi fa: “Senti, Egisto, che bella idea… Crociani ha detto che a Capodanno ci riuniamo tutti e cinque noialtri commercianti di questa parte della strada, e facciamo un picche nicche per la fine dell’anno.”

“ E che cos’è il picche nicche?” domandai.
“ Beh, sarebbe il cenone tradizionale.”
“Tradizionale?”
“Sì, tradizionale ma in questo modo: ciascuno porta qualche cosa e così ciascuno offre a tutti e tutti offrono a ciascuno.”
“Questo è il picche nicche?”
“Sì, questo è il picche nicche… De Angelis ci metterà i tortellini, Crociani il vino e lo spumante, Tolomei gli antipasti, De Santis i tacchini…”
“E noi?”
“Noialtri dovremmo portare il panettone.” Non dissi nulla. E lei insistette: “Non è una bella idea questo picche nicche?... Allora gli dico che ci stiamo?”

Stavo seduto al banco, scartando un pacco di cartoline d’auguri natalizi. Dissi, finalmente: “Per me, mi pare che questo picche nicche non sia tanto giusto... De Angelis i tortellini ce li ha a bottega, e così Crociani il vino, Tolomei gli antipasti e De Santis i tacchini... ma io che ci ho? Un corno... il panettone debbo comprarlo.”

 “Che c’entra?... anche loro, la roba la pagano, mica gli cresce in bottega... che c’entra... lo vedi che sei sempre il solito... vuoi sempre fare il difficile, ragionare, fare il sottile... e poi ti lamenti che le cose non ti vanno bene.”

Insomma discutemmo un bel po’ e finalmente io tagliai corto, dicendo: “Va bene, digli che ci sto al loro picche nicche... porteremo il panettone.” Lei si raccomandò, allora, che lo portassi bello grosso, per non fare cattiva figura: due chili, almeno. E io promisi il panettone bello e grosso.

L’ultimo dell’anno lo passai, al solito, a vendere cartoline di auguri e figurine di carta per i presepi. Intanto, i miei vicini vendevano gallinacci e polli, tortellini e tagliatelle, cassette di liquori e di vini pregiati, formaggi e prosciutti. Era una bella giornata e io, dal fondo del mio negozietto nero, vedevo, di fuori, passare nel sole le donne cariche di roba. Era proprio una bella giornata, da Capodanno romano, con un cielo turchino, duro, che pareva il cristallo fino fino e tutte le cose che sembravano dipinte su questo cristallo, con i loro colori.

A mia moglie, la sera, chiudendo bottega, dissi: “È inutile che mangiamo... tanto la mangiata la facciamo a mezzanotte con il picche nicche... non fosse altro che il panettone che porto io, c’è da mangiare per cento.” Ed effettivamente, lo scatolone del panettone era proprio enorme. Però dissi a mia moglie che non se ne occupasse: l’avrei portato io.

Alle dieci e mezzo, entrammo nel portone di Crociani che aveva la casa proprio sopra il negozio. I Crociani credo che ci abitassero da più di cinquanta anni: ci aveva abitato il nonno quando la fiaschetteria non era che un’osteriola dove gli operai andavano a bere il quintino; il padre che l’aveva ingrandita vendendo il vino all’ingrosso; adesso, ci stava Adolfo, il figlio che, oltre al vino, vendeva anche il whisky e gli altri liquori stranieri. 

Era uno di quegli appartamenti malandati della vecchia Roma tutto corridoi e stanzette; ma Crociani, un giovanotto con le guance gonfie e gli occhi piccoli, ci guidò con orgoglio nella stanza da pranzo: salute che bellezza. Tutti mobili nuovi, di mogano lucido, con le maniglie di ottone e le zampette sottili di acero bianco. L’ultima volta che l’avevo veduta, quella stanza, era ancora come in passato: con un tavolone andante, le seggiole di paglia, le fotografie alle pareti, e, nel vano della finestra, la macchina da cucire. Tutto questo, adesso, non c’era più: oltre a quei mobili, notai un grande quadro dorato con un tramonto sul mare; una radio enorme che serviva anche da bar; soprammobili di porcellana in forma di donnine nude, pagliaccetti, cagnolini; e, sulla tavola preparata, un servizio di porcellana dei più fini, stampato a fiorami rosa.

“L’ho comprata all’Argentina” mi disse Crociani indicando la stanza, “indovina un po’ quanto l’ho pagata.” Dissi una cifra e lui me la triplicò, gonfiandosi per la soddisfazione. Intanto arrivava nuova gente; e presto fummo al completo.

Chi c’era? C’era Tolomei, un pezzo di giovanotto coi baffi, che, quando pesa sulla bilancia l’affettato, dice alle serve: “Lascio?”; c’era De Angelis del vapoforno, un ometto piccolo, con la faccia da minchione: ma lui invece è un furbo che da ragazzino andava in giro con la sporta e adesso invece vende tagliatelle a tutto il quartiere; c’era De Santis, il pollarolo, che è rimasto contadino come al tempo che veniva a Roma col panierino delle uova di giornata: con la faccia senza peli, grigia e massiccia come una pagnotta e la parola greve della gente del viterbese.

C’erano le mogli loro, tutte infronzolate, ma i figli non c’erano, perché, come disse Crociani offrendo il vermut, questa era una serata tra commercianti, per salutare l’anno che veniva, anno commerciale anzitutto, durante il quale tutti dovevano fare quattrini a palate. Dico la verità, vedendoli seduti a tavola, mi piacevano anche meno di quando li vedevo sulle soglie delle botteghe: durante il commercio, nascondevano la soddisfazione e, magari, anche, si lagnavano; ma adesso che si trattava di far festa e i clienti non c’erano, la soddisfazione gli schizzava fuori dai pori.

Ci mettemmo a tavola che erano le undici e attaccammo subito gli antipasti di Tolomei. Qui cominciarono gli scherzi: chi chiedeva a Tolomei se la mortadella era di vero suino, chi gli ricordava la frase: “Lascio?” che lui diceva tanto spesso. Ma erano tutti scherzi con la zampa di velluto, tra gente che se la intendeva e si rassomigliava: se avessi scherzato io, che quegli antipasti me li permettevo di rado, penso che gli avrei lasciato l’unghiata; e perciò preferii mangiare e tacere.

Ai tortellini si fece un po’ di silenzio, anche perché il brodo scottava e tutti soffiavano nei cucchiai. Ma qualcuno osservò che questi erano tortellini veramente pieni e non mezzo vuoti come quelli che erano in vendita normalmente, e tutti ci fecero una risata. Stetti zitto anche questa volta e mi presi due scodelle colme di minestra per riscaldarmi la pancia. Vennero, finalmente, due tacchini arrosto grandi come due struzzi; e, anche per la grandezza, tutti si misero in allegria e cominciarono a punzecchiare il pollarolo chiedendogli dove li avesse prenotati quei due fenomeni della natura, se dal noto De Santis che forniva tutta Roma. Ma lui, che era contadino e non capiva lo scherzo rispose che, quei due tacchini, lui li aveva scelti tra cento e li aveva ingrassati con le sue mani, tenendoli in casa.

Anche questa volta non dissi nulla ma scelsi con cura una coscia grande come un monumento, e poi tre fette di ripieno, e poi un altro pezzo quadrato che non so dove l’avessero staccato, ma era buono anche quello. Mangiavo tanto di gusto che qualcuno osservò “Guarda Egisto come divora... eh, non ti succede tutti i giorni di mangiare un tacchino simile, Egisto.” Risposi a bocca piena: “Proprio così”; e dentro di me pensai che, per una volta almeno, avevo detto la verità.

Intanto i fiaschi di Crociani circolavano, e tutte quelle facce intorno la tavola lustravano, rosse e brillanti, come una batteria di rame da cucina. Salvo, però, quelle frasi sulla roba da mangiare, nessuno parlava veramente perché, in fondo, non avevano nulla da dirsi. Il solo che ci avesse qualche cosa da dire ero io, appunto perché, al contrario di loro, gli affari mi andavano male, e questo mi faceva riflettere, e la riflessione, se non riempie la pancia, almeno riempie il cervello.

Finiti i tacchini, venne un’insalata che nessuno toccò, poi il formaggio e la frutta, e quindi Crociani disse che era mezzanotte e andò in giro per la tavola mostrando la bottiglia di spumante, che, come fece notare, era autentico francese, di quello che lui vendeva tremila lire e più la bottiglia. Sul punto, però, di stappare lo spumante, tutti gridarono: “Egisto, tocca a te, facci vedere il tuo panettone.”

Io mi alzai, andai in fondo alla stanza, presi la scatola del panettone, tornai a sedere e lo scartai con solennità. Dissi, tanto per cominciare: “Questo è un panettone proprio speciale... ora vedrete.” Aprii la scatola, misi la mano dentro e cominciai la distribuzione: una boccetta d’inchiostro, una penna, un quaderno e un abbecedario per uno, ad ognuno degli uomini; per le donne, come dissi, mi scusavo, non ci avevo pensato. Davanti a questa distribuzione, tutti tacevano sbalorditi; non capivano, anche perché erano intontiti dal vino e dal mangiare.

Finalmente, De Angelis disse: “Ma, Egisto, abbi pazienza, che è ‘sto scherzo? Mica siamo bambini che andiamo a scuola.” De Santis, che pareva abbrutito, domandò: “E il panettone dov’è?”. Io risposi, alzato in piedi: “Questo è un picche nicche, non è vero? Ciascuno ha portato la roba che ci aveva a bottega, non è vero?... e io vi ho portato quello che ci avevo: inchiostro, penna, quaderno, abbecedario.”
“Ma che” disse ad un tratto Tolomei, “sei scemo o ci fai?”
“No” risposi, “non sono scemo ma cartolaio... tu hai portato gli antipasti che io sono costretto a comprarti tutto l’anno... io ho portato quello che ci avevo e che tu mai ti sogni di comprare.” De Angelis disse, conciliante: “Basta, mettiti a sedere, non facciamoci cattivo sangue. “E questa fu la proposta che venne accolta. Saltarono fuori alcuni dolci, le bottiglie furono stappate, e tutti bevvero.
Ma, come notai, al brindisi nessuno volle bere alla mia salute. Allora mi alzai e dissi, il bicchiere in mano: “Visto che non volete bere alla mia salute, il brindisi lo faccio io... Che possiate dunque, durante questo anno, leggere un po’ più, anche se, per caso, doveste vendere un po’ meno.”

Ci fu un coro di proteste e poi Crociani, che aveva bevuto più degli altri, si inferocì e gridò: “Ma piantala, iettatore... ci porti sfortuna... vendi i libri a chi ti pare ma non venirci a seccare a noi... anzi, guarda, è meglio che te ne vai ... tanto, ormai, il cenone l’hai mangiato.”

“Allora” risposi “tu non vuoi bere alla salute del commercio dei libri?”
“Ma piantala, buffone, scemo, ignorante, pagliaccio.” Ora tutti mi ingiuriavano; io rispondevo per le rime, calmo, sebbene mia moglie mi tirasse per la manica; il più cattivo di tutti era proprio il padrone di casa che insisteva affinché ce ne andassimo.

Insomma, non so come, mi ritrovai in strada, con un gran freddo, e con mia moglie che piangeva e ripeteva: “Lo vedi che hai fatto... ora ci siamo fatti dei nemici e l’anno che verrà sarà peggio di quello che è finito.”

Così, discutendo, tra i botti delle lampadine fulminate e i cocci che volavano dalle finestre, ce ne tornammo a casa.

Tratto da Racconti romani, di Alberto Moravia. Bompiani Editore
(Riproduzione consentita ai sensi dell’art. 70 legge n. 633/1941)

AMICI DA NIENTE


Ci sono parole che andrebbero usate con cautela e circospezione perché esprimono concetti e significati di grande valore. Accade invece di proferirle con facilità in discorsi pomposi e adescanti, come un pescatore che getta la rete in mare e aspetta che i pesci abbocchino.


Ti sono amico.” “Conta pure su di me.” “L’amicizia è importante.” Frasi belle da libro Cuore ma spesso slegate, nei fatti, da comportamenti non all'altezza del loro significato. La disgiunzione delle parole dall'anima crea rapporti fasulli, relazioni di circostanza che finiscono presto quasi senza accorgersene.

Nell’Era dei social tutto appare ancora più amplificato e, se vogliamo, spettacolare, ma solo fino ad un certo punto. Se sei un amico da niente su Facebook, Instagram e compagnia bella, lo sei anche nella vita reale e viceversa.

Chi trova un amico, trova un tesoro.” Non c’è proverbio più vero di questo. Un amico o un’amica non ti giudica, ti ama così come sei ed è sempre pronto ad aiutarti senza alcun tornaconto, a starti vicino anche in silenzio. Quanti di noi possono vantarsi di essere circondati da persone così? Non credo molte ed è per questo che un amico è merce rara, vale più del partner, più di un amore.

Abbondano invece gli amici da niente, ce ne sono tanti, troppi che ti ronzano intorno come insetti fastidiosi nelle torride estati. Asfissianti, indistinguibili, clonabili come la pecora Dolly ma sempre uguali a se stessi al di là delle sembianze che assumono.

Gli amici da niente hanno una loro scala di valori all'incontrario dove il bene e la generosità sono agli ultimi posti, se non fuori classifica. Di loro diffida soprattutto di quelli che sorridono troppo, quando succede stai pure certo che qualcosa di brutto sta per capitarti.

Alla larga allora dagli amici da niente. Meglio soli che essere accompagnati da gente così. Tuffarsi con lo sguardo in altri e più confortanti lidi fino a vederli sfumare, uno ad uno, dal tuo orizzonte.

Basta poco.

Basta niente.
  

RITORNO AL FUTURO IMPERFETTO


Dorian Gray dei nostri tempi. Così potrebbe sintetizzarsi il mio nuovo romanzo “Il futuro imperfetto”, prossimamente in uscita nelle migliori librerie e dal 15 novembre, per cinque giorni, in promozione gratuita formato e-book su Amazon.

I lettori che mi seguono da quasi otto anni su questo blog sanno ormai molte cose di me: il mio modo di scrivere, le emozioni che (spero) avrò trasmesso anche solo in minima parte nei miei oltre quattrocento post raccontando qualcosa di me e del mondo del mio tempo.

Credo quindi che la scelta di leggere “Il futuro imperfetto” non sia a scatola chiusa come invece potrebbe avvenire quando, entrando in una libreria, si scorrono i titoli di tantissime opere senza decidersi quale acquistare. Chi sceglie Vittoriano Borrelli sa a cosa va incontro e se mi ha conosciuto attraverso il viaggio delle parole del mio tempo, non resterà deluso.

Perché ne “Il futuro imperfetto” ci sono tutti gli ingredienti che mi contraddistinguono: ironia, commozione, suspense e il classico colpo di scena finale.

È la storia di Edo, un personaggio che ricalca in chiave moderna la figura di Dorian Gray.  Radiologo di una delle cliniche più importanti di Milano, Edo è un uomo straordinariamente bello che si serve di questa qualità esteriore per superare qualsiasi difficoltà nella vita. Una bellezza che gli dà una forza invincibile, come il Sansone della Bibbia, o malefica e deviante come, appunto, il Dorian Gray del celebre ritratto.

Dopo l’esperienza nel collegio di Rosental, in Basilea, durante la quale subisce l’influenza dominante del professor Schoengen, uomo enigmatico dal passato doloroso, Edo si afferma brillantemente nella carriera di medico diventando uno dei radiologi più in vista della città meneghina. Lo fa a discapito di tutti usando le armi di una seduzione fisica e psicologica che lo porterà a primeggiare in ogni ambito. Ma qualcosa si frappone nel suo cammino, un evento imprevisto che lo coglierà impreparato e gli farà toccare con mano tutte le sue fragilità e imperfezioni.

 Romanzo fedele all'esistenzialismo, tema a me caro, “Il futuro imperfetto si colloca fra le opere che mirano ad analizzare l’agire umano in certi contesti, con l’obiettivo di dimostrare che l’imperfezione sta proprio nelle azioni dell’Uomo più che nella Natura, di per sé perfetta e incontaminata.


Dopo l'ottima promozione gratuita a cinque giorni su Amazon, ecco il link dal quale acquistarlo in attesa dell'uscita in libreria:
Il futuro imperfetto

Ringrazio fin d’ora tutti coloro che lo faranno.


GIALLO PAGLIERINO


Una lunga fila all'ambulatorio dell’ospedale. Questa mattina, come le altre, un gruppo di persone riempie la sala d’attesa muovendosi con discrezione e timore quasi  reverenziale.

Si comincia a dare i numeri. Bisogna prenderne uno per la cassa, un altro per accedere alla sala prelievi e un altro ancora per appiccicare le etichette alle provette delle analisi.

Code su code, masse umane che si spostano da un luogo all'altro come deportati verso un destino che per qualcuno sarà benevolo, per altri già segnato.

Sembra di assistere ad una sorta di proscrizione, una condanna senz’appello che i malcapitati di turno fanno trasparire dai loro occhi che s’incrociano in tanti altri occhi, sguardi più o meno dipinti di un’ansia antica e mai pienamente dominata.

Ognuno cerca di cogliere nell'altro un indizio, una sfumatura da comparare con il proprio stato di salute: volti giallastri, invecchiati o decadenti che rivelano a tratti una bellezza che il tempo ha portato via troppo presto o che è sfiorita soltanto da poco.

Lei sta peggio di me. Lui è stanco come me. Vuoi vedere che abbiamo lo stesso male?

Intanto una voce dallo sportello continua a dare i numeri: “L25. Chi ha il numero L25?” Una signora di mezza età avanza tenendo in mano il contenitore per le analisi delle urine. Lo porta con cura, quasi come fosse un oggetto prezioso. Si avvicina al bancone e il faretto all'angolo della sala le stampa sul viso un colore simile al contenuto della boccetta: giallo paglierino.

Una donna, piuttosto conciata male, tira dalla tasca il fazzoletto e si asciuga le lacrime. L’uomo che le è accanto, forse il marito, la prende in giro stuzzicandola. “Non dirmi che hai paura di una semplice punturina? Fifona… Fifona….”

Squilla un cellulare dal fondo della sala e tutti si voltano all'unisono. Il tizio in giacca e cravatta risponde visibilmente imbarazzato:“Stai tranquilla, ci vuole ancora un po’ prima che arrivi il mio turno.” L’uomo guarda il tabellone che gli sta di fronte, poi prosegue: “Siamo a L55. Io c’ho il 74. Segnati questi numeri che ce li giochiamo al lotto.”

Qualcuno bisbiglia alla sua vicina:
Io devo fare la dialisi. Ho la precedenza.”
Bene.”, risponde l’altra, “Finirai prima.”
Sì. A morire!

Finalmente si accede all'ampia sala dove si effettuano i prelievi. È divisa in tanti scomparti, ciascuno delimitato da tende di colore bianco avorio che fungono a mo' di privacy. Sembra un capannone, di quelli che si allestiscono in tempo di guerra per assistere i feriti.

Da una tenda semiaperta un’infermiera mi fa cenno di avvicinarmi: “Si denudi il braccio e stringa forte la mano.” Eseguo come un bambino ubbidiente e intanto la guardo cercando un sorriso che non arriva.

Bene. Si rivesta e segua quella striscia rossa per l’uscita.” Stavo per rispondere “Signorsì!” Invece ho raccolto la giacca e sono corso subito fuori.

C’era un sole luminoso, di un colore vivo infinitamente diverso dal giallo paglierino. Ho preso in faccia tutta l’aria di quel primo mattino e mi sono detto che è così bello respirare la vita.

GIALLO PAGLIERINO

Racconto breve
di
Vittoriano Borrelli
(Liberamente tratto da fatti realmente accaduti)

LA PERCEZIONE DEL NIENTE


Le relazioni sono l’essenza di ogni genere di convivenza ma a volte s’innalzano tra gli interlocutori barriere insormontabili che allungano le distanze e fanno toccare con mano la percezione del niente. Accade soprattutto nelle grandi delusioni o nel disincanto che segue dopo aver creduto, per molto tempo, nelle persone sbagliate.

Il niente riempie gli spazi dell'inagibilità dell’anima ed è ciò che resta quando si accumulano ceneri di tristezza, di dolore inespresso, di parole non dette per non far del male, che si sottacciono solo per farlo a se stessi. 

La concatenazione di eventi che procurano dispiacere travolge quanto di positivo ci si propone di fare per rialzarsi, andare avanti e crederci ancora.

Ci si trova a prendere una quantità di decisioni e, fra queste, la solitudine diventa una scelta e non un’imposizione. L’alternativa non attrae, viene scartata dopo aver subito una sorta di lavaggio del cervello con una voce che ti sussurra all'orecchio, insistentemente, che niente potrà mai sovvertire l’ordine delle cose.

Scriveva Giacomo Leopardi: I fanciulli trovano il tutto anche nel niente, gli uomini il niente nel tutto. Il suo pessimismo è noto per antonomasia ma la verità, quando è nuda e cruda, non fa mai piacere.

Da bambini si viaggia con l’immaginazione e ci si accontenta di quello che si ha anche se vale niente. Percorso inverso quando si diventa adulti: si smette di sognare e il niente è ciò che resta della realtà. È la realtà stessa.

Il niente spezza ogni legame con le cose: è un bacio senza sapore, un abbraccio senza trasporto, un sorriso che si spegne negli occhi di chi non l’ha sentito. Interruzione fatale con la vita che non hai voluto ma che ti è stata affibbiata addosso come un vestito che ti sta stretto.

Non c’è cosa più reale della percezione del niente. Te la senti addosso, la plasmi e ti plasma, fino a diventare anche tu nient’altro che niente.

Come i rumori di città che si odono in lontananza. Sfumature che si dissolvono con il vento che non soffia più.

E tutto intorno si fa silenzio.

VESTITO IN NERO


Accende sigarette e spegne idee sembra un fantasma
poi si volta guarda il cielo e va per la sua strada
Si confonde con la nebbia di questa città
stancamente i passi suoi diventano realtà

Ora si è fermato e aspetta chi non ha paura
una donna o una proposta che sia più avventura
poi si spoglia e nudo aspetta un sì sopra un altare

Dio dove stai? Aspettami dammi la mano
quella mela non la coglierò non sarò un nano
Guarda poco spazio c'è quaggiù fammi tentare
troppe donne stesse facce io voglio cambiare

Dammi un po’ d'azzurro o tingimi di nero in nero
Dammi qualche cosa che sia più di un pensiero
questa mia coscienza vale più dell'indecenza

Mano nella mano... nella mano... nella mano...
un soffio piano un grido al vento un pentimento
e poi la mano nella mano... nella mano... nella mano...

Nero
Quel playboy è ormai vestito in nero
Sta piangendo e forse adesso è sincero
Dagli retta se vuoi
Nero
dagli forza se vuoi

Rosa l'ha lasciato senza speranza
Viola l'ha mangiato con arroganza
ora è solo un corpo di più
Nero o bianco pensaci tu

Quante esitazioni adesso sì non c'è ragione
Moglie prendimi e scivola sopra il mio corpo
Il kamasutra l'ho imparato bene e allora insieme
facciamoci del male respiriamoci offendiamoci

Dio non mi ascolta ma che vuoi? Anch'io ho sbagliato!
Scendi un po’ più giù e accettami come un soldato
che di sé non sa più niente e allora vive da serpente

Mano nella mano... nella mano... nella mano...
un soffio piano un grido al vento un pentimento
E allora nella mano... nella mano...nella mano... nella mano...

Nero
Nascondimi ti prego e vestimi in nero
Questo colore io l'ho amato davvero!
E fai di me quel che vuoi
Nero
ma cosa penso di noi?

Mangia e bevi questo mio sudore più nero
noi siamo schiavi e non ci basta più il vero
fumiamo questa città
e nero la vita continuerà
(Tratto da Le parole del mio tempo)


NIENTE SESSO, SIAMO OBESI!


Ho cominciato ad ingrassare da un giorno all'altro come succede con un recipiente che si riempie in un colpo solo fino all'orlo. Quando me ne sono accorto è stato troppo tardi. Una mattina, uscendo dalla doccia, mi sono guardato allo specchio e ho notato tutte quelle cose che, fino ad un attimo prima, non avevo voluto vedere: gli occhi infossati e ridotti a due minuscole fessure, il doppio mento, le spalle molli come una ricotta e i capezzoli che sembravano due mammelle cascanti.

Non c’era niente di me o di quello che ero stato un tempo, un uomo sui cinquant'anni ancora piacente, dal fisico atletico e muscoloso da fare invidia anche ai più irriducibili palestrati. Fatto sta che questo fisico così scultoreo, simile ad un Dio, ha cominciato a trasformarsi in una massa epidermica senza forma e sostanza, un’oloturia senza capo né coda che si spingeva negli abissi del mare, ora a destra, ora a sinistra, per ritornare sempre allo stesso punto.

Il motivo di questa metamorfosi l’avevo deliberatamente rimosso dalla mente, un episodio, un’immagine che aveva segnato dentro di me lo spartiacque tra la vita dissoluta, piena di donne e di sesso sfrenato e l’altra, di segno opposto, di morigeratezza, chiusura totale ai piaceri materiali, di castità assoluta e suprema.

Una conversione che all'esterno si era manifestata con la trasformazione del mio corpo da modello esemplare a qualcosa di antitetico e patologico che nemmeno i dietologi più affermati avrebbero saputo risolvere. In realtà ero io che avevo voluto ingrassare rimpinzandomi a tutte le ore del giorno di ogni cosa che fosse commestibile, allo stesso di quando, un tempo, mi ero catapultato in una vita senza freni, di facili conquiste, fino a divenire un erotomane per eccellenza.

Ma nulla accade per caso e anche questo cambiamento radicale aveva una causa, o meglio, un nome: Germana, la donna per la quale avevo perso letteralmente la testa.

L’avevo conosciuta agli albori dei miei quarantanove anni e fu subito sesso a prima vista. Facevamo l’amore dappertutto: in ascensore, nei camerini dei grandi magazzini, in macchina, nei motel e in qualsiasi altro luogo che ci sembrava propizio per dare sfogo alla nostra comune inclinazione per l’erotomania.

Germana era instancabile e proprio questa parolina che all'inizio della nostra relazione doveva essere il motore per mettere alla prova le mie capacità amatorie, divenne in seguito una specie di fardello che mi portavo addosso con fatica a causa delle richieste sempre più esigenti della mia amante.

Si sa che le donne in questo campo sono più resistenti degli uomini. Sono dotate di una componente genetica che le spinge a reiterare il piacere in un intervallo di tempo molto più ravvicinato. Diciamo che ad un certo punto della storia ho fatto fatica a pareggiare le performance di Germana che invece sembrava non stancarsi mai ed era sempre pronta a ricominciare laddove io desideravo, almeno per un po’, deporre… le armi.

Forse sto invecchiando. Forse Germana non mi ama più”, mi dicevo pensando a quella volta in cui ho avuto una defaillance durante il rapporto con la Germana che mi ha lanciato un sorrisetto ironico. Ho associato la sua espressione a quella di un corridore che arriva prima al traguardo e si prende beffa del suo avversario.  

Il nostro stava diventando un gioco al massacro e temevo di perdere colpi in un momento in cui il mio trasporto per Germana era diventato particolarmente fluente. Insomma, sono stato preso dall'ansia di non essere più all'altezza e questa incertezza ha segnato la fine del nostro rapporto. Germana ha cominciato a diradare gli appuntamenti mostrandosi sfuggente e misteriosa.

Una sera, stanco dell’ennesima scusa di non vedermi, l’ho seguita fin sotto casa. Era con un uomo ma nel buio non sono stato in grado di capire chi fosse. Ho atteso qualche minuto e sono entrato con la copia delle chiavi di cui disponevo.

All'interno non c’era nessuno e per un attimo ho pensato di essermi sbagliato, che la scena di poco prima fosse solo frutto della mia immaginazione. Poi ho visto una luce filtrare dal piano superiore. Sono salito senza fare rumore fermandomi davanti alla porta socchiusa della camera da letto. L’ho spinta lentamente e ho guardato il letto.

Germana era di spalle, completamente nuda, che contemplava l’uomo che le stava davanti. Poi si è abbassata ed è stato in quel momento che ho visto mio figlio.

NIENTE SESSO, SIAMO OBESI!

Racconto breve
di
Vittoriano Borrelli

(Ogni riferimento alla realtà è puramente casuale)

IL MONDO BUIO


C’è un mondo buio che la gente non vede, perché tutto ciò che è oscuro suscita timore e diffidenza.
È un mondo di dolore e di sofferenza che vive ai margini delle strade, dei porti e delle stazioni in attesa di un viaggio verso lidi più ospitali dell’accoglienza e della tolleranza.

Il mondo buio abbaglia e rende cieco anche chi ha una vista acutissima ma non sa guardare oltre il proprio naso. Si ha paura di cogliere le sfumature di uno sguardo che è una richiesta di aiuto, partecipazione e condivisione  del benché minimo disagio.

Il dolore altrui è visto come una malattia che può essere contagiosa e come tale da bandire tenendosi a debita distanza nella propria gabbia di vetro. Si moltiplicano così le solitudini che avanzano impetuose come le onde del mare per poi infrangersi sopra gli scogli dell’indifferenza .

Si dice che si nasce e si muore soli, ma in mezzo c’è tutta una vita che sarebbe meglio viverla circondati dagli affetti più cari e da amici sinceri che non ti giudicano e che ti amano senza chiederti niente. Ma la vita di mezzo sta diventando sempre più scevra di qualità e di ricchezza interiore.

Attenti alla propria disattenzione non ci si accorge del vicino di casa che giace senza vita da alcuni giorni nella sua camera da letto, della signora Maria che da qualche tempo non si vede più al mercato o di quel tizio col cane che era solito stare su una panchina del parco pubblico della città e che nessuno mai si è chiesto dove sia andato a finire.

Non ci si accorge delle assenze nemmeno quando erano presenze, macchie umane trasparenti e impalpabili.

E il mondo buio rimane ai margini di una cornice dorata che brilla di luce indotta da un manto di stelle di carta.

EROS


Eros ti ha avuta una notte
non era l'abbraccio di sempre
tu lo guardasti un istante
con quella faccia da amante

E lo spogliasti da esperta
bellissima eri perfetta
Eros ti amava davvero
non era solo un pensiero

Stesa sul letto sembravi
delusa e già stanca di amarlo
Lui non parlava e aspettava
Non era stanco ti amava

Sentivi sul corpo le sue mani incerte
che andavano giù per posarsi sul ventre
Lo incoraggiasti ma intanto
pensavi a qualcosa da fare
decidere sola od illuderlo ancora

E lui restava a guardarti per ore
Stava a cercare parole
come un bambino insicuro
sopra il tuo seno maturo

Stava a sognarti nel sogno
a consumarti di nuovo
come un amante finito
stringeva in petto l'addio

La luce di un giorno aspettato
gli offriva quel conto salato
Eros ti amava davvero
non era solo un pensiero

Tu ti fermasti a guardare quei fiori
mancava la forza di sbatterlo fuori
E lo baciasti di nuovo
sciogliesti i capelli che sembravano oro
e poi riprendesti a seguire il suo volo

E lui restava a guardarti per ore
Stava a cercare parole
come un bambino insicuro
sopra il tuo seno maturo

Stava a sognarti nel sogno
a consumarti di nuovo
come un amante finito
stringeva in petto l'addio
(Tratto da Le parole del mio tempo”)

AMORE MIO


Si dice che l’infedeltà sia tipica del genere umano a differenza degli animali (e dei cani in particolare) che invece riescono a sviluppare un legame affettivo costante e duraturo. Siamo per costituzione portati più facilmente a distaccarci dagli affetti o a provarne di nuovi quando quelli che abbiamo non ci soddisfano più.

Questo accade soprattutto per incapacità di amare o per bisogno di colmare certe carenze affettive che ci trasciniamo fin dall'infanzia. Eterni scontenti o forse tendenzialmente proiettati a idealizzare l’amore che quello reale o a portata di mano ci appare sempre pieno di difetti.

Non so se la crisi della coppia, oggi sempre più crescente a giudicare dal numero dei divorzi o delle separazioni, sia associabile a questa instabilità affettiva in nome della quale molte persone sono inclini a cambiare partner o a decuplicarli con una serie infinita di tradimenti.

E c’è chi pensa di passarla liscia costruendosi una doppia vita o procurandosi degli stratagemmi più fantasiosi per non essere scoperto.

Per l’infedele incallito, ad esempio, vi sono due paroline magiche che potrebbero toglierlo da ogni imbarazzo: Amore mio. Che si chiami Lucrezia, Ermenegilda o Teresa, o che si chiami  Saverio, Arturo o Tarcisio, meglio sostituirli tutti con un caro ed affettuoso Amore mio.

Certo, esistono tanti altri appellativi come Trottolino, Pucci Pucci o Cuccioletto ma l’Amore mio è un classico, del genere neutrale che può andare bene per qualsiasi amante.

L’amore è bello finché dura. Ad ogni inizio c’è sempre una fine, un altro sogno da inseguire. E la realtà, in questi casi, non supera mai la fantasia.

Insomma, se non esiste l’amore eterno ci si può accontentare di un fugace ed istantaneo Amore mio in attesa di una nuova storia già pronta a sbocciare alle luci dell’alba.

Sperando che questa volta sia per sempre.


IL DUBBIO


Da qualche giorno sono assalito dal dubbio di avere ammazzato qualcuno. Esattamente da trentasette ore e quarantacinque minuti, il tempo trascorso da quando mi sono recato al supermercato fino adesso che sono a letto a rimuginare su quello che è (o sarebbe) successo.

Ho passato una notte piena di ripetizioni: mi sono alzato e sono andato in cucina, ho aperto il frigo per cercare qualcosa da bere, sono ritornato a letto per poi rialzarmi e rifare le stesse cose. Niente. Non c’è stato modo per acquietarmi e spegnere la mia sete di risposte alle domande che in rapida successione hanno iniziato a pungolarmi come una spilla su tutto il corpo.

Ricordo perfettamente quello che ho fatto al supermercato, le cose che ho comprato, la spesa che ho prelevato dal carrello e che ho riposto con cura nel bagagliaio della mia macchina. Ho bene impressa ognuna delle azioni che ho compiuto prima di imboccare la strada del ritorno, come la chiave d’accensione con la quale ho fatto partire l’auto al primo colpo e la retromarcia che ho inserito per uscire dal parcheggio.

Poi un tonfo, qualcosa contro cui avrò urtato con la macchina e che mi ha fatto pensare ad una persona per le grida che si sono levate subito dopo l’impatto.

Non ricordo altro. Black-out completo, come se tutto si fosse fermato al momento in cui ho creduto di avere investito qualcuno. Un dubbio che mi ha accompagnato nelle ore a seguire e che ora mi sta lacerando come un rimorso acerbo e incalzante, benché inspiegabile e immotivato.

Provo a riordinare le idee, mentre mi giro e mi rigiro tra le coperte con il televisore acceso dal quale sento sciorinare le notizie di cronaca ma non quella (per me) più temuta. Dunque, mi dico, mi chiamo Mario Cravattini, ho trentacinque anni, funzionario di banca tutto casa e chiesa. Cosa avrò fatto di male da macchiarmi la coscienza per un delitto che, per giunta, dubito di aver commesso?

Chissà perché ma mi viene in mente la notte dell’Innominato de “I Promessi Sposi”. Come questo personaggio sono preso dal pentimento per qualcosa di cui dovrei vergognarmi e contro cui dovrei combattere con una conversione purificatrice di tutti i mali. Come l’Innominato ho ripercorso a ritroso tutte le fasi della mia vita, abbattuto gli argini dei più reconditi pensieri e ricordi che credevo di aver riposto per sempre in qualche cassetto sperduto della memoria.

Mi rivedo bambino colto in flagrante da mia madre nell’atto di compiere una marachella. Più del castigo che mi sarei aspettato, ho temuto d’imbattermi nel suo sguardo pieno di severità e privo della benché minima indulgenza per quella malefatta. Questo sguardo, così glaciale e sprezzante, mi ha accompagnato per tutta la vita facendomi precipitare nell'insicurezza e nella terribile certezza che non sarei mai stato felice.

Non avrei avuto nessuno da amare, e nessuno mi avrebbe mai amato. Neutralità che è stata la costante di tutto il mio percorso relegandomi nelle cose invisibili, che si dissolvono in fretta come una nuvola passeggera in un cielo terso e crepuscolare. 

Gli occhi mi si sono riempiti di lacrime ma ho sentito per la prima volta una calma interiore che mi ha fatto assopire lentamente mentre in sottofondo lo speaker della televisione ha annunciato la triste notizia:

“La redazione ci riferisce di un omicidio per futili motivi al parcheggio del supermercato di San Giovanni. Una macchina, uscendo in retromarcia dall'area di sosta, ha urtato contro il carrello della spesa trainato da un cliente. Ne è scaturita una violenta discussione con il conducente dell’auto che è stato raggiunto da due colpi di pistola. Trasportato d’urgenza all'ospedale della città, l’uomo è spirato pochi minuti fa.”

IL DUBBIO

Racconto breve
di
Vittoriano Borrelli

(I riferimenti a fatti o a personaggi della realtà sono puramente casuali)

BLOG RETRO: 3 febbraio 2017